Capita spesso, quando ci si trova di fronte a eventi che consideriamo significativi o che in parte sfuggono alla nostra comprensione, di chiedersi cosa avrebbe potuto dire a riguardo qualcuno che riteniamo autorevole e che, per varie ragioni, non può o non vuole pronunciarsi: quale ulteriore chiave interpretativa avrebbe potuto fornire, quanto il suo punto di vista si sarebbe distaccato dal vociare stolto e indistinto della collettività, in che modo ci avrebbe permesso di sentirci meno smarriti tra i flutti di una storia che pare sempre lì lì per travolgerci. Anche solo per questo, "Dish-Is-Nein" suona come la risposta a una chiamata a furor di popolo, qualcosa che deve essere stato motivato da ragioni troppo più importanti della semplice consuetudine discografica.
I Disciplinatha li avevamo lasciati nel 1997, anno del loro scioglimento, dopo l'impeccabile canto del cigno di "Primigenia". Da allora, un unico segnale captato dai radar, nel 2012: l'esaustivo box "Tesori della Patria", contenente tra l'altro il bel documentario di Alessandro Cavazza "Questa non è un'esercitazione", e una data a Bologna per presentarlo. Tutto graditissimo, ma troppo poco, per chi chiedeva loro nuove munizioni in tempi di drammatica scarsezza nelle retrovie.
Poi, il mese scorso, l'annuncio che nessuno si sarebbe mai aspettato: tre quarti della formazione originaria (Parisini, Santini, Maiani) ha pronto un nuovo lavoro per la gloriosa Contempo Records, sebbene dietro una sigla apocrifa. L'occasione è il trentennale dell'esordio, quel "Abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!" che si abbatté come un siluro di profondità sulla scena alternativa degli anni 80 e ancora adesso fa sobbalzare per la sua furia iconoclasta. E la volontà di riallacciarsi a quel passato mitico, al di là del cambio di denominazione (un rimarchevole atto di rispetto per i colleghi che si sono dissociati dall'operazione, laddove altri avrebbero senza remore sfruttato il marchio), è evidente: nel formato, ancora una volta un mini-album di 6 brani su vinile bianco, e negli intenti, più minacciosi e affilati che mai. A partire dalla strategia promozionale, in perfetto stile-Disciplinatha: un articolo-intervista provocatoriamente concesso a "Il Giornale", e a corredo una ragnatela di cartoline tra il sinistro e il kitsch, imbevute della stessa estetica militaresca che tanto ruolo ebbe nell’imporre il loro culto, emanate a scadenza regolare per ingolosire i fan e terrorizzare tutti gli altri.
Oltre ai tre reduci, troviamo a dar man forte alcuni leali commilitoni: innanzitutto, Renato "Mercy" Carpaneto, frontman di quelli Ianva che devono non poco al gruppo bolognese, coautore dei testi; poi Justin Bennett, batterista degli Skinny Puppy, a fare le veci del dimissionario Daniele Albertazzi; la storica complice Valeria Cevolani, che presta la sua inconfondibile voce a uno dei brani; e infine, il Coro Alpino di Monte Calisio, altra vecchia conoscenza della band, che aggiunge un tocco di ieratica maestà a due delle canzoni più intense. Ed è proprio l’impressionante forza suggestiva del coro a dettare le atmosfere del primo brano, "La chiave della libertà", aperta da un algido battito industriale a cui si sovrappone una rivisitazione del canto di Luigi Pigarelli "Compagno fucile", prima che l'infernale crooning di Cristiano Santini inizi a declamare la sua torva maledizione sopra un assorto tappeto di archi. È un incipit dal respiro titanico, percorso da un brivido gotico che ricorda i Coil più solenni, perfetto nell'esaltare la rivolta individuale del brigante, del partigiano, dell'anarchico, figure eroiche ancora plausibili e anzi necessarie in un'epoca che ha reso improponibile la sollevazione di massa. Convincente, qui come nel resto dell'album, il lavoro sul suono (a cura dello stesso Santini), terso e definito come mai prima d'ora.
