Non sono in molti su questo pianeta ad avere il talento musicale di Lenny Kravitz. Polistrumentista, autore di testi e musiche, produttore, interprete dotato di carisma e giusto
physique du rôle, è stato all'inizio della sua carriera l'unico contendente al titolo di "nuovo
Prince", dopo la fugace auto-incoronazione di Terence Trent d'Arby qualche anno prima. Una responsabilità ingombrante e oltremodo ostica, che alla lunga ha infatti causato il ripiegamento verso i lustrini e le
paillettes del
mainstream. Lungi dallo sminuire l'abilità nell'adempiere con facilità a un compito di alta classifica, è innegabile che questa scelta (grosso modo operata con più efficacia da "5" in poi) abbia rappresentato la vittoria del mestierante sull'artista, lasciando sul campo la possibilità di rendere nuovamente manifeste le bellissime premesse di "Let Love Rule" o "Mama Said".
"Raise Vibration", l'undicesima fatica discografica di Kravitz, è anche la prima dopo la morte del genio di Minneapolis, e veicola una ritrovata capacità di restare nel consolidato ambito mainstream recuperando una parte dell'eleganza dei momenti migliori. La lunga inerzia, cominciata con "Baptism" (2004), ha fissato per un bel po' le coordinate del nostro su obiettivi di immediatezza radiofonica, sottolineati dalla figura del black rocker sexy e tamarro: una grandeur che ha prodotto risultati mediocri, soprattutto in rapporto alle potenzialità del soggetto.
Il Lenny edizione 2018 rispolvera
dreadlock medio-lunghi e un'attitudine primariamente soul/funk, che solitamente garantisce i risultati più convincenti. Si ricorda di una manciata di
take vocali di
Michael Jackson, risalenti alla co-produzione di "Another Day", e le incastra nel riuscitissimo singolo "Low", pensato proprio come a un pezzo da far cantare idealmente a Jacko. Chiede a una donna di regalargli un abbraccio consolatorio bello quanto quello che gli diedero
Johnny Cash e June Carter in occasione della morte di sua madre ("Just hold me like Johnny Cash/ When I lost my mother/ Whisper in my ear/ Just like June Carter"). Dispensa un electro-funk sporco che ammicca a
George Clinton e allo stesso Prince ("Who Really Are The Monsters?"), e lascia spazio a sax e wurlitzer nel trascinante disco-funk di "The Majesty Of Love", dove è invece lo zio
Stevie a essere chiamato in causa. Disegna l'
incipit blues di una
title track che esorta gli esseri umani ad aumentare la loro vibrazione, la colora con un intermezzo strumentale dal carattere
morriconiano, per poi chiudere con un canto tribale propiziatorio.
In mezzo, il prevedibile repertorio di soul ballad, delineato dalla già citata "Johnny Cash", la melensa "Here To Love" e la più frizzante "Ride".
Kravitz ha evidenziato negli anni un lessico praticamente inamovibile (modernariato seventies, richiamo a temi di amore universale, pace e fratellanza, groove a pacchi) ma ci sono dischi dove il giochino gli riesce meglio, in virtù di una scrittura più brillante e della rinuncia ad atteggiamenti divistici tout-court. "Raise Vibration" è uno di questi.
23/10/2018