Ciao, mi chiamo Calcutta e vengo da Latina...
"Sui giovani d'oggi ci scatarro su": così cantavano gli Afterhours nel 1997 nel loro album manifesto "Hai paura del buio?", in quello che diventò una sorta di inno contro i leoncavallini filo-sinistroidi che al weekend se ne andavano in giro con la barca a vela del papà. Passano gli anni, Manuel Agnelli continua a creare album ambiziosi e nel frattempo si afferma come giudice nei talent show. Nel nuovo millennio restano però ancora validi motivi per approfondire la perdita dei valori dei post-adolescenti, ma ora sono i loro coetanei a dover prendere la parola, rivolgendosi alla giovane platea con un linguaggio rinnovato, affrontando argomentazioni che possano spaziare dall'eterno precariato all'assenza di certezze, dalle grandi solitudini alle piccoli difficoltà della vita quotidiana.
Molte band di nuova generazione si sono focalizzate su questi temi, ogni anno in Italia assistiamo a un nuovo "caso", da Lo Stato Sociale a I Cani, sino all'esplosione di fama e notorietà che ha investito Edoardo Calcutta, iper-tempestivo nel realizzare il disco giusto al momento giusto, un personaggio al quale è impossibile non voler bene, vestito di quella fragilità che è poi la medesima di coloro che lo seguono con sconfinato affetto. Un ragazzo che con disarmante e contagiosa semplicità ha costruito canzoni facili e dirette, conquistando tutti, non solo i teenager (o poco più) raffigurati nei suoi testi, ma anche persone più adulte, che lo trovano un abile cantautore, fino ai navigati critici musicali che scorgono in lui la capacità di tradurre su disco in maniera compiuta la miglior espressione possibile della contemporaneità giovanile. Canzoni sincere perché l'autore è parte integrante della realtà che racconta, micro istantanee uscite dalla cameretta e divenute patrimonio di tutti.
Calcutta, all'anagrafe Edoardo D'Erme, nasce a Latina (conosciuta dai più giusto per la palude bonificata, per le hit e i coming out di Tiziano Ferro e per le tette di Manuela Arcuri) nel novembre del 1989, cresce vivendo la realtà della provincia cronica: Roma è a due passi e catalizza tutto, nel bene e nel male, lasciando le zone limitrofe in uno stallo senza fine. Inizia presto a suonare la chitarra, da autodidatta, e si cimenta in vari progetti musicali che puntualmente naufragano. È un personaggio malinconico e singolare, Calcutta, spesso solitario si aggira per la città, anche a tarda notte, osserva, riflette, e inizia a scrivere i suoi bozzetti di vita vissuta, pregni di un insolito realismo, fotografie nitidissime della nostra contemporaneità.
La leggenda narra che Edoardo nel 2007, non ancora maggiorenne, creò con un amico il progetto Calcutta, un duo avente l'obiettivo di miscelare l'approccio indie-pop con le melodie tipiche del miglior Battisti. Inutile domandargli il perché sulla scelta del nome: tutto nella sua storia pare accaduto per caso, egli stesso sembra continuamente sorpreso da qualsiasi accadimento lo circondi. Lucio Battisti, dicevamo, da sempre citato espressamente come proprio punto di riferimento, assieme a Luca Carboni, Lucio Dalla e Caetano Veloso. Ma è bene non prendere mai troppo sul serio qualsiasi dichiarazione di Edoardo, bravissimo nel giocare a confondere le acque per mantenere alta la curiosità sul proprio personaggio.
Early Recordings...
Dal 2011 il nome Calcutta identifica il progetto solista di Edoardo, pronto a proseguire in perfetta solitudine, divenendo col passare del tempo uno dei cantautori di riferimento della propria generazione. In città iniziano a conoscerlo, e finisce in circolazione una cassettina intitolata The Sabaudian Tapes: poche decine di esemplari che delineano la sua estetica musicale, piccoli racconti di provincia che iniziano a decretarne la fortuna.
Ma il tanto atteso primo disco non arriva, Edoardo ci ha messo anni per partorirlo, frenato dalla timidezza. Gli amici arrivano in soccorso e, certi del valore delle canzoni, decidono di interpretare i suoi pezzi per pubblicare un album tributo. Un tributo a un musicista che non ha mai pubblicato nulla. Idea geniale, poi purtroppo (o per fortuna?) mai realizzata, che si tramuta nella spinta determinante per convincerlo a realizzare e fissare per sempre su un supporto dodici tracce a nome proprio.
