Lo aspettano al varco Calcutta, in tanti, pronti a verificare la tenuta del giovane cantautore, oggi fra le figure di riferimento della nuova scena "itpop". Ma per comprendere davvero Calcutta dovreste venire a Latina, respirarla, sentirla sulla pelle. Mettete che non vi piacciano le spiagge di Sabaudia e lo struscio fighetto serale, mettete che non abbiate una macchina per sfrecciare verso la capitale: beh, potreste anche decidere di recidervi le vene. Roma è così vicina che a Latina non può succedere quasi mai nulla di davvero eccitante, e questo lo si metabolizza sin da adolescenti. Quel poco che accade Calcutta lo racconta, con sincerità, sensibilità e partecipazione, attraverso una poesia metropolitana che esce dalla provincia per diventare universale, meglio di quanto sia riuscito a fare l’altro famoso cantante suo concittadino.
Ma più di qualcuno in città non lo ama, lo percepisce come un oggetto misterioso, ritenendo quelle canzonette “senza troppi contenuti” scrivibili da chiunque. Il prossimo luglio Calcutta suonerà nello stadio della sua città (utilizzato da una squadra che milita fra i Dilettanti dopo il fallimento succeduto a tre anni di miracolosa Serie B), ma è un evento eccezionale: ha suonato negli ultimi tre anni più volte in ogni angolo dello stivale, ma a Latina quasi mai; anzi, ha deciso di traslocare a Bologna, alla ricerca di una nuova dimensione, sia artistica che politica. Centinaia di concerti eseguiti ovunque, sempre più gremiti di gente, fino a far scoppiare i palazzetti e prossimamente gli stadi e le arene. La personale rivincita contro tutto ciò che lo ostacola, contro chi lo taccia di antipatia o di faciloneria poppettara. Nel frattempo quelle canzoni continua a scriverle, lucide, vere, reali, per sé, e da qualche tempo anche per altri, anche più ”importanti” di lui.
Edoardo ne ha messe dieci dentro “Evergreen”, probabili nuovi tormentoni, non del quartierino ma dell’intero circuito indie. Perché Calcutta alla fine ce l’ha fatta a uscire dalla provincia, i suoi sono diventati gli inni di una generazione, mandati a memoria in tutta Italia non soltanto da adolescenti e post-adolescenti, ma anche da insospettabili che se li cantano di nascosto sotto la doccia, ben attenti a non farsene accorgere da figli e amici. Il fenomeno Calcutta non si sgonfia, come in tanti avevano troppo arditamente pronosticato all’indomani di “Mainstream”, tutt’altro: continua a dilagare, non più fenomeno modaiolo passeggero, ma cantautore vero, come i modelli ai quali si è sempre ispirato. Ma senza continuare a insistere troppo con Carboni o Dalla: è stato bravo a trovare una strada personale, che nessun altro avrebbe potuto tracciare se non lui, con il suo essere al centro della scena in maniera sempre così apparentemente casuale. La scommessa è vinta, le mode sono stati tutti quelli che, venuti fuori dopo di lui, si son bruciati al sole in poche settimane di esposizione, risucchiati da un prematuro oblio.
Ha visto le telecamere di Corso Sempione, e ci scherza su - ma magari neanche più di tanto - cantando in “Rai” che ora non vuole più andar via (“voglio restare qui”, declama, facendo il verso al Vasco nazionale). Il successo in campo musicale oggi non gonfia più i conti in banca come un tempo, ma vedere migliaia di giovani cantare le proprie canzoni è una droga, una scarica adrenalinica alla quale non puoi rinunciare una volta provata. Ci prende sempre un po’ in giro Calcutta, prospetta un’anima rurale, e si mette in posa nella foto di copertina circondato da un gregge, anticipando le bizzarre idee esternate dalla sindaca Raggi e battendo sul tempo l’immagine di apertura del nuovo Sorrentino. Restare “Evergreen”, ambire alla semplicità, coltivare amori e raccontarli con le parole del quotidiano, senza ricercare iperboli filosofiche e marchingegni letterari. “Parla come mangia” si dice in provincia, e le parole sono saldamente al centro della sua idea di musica, parole che descrivono piccole realtà di tutti i giorni, alternate a situazioni ai confini con il surreale, dove la realtà diventa surrealismo e il surrealismo diviene reale. Come “la nebbia nei risvolti”, come “mangio il buio col pesto”. E poi gli slogan generazionali, sparati al centro dei ritornelli, come il “sento il cuore a mille”, il “Ué deficiente” e il “E’ un sacco che non te la prendi, un sacco che non mi offendi” riversati rispettivamente nei tre instant classic “Paracetamolo”, “Pesto” e “Orgasmo”.
Ci sono le parole, che rendono “Evergreen” più disco dei precedenti (a pensarci bene la prima versione di “Mainstream” contava appena sette tracce cantate), ma ci sono anche arrangiamenti curatissimi, un esempio è quello che accade al minuto 2’10’’ dell’iniziale “Briciole”, il brano che imprime subito una spinta decisiva all’album, oppure quando si scorge una chitarra che non ti aspetti di qua, o un imprevisto pattern di batteria di là. Qualche spunto resta minimalista: “Saliva” lascia in evidenza i saliscendi della voce, “Dateo” ne costituisce una sorta di coda strumentale, un piccolo divertissement di elettronica sghemba. Altrove si sperimentano nuove soluzioni, che schiudono interessanti prospettive sonore future, come nel caso del flanger che ammanta “Nuda nudissima”.
Il Calcutta tenerone non esiste più, quello che voleva soltanto “scomparire in un abbraccio” e “reimparare a camminare”, tantomeno quello smarrito che voleva tornare a casa ma non sapeva bene a casa di chi. Il ragazzo sta diventando adulto, consuma orgasmi sulle scale e fra campi di kiwi nei quali farsi seppellire e binocoli per guardarsi meglio negli occhi, continua a macinare ritornelli infettivi. Parla la stessa lingua dei suoi coetanei e richiama la precaria contemporaneità dei ragazzi di oggi (“mi chiamerai da un call center”) in immagini che fondono tenerezza e insolenza (“negli occhi ho una botte che perde”, “sto perdendo il tempo perso che mi va”, “è un sacco che non sputi allo specchio per lavarti la faccia”) nei quali i teenager di oggi potranno tornare a rispecchiarsi. A un certo punto crea un parallelo con il calciatore Dario Hubner, triestino, altro personaggio cresciuto in provincia che dopo anni di gavetta arrivò a vincere la classifica dei marcatori nel campionato di Serie A.
L’ho incontrato una sera, Calcutta, mi ha confessato sottovoce “faccio un altro disco e smetto, tanto ormai so come si scrive una bella canzone”. E invece non sarà il suo ultimo disco, “Evergreen”, semmai è stato il più delicato da realizzare, per via dei riflettori puntati contro. Ma lui se ne è fregato di tutti, continuando a macinare nuovi singoli di successo con svizzera puntualità, senza mai perdere nulla in freschezza, urgenza e attitudine easy. Continueranno a plagiarlo, e questo per lui non potrà che rappresentare motivo d’orgoglio. Più vero e meno calcolato dei vari Giornalisti di turno, al momento resta una spanna sopra tutti quelli che aspirano a diventare il nuovo Calcutta. Coloro che lo aspettavano al varco dovranno attendere almeno un altro giro in riva al fiume.
24/05/2018