Tutt'altro mood nella successiva "Toxin", una nervosa galoppata alla Ministry, per certi versi prossima alla robotica energia che alimentava "Un mondo nuovo", di sicura presa e giustamente estratta come singolo. Il testo è una sfuriata anti-moderna che non guarda in faccia a nessuno, parole al vetriolo sputate non senza ironia, con quel fine equilibrio tra immediatezza e ambiguità che rimane uno dei marchi di fabbrica del gruppo. Se farà discutere, avrà fatto il suo dovere.
"L'ultima notte", in cui torna il coro a intonare l'omonimo canto alpino, è invece una spettrale ballata neofolk, snocciolata da due voci sovrapposte/contrapposte a creare un gioco che non sarebbe dispiaciuto a Douglas Pierce, la cui immota desolazione viene sferzata dal teso crescendo reznoriano del finale. È una fiera ode alla sconfitta per manifesta superiorità del nemico, ma anche una sconsolata riflessione sulla vischiosità della violenza che genera altra violenza.
"Macht Frei" è un saggio di provocazione a tutto campo così infallibile da poter essere utilizzato a fini didattici: un elenco di sigle che identificano vari aspetti del nostro tempo vengono affiancate al terrificante motto del titolo, nel bridge spunta un sardonico sample da una preghiera di Benedetto XVI (autocitazione aggiornata dall’indimenticata "Crisi di valori"), mentre in chiusura affiora l'angosciata voce di un bimbo che canticchia il refrain di "God Save The Queen", a rimarcare che per gli sventurati della sua generazione non potrà mai esserci "nessun futuro". Brani come questo lasciano a bocca aperta tanto per il coraggio che li ispira quanto per l'abilità con cui sono collaudati, eloquente testimonianza del praticantato punk dei Nostri. Il paragone con i Laibach è stato una costante nella carriera dei Disciplinatha, ma adesso forse è la compagine slovena che dovrebbe prendere lezioni da loro.
Introdotta da un marziale pestare di anfibi in avvicinamento tra interferenze elettroniche, "Eva" è, musicalmente parlando, il momento più violento del disco, con una batteria quasi Ebm e la chitarra di Parisini a menare precisi fendenti metallici. La voce della Cevolani aggiunge ulteriore teatralità a un ritornello che suona come una dichiarazione di guerra al mondo, quasi un "passaggio al bosco" di jüngeriana memoria, sacrificio così spericolato da non poter ammettere coscritti inesperti. È il bollettino di guerra definitivo, disperato perché disperata è la situazione che commenta.
A chiudere questo affresco apocalittico provvede il cinematografico strumentale "Finale", memore della lezione di David Tibet: tre minuti e mezzo di meditazione per pianoforte e scorie atomiche che si spegne in un catacombale lamento gregoriano, requiem per un'umanità che nessuna Bellezza potrà più salvare.
Se a fine anni 80 i Disciplinatha sembravano provenire da un altro pianeta per l'aggressività inaudita delle sonorità e la sfacciata scorrettezza delle provocazioni, adesso incutono ancora timore per la forza della loro visione, quanto di più distante possa esistere dalla piatta mediocrità che troppo spesso affligge le produzioni nostrane. "Dish-Is-Nein" è un'opera complessa ma fruibile a più livelli, che offre differenti piani di lettura per essere decifrata ma difficilmente potrà lasciare indifferenti, non essendole indifferente il presente a cui si rivolge. La rabbia che la pervade potrà ispirare un rassegnato nichilismo, oppure infondere nuova energia per reagire alla viltà di un'epoca che ha piegato la schiena di fronte ai più infimi soprusi. È un album che molti detesteranno e sarà anch’essa una reazione sana, perché certi lavori devono necessariamente dividere.
Fulgido esempio di giovinezza artistica e maturità umana, questo piccolo grande disco è l’ennesima riprova di quanto abbiamo ancora bisogno di un approccio all'arte determinato a spararle grosse, che sappia appellarsi a orizzonti ambiziosi e flirtare con strumenti pericolosi, smuovendo corde che la fiacca retorica postmoderna sempre più di rado riesce anche solo a toccare.
20/01/2018