Dodici fragilissime canzoni che vengono raccolte dentro Forse..., pubblicato per l'intraprendente Geograph Records nel 2012. Calcutta vi interpreta alla perfezione i tempi che stanno cambiando, con quell'approccio da (non) musicista, che velocemente diventerà un riconoscibilissimo marchio di fabbrica. Sbarcato come un'onda anomala mai vista prima, Calcutta contribuisce a mutare le consolidate certezze dell'ascoltatore medio, divenendo il tassello fondamentale per un radicale cambio di prospettiva, che si rifà molto più all'estetica punk, che non a quella dei cantautori italiani. Forse… è la vita vissuta del ragazzo medio di provincia. Se siete amanti della perfezione musicale formale o dei testi generati per rappresentare forme di letteratura "alta" o presunta tale (tipo i Baustelle di "Fantasma"), rintanatevi dentro casa con la vostra scorta di dischi e non uscite più, perché Calcutta concretizza un atteggiamento che ha del rivoluzionario (o che comunque richiama alla mente il 1977).
La chitarra è suonata in maniera elementare, in alcuni passaggi quasi fuori metrica, l'incedere incerto e caracollante del cantato, trascinato e svogliato, dà vita a strofe che paiono figlie di un liceale confuso e distratto, le costruzioni sembrano stare in piedi a fatica. Ma alla fine questo approccio "insicuro" lascia il segno, trasformando le apparenti debolezze in diaboliche virtù, in veri e propri punti di forza, in caratteristiche fondamentali per interpretare una forma di cantautorato sghembo, sgangherato. Un nuovo modo di proporre musica che non presuppone necessariamente il fatto di saper cantare e suonare, anzi, tutt'altro. Ma a un ascolto meno distratto, chiunque può rendersi conto che Calcutta sa fare entrambe le cose, anche se con grande astuzia vorrebbe farci credere il contrario, strafottendosene dei canoni e divertendosi a prenderci per i fondelli, imponendosi come giovane promessa del nuovo songwriting nazionale.
È sempre più raro imbattersi in un nuovo personaggio musicale che non sia uscito da un talent, in grado di rimanere incontaminato pur avvicinandosi al mainstream. Calcutta risulta una piacevole eccezione e diviene la concreta rappresentazione del vento che inizia a mutare direzione. Calcutta non cerca date, sono queste che gli piovono addosso, e si ritrova a suonare su palchi importanti, anche fuori dai confini nazionali. Calcutta non cerca collaborazioni, ma la sua e-mail e il suo telefono sono incandescenti. Calcutta non vuole fare un disco, e allora gli amici lo fanno per lui. Dentro Forse… Calcutta trasmette emozioni semplici, travasate in fragili bozzetti che paiono stare in piedi a fatica, lasciati volutamente allo stato semi-embrionale, così strampalati e banali da risultare ancor più veri e originali. Voce e chitarra in primo piano, tutto il resto sullo sfondo ad abbellire senza mai rubare la scena: sprazzi di elettronica obliqua, qualche percussione sparsa, fugaci schizzi di verace elettricità mai troppo invadente.
In qualche passaggio ricorda gli Altro, altrove pare un Vasco Brondi ancora più disintegrato, per il modo particolare di essere cantautore oggi, con quella poesia indie-sfiga nella quale tanti giovani (e non solo) possono facilmente riconoscersi. Ricordi estivi, amori non ricambiati, amori problematici, malesseri adolescenziali, accenti surreali, storie semplici e comuni che partono dalla provincia cronica italiana per divenire universali. Tu chiamalo se vuoi "provincialismo cosmico". Alle spalle c'è una label in ascesa, di quelle che si prendono cura dei propri figli, Geograph Records, la stessa che pubblica la sorprendente Eva Won, che in Forse… dà una mano assieme agli altri compagni di scuderia Grip Casino, Manuel Cascone e Trapcoustic. È musica per le nuove generazioni, una sorta di new punk per laringe e corde, se avete più di quarant'anni e non gradite, tutto sommato può esser giusto così.
Ho fatto una svastica in centro a Bologna, ma era solo per litigare...
Il nome di Calcutta inizia a imporsi come piccolo caso nazionale (pur all'interno di un circuito al momento senz'altro di nicchia): Forse… è soltanto il primo, in parte timido, capitolo, ma dentro ci sono semi pronti a germogliare e generare qualcosa di importante. È lui nel 2013 la più clamorosa delle next big thing di casa nostra. Nel frattempo, quando non trascorre le serate al Pigneto, è in giro per la penisola, ospite di chiunque si presti ad accoglierlo, suonando ovunque ci sia una potenziale platea disposta ad ascoltare i suoi fragili racconti in musica.
A metà 2015 arriva il singolo che cambierà il destino di questo ragazzo, "Cosa mi manchi a fare", con il relativo videoclip, cliccatissimo su YouTube, in cui il protagonista è un ragazzo cingalese. All'improvviso la favola di Calcutta ha una svolta, abbastanza inattesa. Da misconosciuto cantore di provincia assurge al ruolo di protagonista dei rotocalchi nazionali, dove nelle seriose pagine "Cultura e spettacoli" si parla di lui, lo si intervista, si analizza il personaggio, e le sue canzoni piacciono, piacciono sempre di più, a un pubblico che si fa con il passare dei mesi sempre più trasversale.
