Trastullarsi ai confini dell’armonia e del contrappunto è sempre stata una necessità per Cate Le Bon, un’attitudine che con il recente “Grab Day” viene spinta ai confini della provocazione, dando vita a una strana e insolita forma di art-pop, tanto raffinata quanto inafferrabile e scomposta. Da sempre interessata a collaborazioni dall’impostazione dadaista o situazionista, la cantante gallese ritorna sul luogo del delitto targato Drinks: ovvero la non più estemporanea cooperazione con Tim Presley (ex-Model American nonché ex-Fall, collaboratore di Ty Segall, conosciuto anche come White Fence).
Registrato e concepito in una cittadina al sud della Francia, “Hippo Lite” è un album non facile da amare fino in fondo, ma le premesse creative e le intelligenti giocose architetture armoniche, ricche di sonorità atonali, hanno il pregio di conquistare pian piano l’ascoltatore, infiltrandosi più che sottopelle nei glangli cerebrali, creando un gradevole senso di stordimento e disorientamento dall’infima natura psych-pop.
I dodici bozzetti sono nati tra pinte di birra e incontri con la natura, in un’oasi mentale, e forse fisica, dove la quotidianità era caratterizzata dall’evitare il morso di uno scorpione, cucinare il pane nel forno a legna, nuotare nel fiume tra rane e insetti, osservare la vita degli uccelli, altresì privati di qualsiasi connessione internet e come unica compagnia un pacco di Dvd di Jurassic Park.
Un’esperienza zen, quella che ha dato genia a “Hippo Lite”, con Cate e Tim nei panni di moderni eremiti, un album che paga un considerevole tributo ai primi vagiti punk, tra scampoli di Captain Beefheart, Residents, Raincoats, Young Marble Giants (“Real Outside”, “Pink Or Die”) e, perché no, i primi Xtc o alcune divagazioni dei King Crimson era-Belew (“Leave The Lights On”).
Pur restando in bilico sui confini di un autocompiacimento creativo, il secondo progetto a nome Drinks riesce a calibrare atmosfere spigolose con intuizioni argute, suonando infine gradevole come un pezzo di ghiaccio su una slogatura e divenendo perfino familiare e spensierato nel grazioso funk-folk “Real Outside” e nella ballata quasi naif, in stile Kevin Ayers, “Greasing Up”.
Minimalismo e melodia si incrociano e si mescolano, sfumando verso lidi melodici surreali, sorretti da ritmi da metronomo, evocando Slapp Happy (“Corners Shop”) e Velvet Underground (“In The Night Kitchen”).
Ed è in questo strano, atipico groviglio di armonie e dissonanze che risiede il fascino malsano della musica dei Drinks: melodica senza mai essere del tutto piacevole (“Blue From The Dark”), semplice senza essere mai prevedibile (“If It”, “When I Was Young”), eppur capace di toccare vette d’ispirazione che faranno arrossire gli amanti del pop (“Ducks”). Ed è emblematico che le migliori creazioni siano relegate proprio in fondo all’album - la già citata “Pink Or Die” e la neo-tribale “You Could Be Better” - quasi come se il messaggio di Cate e Tim fosse in verità un ammonimento, o meglio un richiamo alle armi, un invito ad abbandonare l’ovvietà per abbracciare la speranza ma soprattutto il fascino dell’incertezza.
13/06/2018