Vera Sola - Shades

2018 (Spectraphonic Records)
gothic-country, folk, americana

Danielle Aykroyd, aka Vera Sola, è una talentuosa figlia d'arte. Il padre, infatti, è un mito di Hollywood come Dan Aykroyd ("The Blues Brothers", "Una poltrona per due", "Ghostbusters" ecc.), mentre la madre è Donna Dixon, attrice ed ex-modella che l'allampanato divo canadese incontrò sul set di "Doctor Detroit" e sposò nel 1983 (i due si sono separati nel 2022). È stato invece un altro erede illustre del cinema, Elvis Perkins, figlio di Anthony Perkins (l'attore feticcio di Alfred Hitchcock in "Psycho"), a incoraggiarla sulla strada della musica, invitandola a unirsi alla sua band come bassista e polistrumentista durante il tour di "I Aubade". Un'esperienza felice e fortunata che ha acceso in Danielle il desiderio di intraprendere un percorso cantautorale solista. Per l'occasione, deciderà di non sfruttare l'ingombrante cognome familiare, affidandosi a un curioso moniker, Vera Sola, nato come un gioco ironico con se stessa, unendo una vena autoironica a una sincera ricerca di autenticità artistica.

E all'insegna di un autarchico fai-da-te è anche il suo debutto discografico "Shades" di cui cura quasi ogni aspetto: dalla scrittura agli arrangiamenti, dalla produzione all'esecuzione di tutti gli strumenti, utilizzando anche elementi non convenzionali come ossa, catene e vetri rotti per creare atmosfere sonore uniche.
Se i riferimenti contemporanei sembrano soprattutto il songwriting sfuggente di Micah P. Hinson, l'enigmatico folk di Angel Olsen e le suggestioni desertiche dei Calexico, aleggia sulle canzoni anche l'ombra aggraziata di Nancy Sinatra, specie quella delle collaborazioni storiche con Lee Hazlewood.
"Shades" è un'incursione nei dirupi oscuri dell'anima, affollata di demoni e fantasmi, in cui un asciutto lirismo si innesta in un tessuto sonoro country-folk pervaso da una vena gotica e desolata. In copertina, Vera è fotografata in una stanza fatiscente, avvolta in quello che sembra un abito da sposa d'epoca, come in una istantanea color seppia di un'era lontana. Domina un'impronta minimalista, tutta giocata sul dialogo intimo voce-chitarra e su fugaci suggestioni dream-folk alla Marissa Nadler. Le ombre del titolo in un attimo vengono messe a fuoco con un'intensità poetica che toglie il fiato: l'America di Vera Sola è uno spaccato inedito, il racconto gothic-noir di una Nashville selvaggia e oscura, che in pochi hanno avuto il coraggio di raccontare.

L'apertura di "The Virgil's Flower" mette subito in luce la peculiarità di Vera rispetto alla concorrenza: un registro austero, classico, pacatamente inquieto, che si sposa ad arrangiamenti minimali ma incisivi, con quelle percussioni scandite come una marcia implacabile ad assecondare la sua declamazione limpida, prima che tutto si dissolva in una coda d'organo. Chitarre elettriche tintinnanti, acustiche dal sapore flamenco e percussioni trascinanti conferiscono a "The Colony" una tensione western mentre il timbro senza tempo di Danielle ci trasporta in una storia infestata dai fantasmi, tra le rovine di una ghost town dell'era della corsa all'oro, in cui la sacralità delle terre native veniva infranta dal rombo dei treni, con quei versi che ribollono di indignazione: "I gouge myself a pipeline, and I dig myself a mine... take the land from them to stanch their living" ("Mi scavo un oleodotto, e mi scavo una miniera... prendo loro la terra per soffocare la loro vita"). La stessa raggelante collera che nel tremolo folk di "Black Rhino Enterprises" svela l'atrocità dello sterminio dal punto di vista di una vittima, che dalla tomba non può testimoniare neanche la sua prigionia: "And I've never been captive/ so I cannot speak for chains/ and I've never been captured/ from the grave/ I cannot say".

È un basso luminoso e tremolante a guidare tra i solchi di un disco che nei suoi paesaggi arsi e desolati brucia di una rabbia rappresa, come quella di "For (The Comfortable)", che evoca senza tregua la devastazione provocata dal male quando il mondo resta a guardare. La scansione ritmica è costante, inesorabile, anche quando Vera utilizza qualsiasi oggetto a portata di mano come percussione per accentuare il rintocco funereo di "Circles", dove le voci sovrapposte alimentano un crescendo noir da murder ballad alla Nick Cave, o per immergerci nella melodia ipnotica canticchiata in "Small Minds", che dietro la sinuosità dei suoni cela un'amara riflessione personale sul rapporto con un uomo insensibile ("I want to hurt you/ I want to make you feel alone... But would you care at all?"), di cui la conclusiva "New Nights" pare quasi l'inevitabile epilogo, con il suo struggente requiem di un amore perduto ("Every morning is a murder... that the day would dare continue, without you by my side").

Altrove, gli arrangiamenti si fanno più variegati, come nella marcia solenne di "Loving, Loving", con un incedere cerimoniale in stile Black Heart Procession e una preziosa linea di chitarra elettrica, o nella tesa "The Cage", in cui Vera imbastisce un surreale dialogo tra Eva e Dio nel Giardino dell'Eden, che si traduce in un dolente atto d'accusa sulla misoginia ("You are here a derivation/ so you make the most out of being/ second in line").
I tormenti di "Shades" sono antichi, ma sembrano quasi una resa dei conti con il mondo contemporaneo, con quel verso "I read the tarot on my phone" (in "By Mothlight") a raffigurare quasi plasticamente il contrasto. Una fiera dichiarazione di solitudine e alterità, che oscilla tra personale e universale. Folk, western, doo-wop, soul e gothic ribollono in un crogiolo dalle sfumature seppia. Un'opera così articolata che pare quasi impossibile sia stata realizzata da una persona sola.

24/05/2025

Tracklist

  1. Virgil's Flowers
  2. The Colony
  3. Small Minds
  4. Circle
  5. For
  6. Black Rhino Enterprises
  7. Loving, Loving
  8. The Cage
  9. By Mothlight
  10. New Nights

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