A dicembre 2015 esce Mainstream, l'album che sancisce la sua consacrazione nazionale. Calcutta decide di (fingere di) diventare "mainstream" ma, pur dimensionandosi come ultra-pop, resta saldamente collocato nell'underground, nel suo habitat naturale, che ora inizia a stargli un po' stretto, ma dal quale meglio può descrivere quel provincialismo "sano", fatto di piccole storie che disegnano una realtà fatta di irreversibile precariato. Sono racconti che, una volta usciti dalla sfera di riferimento dell'autore, diventano universali, nei quali i giovani d'oggi si rispecchiano alla perfezione, con tenui soddisfazioni (il Frosinone per la prima volta in Serie A) che mostrano il segno dei tempi che cambiano, ma non possono avere la forza di oscurare i disagi derivanti da amori accartocciati e solitudini perenni, anche se eternamente confortevoli. La notte si trascorre mangiando una pizza da soli, poi chissà dove si andrà a dormire, magari si vedrà un film, ma il nome del regista svanirà nei ricordi, confuso nella memoria, però ci si sente liberi di poter lavare i piatti senza lo Svelto, e questo aiuta a star meglio, a sentirsi svincolati da una quotidianità che non si vuole mai troppo allineata.
Provincialismo cosmico costruito su piccole storie suburbane, e Calcutta nel 2015 azzecca il disco giusto, conservando la stessa matrice dell'esordio: quella spontaneità non si è dissolta, nonostante la scrittura dei brani si presenti maggiormente "pensata", gli arrangiamenti siano più complessi e curati, l'atteggiamento complessivo meno lo-fi, grazie alla presenza di una band alle spalle, in grado di fornire una nuova spinta energetica. Pillole di vita metropolitana musicalmente più stabili rispetto a quelle che popolavano Forse…, un concentrato di "surrealismo realista", dove qualsiasi giovane della sua generazione può rintracciare se stesso, pezzi di un puzzle di tendenza, brani rivestiti nel modo giusto, indossati dal personaggio perfetto per l'occasione, una maschera alternativa che sa farli funzionare al meglio.
Milano, Bologna, Pesaro, Peschiera del Garda, Frosinone, tutto pare frutto di appunti di viaggio, elaborato durante gli spostamenti in tour, visto che Calcutta continua a rendersi disponibile per suonare ovunque, tanto nei locali importanti, quelli dove suonano i musicisti affermati, quanto negli scantinati di periferia, nelle case della gente, ovunque ci sia una platea disposta ad ascoltarlo. Un po' Rino Gaetano, un po' Alberto Ferrari, un po' Lo Stato Sociale, un po' i due Vasco (Rossi e Brondi), enfatizzando ancor più che in passato quell'attitudine pop ben radicata nel suo Dna, frullando tutto nella contemporaneità degli anni Dieci di una generazione che "sopravvive" senza più certezze, senza un lavoro fisso, precocemente disillusa, ma non ancora sconfitta. "Frosinone" e l'accoppiata iniziale "Gaetano"-"Cosa mi manchi a fare" risultano le tracce più riuscite, nelle quali l'atteggiamento volutamente svogliato di Forse… scema in favore di una scrittura più a fuoco e di una maggiore capacità di calcolo.
Sprazzi di sperimentazione elettronica emergono nei due brevi intermezzi posti a suddividere la tracklist in capitoli e nell'ipnotica "Dal verme", fin quando la breve "Barche", due minuti per soli chitarra e voce, chiude il disco con quell'intimismo costruito su tenui flash quotidiani, che riportano alla mente cose tipo "Gli autobus di notte" del primissimo Carboni. L'ironico titolo dell'album gioca sulla tendenza dei giorni nostri a voler classificare tutto ad ogni costo, ma Calcutta, nonostante il "finto sforzo" di "poppizzare" i propri brani (aggiungendo strumenti e curando il mood) resta un personaggio inclassificabile. È semplice e sincero, occorre sperare che il tempo e gli incontri non lo normalizzino, tanto lui se ne sbatterà di tutto e scriverà altre canzoncine meravigliosamente strampalate. La dimensione live saprà rivelare se il "guadagno" riscontrato durante l'ascolto di Mainstream sarà trasportato sul palco: non più da solo con una chitarra scordata, ma leader di una band vera.
Non ho lavato i piatti con la Svelto: è questa la mia libertà...
