In effetti, la scelta di appianare alcune delle lievi increspature più frizzanti e giovanili porta in alcuni momenti a un invecchiamento repentino della proposta, ben più interessata a questo giro nel presentare la solidissima intesa della coppia e nell'ammantare le interpretazioni di una coltre à-la Simon & Garfunkel, piuttosto che giocare con certe dinamiche lievemente più weird meglio rappresentate in passato. È quasi bizzarro come le delicate dinamiche sintetiche e di tastiera che caratterizzano molti degli arrangiamenti si provino cruciali nel conferire l'aura di classicità emanata dal disco, nonché alcuni dei passaggi più intensi della collezione. Il passo valzerato di “Fireworks” funge da supporto a una commossa e vibrante riflessione sul destino e i percorsi di vita, con un taglio compositivo che accosta il country del periodo d'oro a potenti inflessioni soul, contrappuntate dai contributi di chitarra elettrica. Su “My Wild Sweet Love” l'uso ancora più interessante (e sottile) del comparto elettronico asseconda le cadenze più dense del brano, che di suo si impegna a circondare come un velluto le potenti interpretazioni delle sorelle e il loro senso della collaborazione. Se la title track spinge sul lato del ritmo e della diversificazione melodica come nessun'altra canzone dell'album, spolverando il lato più creativo e strutturato dell'insuperato (e probabilmente insuperabile) “The Lion's Roar”, “Hem Of Her Dress” è l'unico momento in cui torna a palesarsi quell'aspetto corale (Laura Veirs nei backing vocals), a suo modo centrale nella proposta di casa Söderberg, con cui lasciar esplodere quel sentimento e quel trasporto emotivo talvolta nascosto nell'understatement generale del lavoro.
Spiace però che, nonostante i piccoli (ma sostanziali) accorgimenti messi in atto per mostrare la crescita e la maturazione del progetto, metà dell'album fatichi a prendere quota, estinguendosi in un campionario espressivo fedele ai trascorsi del duo, tutto sommato però alquanto privo di freschezza. Laddove già molti dei motivi country-folk del precedente “Stay Gold” finivano con lo scontare il paragone col diretto predecessore, in “Ruins”, anche a non voler necessariamente partire con i raffronti, è difficile mettere a tacere del tutto l'idea che molti dei brani sbrighino il lavoro nella via più semplice possibile, procedendo un pizzico per inerzia. La doppietta d'apertura “Rebel Heart” - “It's A Shame”, con il suo ricalco ineccepibile degli stilemi di tanto cantautorato folk anni 70, non fa altro che riproporre senza grossa capacità elaborativa quel formulario melodico dal tocco confessionale e domestico già ampiamente sviscerato nel primo quadriennio di pubblicazioni delle sorelle. Il discorso non cambia quando anche un piacevole pianoforte dal sapore honky-tonk subentra a sostenere l'andamento di “Postcard”, a favore di un'Americana del tutto corretta nella costruzione, nella sostanza però spenta, priva di qualsivoglia spunto.
“Ruins”, insomma, si configura come un album sdoppiato nell'essenza e nelle intenzioni, volto da un lato alla conferma e a una certa staticità nei meccanismi, dall'altro a espandere con un po' di timidezza la palette sonora e ampliare il numero di possibili riferimenti da cui trarre ispirazione. Occorrerà capire in che direzione decideranno di muoversi le due sorelle. Per adesso, il loro quarto album appare come il più classico dei dischi di transizione.
(28/02/2018)