Con “Relic” l'autrice ha piantato i semi di un potenziale giardino dell’Eden contemporaneo, cercando nuova linfa nel malinconico pathos della scena folk nota come Laurel Canyon, o nel fascino del fingerpicking intriso di delicati barocchismi di John Renbourn, e infine in quel delizioso sottobosco del folk pscihedelico dei Mellow Candle, dei Trees o dei Forest. Per realizzare fino in fondo questo sogno, Emma Tricca compie un'ulteriore piccola rivoluzione copernicana, ampliando gli orizzonti etno-culturali e mettendo a dura prova l’innato romanticismo, coinvolgendo le corrosive provocazioni strumentali di Steve Shelley (Sonic Youth) e Jason Victor (Dream Syndicate).
In poco più di due minuti le note di piano e chitarra dell’iniziale “Winter My Dear” tratteggiano un familiare scenario folk, ma è solo una bozza sulla quale pian piano si avvicendano tocchi di colore e improvvise scarnificazioni, in un continuo reinventarsi che trascina l’ascoltatore da lande più confortevoli e confidenziali verso il lato oscuro. Ed è la luce l’elemento che Emma Tricca utilizza come fonte battesimale di questa ambiziosa rinascita spirituale, che in pochi attimi passa dai vortici psichedelici in chiave Velvet-vs-PinkFloyd di “Fire Ghost” (con Howe Gelb maestro cerimoniere) ai più moderni surrealismi di “Julian’s Wings”, un brano che non sfigurerebbe in un album di Jane Weaver.
E’ come se l’autrice prendesse per mano tutte le infiorescenze disseminate sul percorso comune della musica folk ed etnica, facendole decantare verso un ecumenismo spirituale, così annullando quegli inutili abbellimenti estetici e formali. Ed è questa la ragione che rende a volte difficile individuare le fonti d’approvvigionamento culturale di “St Peter”, al punto che non di rado anche le connotazioni geografiche diventano poco nette, passando dall’Africa all’Asia, dal sud al nord, dall’Europa all’America, con incantevole naturalezza. Non è un caso che l’artista romana utilizzi in questo viaggio la figura simbolica di San Pietro - l’apostolo della solidità del messaggio cristiano -, c’è infatti una costante liturgia del dolore tra le increspature drammatiche e agrodolci delle dieci tracce dell’album.
A volte ruvida e ambigua nelle sue complesse elaborazioni country-rock alla Mazzy Star (“Salt”), perfino arrendevole quando il romanticismo prende piede (“Mars Is Asleep”), la musica non perde mai un certo fascino crepuscolare e amabilmente esistenziale. La tensione emotiva è sempre costante, anzi in continuo crescendo, quasi a voler raggiungere una calma surreale eppur ricca di tormento, in questo percorso si stagliano con fierezza piccoli gioiellini come “Building In Millions”, la cui evoluzione da idillio a dramma diventa simbolo dell’intero progetto. Altra estatica delizia si cela tra le note di “Green Box”, ennesima trasfigurazione di una ballata western (con tanto di fischio alla Ennio Morricone), in un granitico country-rock alla Neil Young.
Ma è nella inquieta e minimale “Solomon Said” che la musicista Tricca si svela completamente, attraverso un accordo ripetuto all’infinito che cerca di contrapporsi all’estenuante duello con la voce recitante di una superba Judy Collins (il testo è quello di una sua vecchia canzone “Albatross”), fino a raggiungere un climax poetico di rara forza e bellezza. Naturale e logico a questo punto che il finale (“So Here It Goes”) sia un inatteso e quasi disturbante folk-noise dai toni quasi cacofonici, ennesima prova dell’autenticità artistica di una delle più interessanti realtà dello scenario musicale contemporaneo.
Emma Tricca alla maniera di Julia Holter sta reinventando la spiritualità della musica folk, e “St Peter” è la sua personale liturgia.
(25/05/2018)