E il responso è assolutamente positivo, ogni dubbio dissipato, Calcutta durante l'inverno a cavallo fra il 2015 e il 2016 riempie i live club di tutta Italia, realizzando un sold out dopo l'altro, culminando nel tutto esaurito all'Atlantico di Roma il 23 febbraio, dove condivide il palco con I Cani, chiudendo definitivamente un ideale cerchio con l'amico Niccolò Contessa. Assieme, la stessa sera, i due maggiori casi musicali indipendenti esplosi in Italia negli ultimi anni, finalmente protagonisti e adorati dai fan, che cantano all'unisono ogni singola parola di quelle canzoni che stanno diventando i simboli di una generazione. Calcutta canta appoggiato alla sua chitarra, accompagnato da synth, basso e batteria, e parte senza timori infilando subito il meglio del suo Mainstream, ovverosia "Frosinone" e "Gaetano": la folla canta all'unisono, dimostrando di sentirsi perfettamente rappresentata da quelle liriche che raccontano le giornate di ognuno di loro, descrivendo malesseri e incertezze, sogni e difficoltà.
La vera sorpresa, ma oserei dire conferma, di questo tour è proprio lui, timido ma in grado di affrontare le platee numerose come se stesse ancora nel rustico di un amico, cercando di imbastire delle frasi fra una canzone e l'altra, e se l'emozione è così forte da rompere le parole, poco importa, tutti sono là per ascoltare i suoi pezzi e per cantare a squarciagola la tanto invocata "Cosa mi manchi a fare".
Calcutta si dimostra una sorta di moderno menestrello in grado di trasformare emozioni e stralci di vita vissuta in parole e musica, sdoganandosi dalla solitudine del cantautore per portare dal vivo i nuovi arrangiamenti a capo di una band.
Di concerti in giro per la penisola se ne replicano a non finire per tutto il 2016, che lo vede anche protagonista in molti dei principali festival italiani, basti citare il Siren di Vasto, a fianco di Editors, Kula Shaker e Thurston Moore (!), oppure Roma Incontra il Mondo, nella splendida cornice di Villa Ada. Ma prima del giro di concerti estivo arrivano due nuove canzoni. A maggio 2016 "Oroscopo", presentata dall'autore come un semplice divertissement fra amici, diventa uno dei tormentoni dell'estate. Il 10 giugno dello stesso anno esce la deluxe edition di Mainstream, arricchita dall'inserimento dell'ulteriore inedito "Albero".
Quando pochi mesi più tardi Liberato - un nuovo cantante "anonimo" - si affaccia con immediato successo sulla scena indie nazionale, grazie anche a un paio di riusciti videoclip diretti da Fabrizio Lettieri supercliccati in rete, sono inizialmente in molti a pensare che dietro ci sia Calcutta, il quale gioca ad arte sul progettato misunderstanding. Soltanto qualche mese più tardi, quando Liberato prenderà parte ad alcuni festival importanti, come il Club To Club di Torino a novembre del 2017, il rumour sarà scongiurato.
Grazie al particolarissimo stile, Calcutta inizia ad essere richiesto anche come autore conto terzi: firma così due canzoni per il best-seller 2017 di Fedez e J-Ax, "Milano intorno" e "Allegria", quest'ultimo con tanto di featuring di Loredana Bertè. Inoltre scrive e duetta con Francesca Michielin in "Io non abito al mare", che a novembre anticipa il terzo lavoro della giovane cantante veneta.
Nel frattempo Calcutta lavora al nuovo attesissimo album, anticipato a sorpresa il 14 dicembre 2017 da "Orgasmo", inedito che conferma la crescita del cantautore, pronto a sostituire agli abbracci situazioni più audaci e carnali. Accompagnato da una campagna virale, con tanto di misteriosi manifesti attaccati a Milano e a Roma, "Orgasmo" - diffuso proprio mentre è in corso la proclamazione del vincitore dell'edizione 2017 di X-Factor - conferma Calcutta come uno dei maggiori riferimenti della nuova leva di giovani cantautori italiani.
Lo sai che la Tachipirina 500 se ne prendi due diventan mille...
Accompagnato da un videoclip ancora una volta diretto da Fabrizio Lettieri, "Orgasmo" - seguito nelle settimane successive da "Pesto" e "Paracetamolo" - prelude alla pubblicazione di un nuovo disco, Evergreen, diffuso il 25 maggio 2018 e contenente dieci nuovi tormentoni. Il fenomeno Calcutta non si sgonfia, come in tanti avevano troppo arditamente pronosticato all’indomani di “Mainstream”, tutt’altro, continua a dilagare, non più fenomeno modaiolo passeggero, ma cantautore vero, come i modelli ai quali si è sempre ispirato. Ma senza continuare a insistere troppo con Carboni o Dalla: è stato bravo a trovare una strada personale, che nessun altro avrebbe potuto tracciare se non lui, con il suo essere al centro della scena in maniera sempre così apparentemente casuale. La scommessa è vinta, le mode sono stati tutti quelli che, venuti fuori dopo di lui, si son bruciati al sole in poche settimane di esposizione, risucchiati da un prematuro oblio. Ha visto le telecamere di Corso Sempione, e ci scherza su - ma magari neanche più di tanto - cantando in “Rai” che ora non vuole più andar via (“voglio restare qui”, declama, facendo il verso al Vasco nazionale).
Il successo in campo musicale oggi non gonfia più i conti in banca come un tempo, ma vedere migliaia di giovani cantare le proprie canzoni è una droga, una scarica adrenalinica alla quale non puoi rinunciare una volta provata. Ci prende sempre un po’ in giro Calcutta: prospetta un’anima rurale, e si mette in posa nella foto di copertina circondato da un gregge, anticipando le bizzarre idee esternate dalla sindaca Raggi e battendo sul tempo l’immagine di apertura del nuovo film di Sorrentino. Restare “Evergreen”, ambire alla semplicità, coltivare amori e raccontarli con le parole del quotidiano, senza ricercare iperboli filosofiche e marchingegni letterari. “Parla come mangia” si dice in provincia, e le parole sono saldamente al centro della sua idea di musica, parole che descrivono piccole realtà di tutti i giorni, alternate a situazioni ai confini con il surreale, dove la realtà diventa surrealismo e il surrealismo diviene reale. Come “la nebbia nei risvolti”, come “mangio il buio col pesto”. E poi gli slogan generazionali, sparati al centro dei ritornelli, come il “sento il cuore a mille”, il “Ué deficiente” e il “E’ un sacco che non te la prendi, un sacco che non mi offendi” riversati rispettivamente nei tre instant classic “Paracetamolo”, “Pesto” e “Orgasmo”.
Ci sono le parole, che rendono Evergreen più disco dei precedenti, ma ci sono anche arrangiamenti curatissimi. Un esempio è quello che accade al minuto 2’10’’ dell’iniziale “Briciole”, il brano che imprime subito una spinta decisiva all’album, oppure quando si scorge una chitarra che non ti aspetti di qua, o un imprevisto pattern di batteria di là. Qualche spunto resta minimalista: “Saliva” lascia in evidenza i saliscendi della voce, “Dateo” ne costituisce una sorta di coda strumentale, un piccolo divertissement di elettronica sghemba. Altrove si sperimentano nuove soluzioni, che schiudono interessanti prospettive sonore future, come nel caso del flanger che ammanta “Nuda nudissima”.
Il Calcutta tenerone non esiste più, quello che voleva soltanto “scomparire in un abbraccio” e “reimparare a camminare”, tanto meno quello smarrito che voleva tornare a casa ma non sapeva bene a casa di chi. Il ragazzo sta diventando adulto, consuma orgasmi sulle scale, e fra campi di kiwi nei quali farsi seppellire e binocoli per guardarsi meglio negli occhi continua a macinare ritornelli infettivi. Parla la stessa lingua dei suoi coetanei e richiama la precaria contemporaneità dei ragazzi di oggi (“mi chiamerai da un call center”) in immagini che fondono tenerezza e insolenza (“negli occhi ho una botte che perde”, “Sto perdendo il tempo perso che mi va”, “E’ un sacco che non sputi allo specchio per lavarti la faccia”) nei quali i teenager di oggi potranno tornare a rispecchiarsi. A un certo punto crea un parallelo con il calciatore Dario Hubner, triestino, altro personaggio cresciuto in provincia che dopo anni di gavetta arrivò a vincere la classifica dei marcatori nel campionato di Serie A.
21 Luglio 2018: il trionfale ritorno a Latina...
Per tutto il 2018 vengono schedulati soltanto due concerti integrali estivi: uno nello stadio di Latina, la sua città, l'altro nell’Arena di Verona. Per Edoardo quella del 21 luglio 2018 è una delle serate più emozionanti della propria vita, la proverbiale prova del nove utile a dare una dimostrazione di forza a chi continua a porre interrogativi sul suo conto, nello scenario perfetto per prendersi tutte le rivincite contro malelingue e invidiosi di turno. Si esibisce nella città dove è nato e cresciuto, in quello stadio dove sino a tre o quattro anni prima pensare di esibirsi sarebbe stata pura follia: al massimo avrebbe potuto entrarci per assistere a una partita della squadra che nel frattempo è rovinosamente finita in Serie D dopo il recente fallimento societario.
E’ una serata memorabile per Latina, che vive l’evento con stupita partecipazione, da queste parti non si è mai stati troppo abituati a vivere eventi grandi, così poco abituati ad averli dentro casa che c’è chi protesta per quattro strade chiuse al traffico, o per l’affluenza di giovani che si riverseranno nel capoluogo pontino (si narra che soltanto 2-3.000 biglietti, sui complessivi 15.000 venduti, siano stati acquistati in città), anche perché – ahimè - Calcutta è uno di quei tanti casi per i quali si può davvero utilizzare l’adagio “nessuno è profeta in patria”. Bomba Dischi trasforma per l'occasione lo show in una grande festa della label, portando sul palco prima dell’attrazione principale i rappresentanti di scuderia Mèsa, Francesco De Leo e Frah Quintale, scaglionati di un’ora uno dall’altro.
Fin quando alle 21,50 entra in scena lui, visibilmente commosso, lasciando almeno inizialmente agli schermi il compito di parlare al suo posto, come sull’attacco dell’iniziale “Briciole”, quando appare gigante la scritta “Benvenuti a questo concerto”. Calcutta è cresciuto, tanto, snocciola le nuove tracce alternate a quelle di “Mainstream” e a qualche ripescaggio dal precedente “Forse…”, sono le canzoni di una generazione, che tutto lo stadio ripete a memoria, e lui si concentra sul cantato, utilizzando molto meno che in passato chitarre e synth. Alle spalle si muove una band vera, e numerosa, con tanto di coriste, percussionista e due chitarre. Un’ora e mezza di canzoni, tutte sue, senza nessuna cover a far da riempitivo, non servono, non se ne sente il bisogno.
Le imprecisioni e il fare quasi svogliato che caratterizzarono i suoi esordi sono sostituiti da un comportamento da professionista vero: voce sempre intonata (grazie anche alla vocal coach che si prende cura di lui), zero sigarette, zero alcool, visibilmente dimagrito, giorni di prove, isolamento nelle ore che hanno preceduto lo spettacolo, uno show che pone al centro dell’attenzione quella poesia metropolitana in grado di uscire dalla provincia per diventare universale, quella poesia che oggi ritorna a casa, nell’ambiente dove per gran parte è stata pensata e costruita, dove si percepisce come ancora più vera, specie per chi capita da queste parti per la prima volta. “Orgasmo”, “Paracetamolo”, “Cosa mi manchi a fare”, sono questi i fiori all’occhiello di una prima parte di scaletta che riserva anche momenti più intimi e ripescaggi da un passato che sembra oramai lontano anni luce.
Qualche frangente è studiato per lasciar presagire interessanti sviluppi futuri, vedi la deriva electro (quasi una sua versione dei Chemical Brothers) di “Dal verme”, seguita da una “Nuda nudissima” dove le chitarre (una è suonata da Giorgio Poi) prendono per una volta il sopravvento. Per “Oroscopo” sale sul palco Tommaso Paradiso, nel duetto a sorpresa, un grande regalo per i fan; nel corso dello spettacolo il giovane cantautore pontino saprà anche regalare momenti di ilarità, come quando invita il pubblico a urlare all’unisono un “Ciao Nonna” in direzione proprio della nonna di Calcutta, che abita a pochi isolati di distanza. Nei bis la sequenza (si può tranquillamente già parlare di veri e propri inni generazionali) “Gaetano” / “Frosinone” / “Pesto” conferma una volta di più il livello di notorietà raggiunto da Edoardo.
La sensazione è che molte di queste canzoni siano destinate a rimanere, come una “50 Special” dei Luna Pop o come una “Alba Chiara” del Vasco nazionale: fra venti o trent’anni saranno ricordate come fulgidi esempi di quell’It-Pop che tanto successo ebbe negli anni 10. A Calcutta l’obbligo di non perdersi, di continuare a smentire tutti coloro che lo pronosticano come meteora destinata a un precoce smarrimento: e invece resterà là, ne siamo certi, ha già fatto passi giganteschi, e pochi giorni sopo l’Arena di Verona decreterà la definitiva consacrazione del musicista pontino. Quando le luci dello stadio si sono riaccese è stato lui, e soltanto lui, a poter dire di aver vinto: Edoardo è stato bravo, credibile, dimostrando come la semplicità e la modestia possano sfidare e persino sconfiggere invidie e scetticismi.
Andrà poi benissimo anche l'unica altra data prevista per il 2018, il 6 agosto, all'Arena di Verona, un sold out annunciato da mesi, con ospiti sul palco Francesca Michielin e Dario Brunori. La serata è immortalata dal regista Giorgio Testi, che ne trarrà il film-concerto "Tutti in piedi", programmato nei cinema italiani per tre giorni a dicembre 2018.
In contemporanea esce una riedizione della hit di Elisa "Se piovesse il tuo nome" (già contenuta nel recente album "Diari aperti"), che diventa un duetto con Edoardo, il quale viene invitato a partecipare anche alla nuova versione di "Strade" dei Tiromancino, inclusa in "Fino a qui".
A ulteriore certificazione del passaggio di Calcutta nell'olimpo dei giovani cantautori più amati della sua generazione, giunge in estate un articolo a tutta pagina sul prestigioso quotidiano francese Le Monde, che lo presenta come simbolo del nuovo pop italiano di qualità.
Il 2019 è dedicato ai concerti: nei primi mesi dell'anno tocca ai palazzetti, tutti sold out, in estate alle arene e ai festival. A giugno arriva anche una versione espansa di Evergreen: Evergreen...e altre canzoni. Si tratta di un doppio album contenente nel primo disco la tracklist originale, mentre sul secondo una serie di bonus track. Oltre i due nuovi singoli "Due punti" e "Sorriso (Milano Dateo)", trovano spazio quattro brani live registrati all'Arena di Verona il 6 agosto 2018 ("Fari", "Paracetamolo", "Nuda nudissima" e "Saliva", quest'ultima eseguita con Dario Brunori) e le versioni demo delle hit "Orgasmo", "Briciole" e "Paracetamolo". E' lo stesso percorso toccato a Mainstream qualche anno prima, pubblicato prima in versione standard, poi in deluxe, e infine in una terza edizione, ancor più ricca, ridenominata Mainstream +.
A fine anno, in occasione del primo tour europeo del cantautore pontino, viene pubblicata la versione in lingua spagnola di uno dei suoi maggiori successi, "Paracetamolo", che per l'occasione diventa "Paracetamol". Potrebbe trattarsi del primo deciso passo verso un ulteriore obiettivo futuro: affacciarsi verso i mercati esteri.
Ed ora... un po' di Relax...
Nel 2021 Calcutta incide con Franco126 il singolo "Blue Jeans", contenuto nell'album del cantautore romano "Multisala", duetta con Davide "Tropico" Petrella in "Non esiste amore a Napoli" e con il rapper Marracash nella traccia "Laurea ad honorem", contenuta nell'album "Noi, loro, gli altri". Altra mossa del cantautore di Latina è la nascita del progetto Friuilli, varato insieme a Davide Panizza e Niccolò Di Gregorio del collettivo Pop X, con l'uscita del singolo "Gabbiano".
Nel 2022 scrive per Elisa il tormentone "Litoranea", contenuto nel fortunato album "Ritorno al futuro/ Back To The Future", l'anno successivo è co-autore - assieme a Dardust - del brano presentato al Festival di Sanremo da Ariete, "Mare di guai", che lancia definitivamente la giovanissima cantautrice all'attenzione nazionale.
La campagna promozionale che ha scandito l’avvicinamento a Relax (2023), ritorno discografico dopo cinque anni di assenza, è stata spiazzante ed originale, inaugurata con un tour nei palazzetti annunciato diversi mesi prima, quando si poteva soltanto presumere l’esistenza di nuove canzoni. In epoca di singoli a valanga, Calcutta diffonde Relax il 21 ottobre 2023, tutto d’un fiato, integralmente, evitando di farlo a fettine, annunciandolo con un anticipo di soli dieci giorni, concedendo ai fan (ma solo 24 ore prima) giusto i testi sussurrati da una ragazza ripresa in un video ASMR diffuso su YouTube.
Il weekend precedente l’arrivo di “Relax” Calcutta strimpella insieme alla sua band dentro un’installazione allestita a Roma da Nico Vascellari, mentre un’altra installazione posta a Milano in uno dei palazzi affacciati sulla Darsena, con lenzuoli a ornamento dei balconi, funge da megafono all’invito del Sindaco meneghino per una città “più lenta” e rilassata. Una performance live sul tetto della sede romana della Rai di Via Asiago, ispirata ai Beatles di “Let It Be”, chiude il mini corso di marketing che con tutta probabilità farà proseliti.
Chi si aspettava da un personaggio poco allineato come Calcutta un album “strano” resta parzialmente deluso, trovando pane per i propri denti giusto nella particolare soluzione adottata per “Coro”, il brano di apertura, costruito soltanto con vocalizzi, senza l’apporto di strumenti, rielaborando un coro di alpini (o il folklore appenninico, fate voi) con linee che magicamente si distendono per evocare gli arrangiamenti tipici del primo Battisti (occhio al momento in cui urla “Piango un po’”): un prodigio non proprio semplicissimo da realizzare. Ecco, Lucio Battisti, è lui la più grande fonte d’ispirazione nel processo compositivo che ha condotto alle dieci canzoni di Relax (più un intermezzo strumentale che divide in maniera chirurgica la scaletta in due). Si tratta del Battisti della seconda metà degli anni Settanta, quello intenzionato a giocare con l’elettronica: ascoltare per credere alcuni suoni che corredano “Giro con te”, non troppo distanti da quelli che hanno consegnato “Sì viaggiare” all’immortalità. Un altro riferimento intercettabile è Dario Brunori, con il quale Edoardo è legato da un rapporto di stima e affetto: una traccia come “Tutti”, un’ode ai fallimenti della Generazione Z, sarebbe potuta uscire tranquillamente dalla penna del cantautore calabrese. Nel tentativo di esorcizzare malesseri e sofferenze, anestetizzandoli (ma non certo sconfiggendoli) come durante la seduta odontoiatrica ritratta in copertina, Calcutta inserisce però anche numerosi altri ingredienti…
C’è molto synth-pop dentro Relax, e i brani che per primi centrano il bersaglio sono quelli più ritmati, dal taglio che non esiterei a definire disco-funk, “Controtempo” e “Loneliness”, frangenti ballabili resi con quel filo di malinconia che non abbandona mai la scrittura di Calcutta. Ci sono anche i pezzi “suonati”, nel senso analogico del termine, come “SSD”, arricchita con chitarre dal timbro decisamente eighties. Relax è anche un lavoro fortemente autobiografico, ancor più del solito, con il cantautore di Latina che trova sempre le parole più efficacemente semplici per raccontare il disagio vissuto durante il periodo della pandemia (“L’anno passato è stato uno schifo / E ancora qui crolla un po’” è uno dei passaggi contenuti in “Giro con te”), la sensazione di sentirsi un alieno lontano da casa (si è trasferito da tempo a Bologna), narrando grandi e piccoli solitudini, persino palesando sottili posizioni politiche (“Guerra persa / Non ero mai finito a letto con una di destra”, canta in “Controtempo”), più un tenero ricordo della mamma, venuta a mancare proprio di recente, che vorrebbe riabbracciare per un minuto in “SSD”. Meno slogan da cantare negli stadi e da trascrivere sui muri e sui diari, arrangiamenti più evoluti ed eterogenei, un progetto che magari non registra veri picchi creativi, ma presenta una qualità media tale da imporlo come il suo miglior disco sin qui realizzato, grazie all’assenza di riempitivi e a una cura dei dettagli mai così certosina.
Imbranato, sgualcito, sincero. Giunto al quarto album, Edoardo mostra uno stile sempre riconoscibile, distinguibile in maniera inequivocabile: un risultato apprezzabile, che lo pone in una posizione privilegiata rispetto al resto dei protagonisti della scena it-pop, nei confronti dei quali un disco come Relax non può che creare una voragine, un distacco netto ed incolmabile. Non è ancora la sua opera definitiva, il suo manifesto, ma ci si sta avvicinando, a piccoli passi, uscendo dalla timidezza degli esordi per impostare una ricerca sulle parole e sui suoni sempre più adulta.
Imitarlo diventerà ancor più complesso per tutti coloro che si sono posti in scia, senza riuscire mai ad avvicinarne il livello di successo e l’immensa adorazione dei fan. Cinque anni di assenza sarebbero un’infinità per chiunque, non per lui, e Relax oggi dispensa conferme riguardo il talento del suo autore, un esponente sempre più importante e significativo del pop italiano tutto, suo malgrado, grazie all’innata capacità di decodificare le emozioni e gli stati d’animo della propria generazione, della quale risulta essere uno dei più credibili portavoce. Perché Edoardo, ora sarà più chiaro a molti, non è qui per caso, è qui per restarci, a lungo.
L’ho incontrato una sera Calcutta, mi ha confessato sottovoce “faccio un altro disco e smetto, tanto ormai so come si scrive una bella canzone”. E invece non sarà il suo ultimo disco, semmai è stato il più delicato da realizzare, per via dei riflettori puntati contro. Ma lui se ne è fregato di tutti continuando a macinare nuovi singoli di successo con svizzera puntualità, senza mai perdere nulla in freschezza, urgenza e attitudine easy.
Continueranno a plagiarlo, e questo per lui non potrà che rappresentare motivo d’orgoglio. Più vero e meno calcolato dei vari Giornalisti di turno, al momento resta una spanna sopra tutti quelli che aspirano a diventare il nuovo Calcutta. Coloro che lo aspettavano al varco dovranno attendere almeno un altro giro in riva al fiume.
The Sabaudian Tapes (cassetta autoprodotta, 2011) | 5 | |
Forse... (Geaograph Recorde, 2012) | 6,5 | |
Mainstream (Bomba Dischi, 2015) | 6,5 | |
Evergreen (Bomba Dischi, 2018) | 7 | |
Relax (Bomba Dischi, 2023) | 7,5 |
Arbre Magique (live @ DalVerme, Roma, 24/01/2013) | |
Cosa mi manchi a fare (videoclip, da Mainstream, 2015) | |
Frosinone (videoclip, da Mainstream, 2016) | |
Oroscopo (videoclip, da Mainstream, 2016) | |
Albero (videoclip, da Mainstream, 2016) | |
Orgasmo (videoclip, da Evergreen, 2017) | |
Pesto (videoclip, da Evergreen, 2018) | |
Paracetamolo (videoclip, da Evergreen, 2018) |