È una storia di figli d'arte e talenti incrociati, quella di Danielle Aykroyd, per tutti ormai Vera Sola, una delle voci più originali emerse dal sempreverde firmamento cantautorale a stelle e strisce.
Nata il 18 novembre 1989 a Los Angeles, California, Danielle è figlia di un mito di Hollywood come Dan Aykroyd (“The Blues Brothers”, “Una poltrona per due” “Ghostbusters” etc.) e di Donna Dixon, l'attrice ed ex-modella che l'allampanato divo canadese incontrò sul set di “Doctor Detroit” e sposò nel 1983 (i due si sono separati nel 2022). Sarà invece un altro erede illustre del cinema, Elvis Perkins, figlio di Anthony Perkins (l’attore feticcio di Alfred Hitchcock in “Psycho”), a incoraggiarla sulla strada della musica, invitandola a unirsi alla sua band come bassista e polistrumentista. Una scelta non scontata, perché gli interessi della giovane Aykroyd erano rivolti in disparate direzioni.
Cresciuta tra New York e una fattoria in Canada, immersa in un ambiente familiare impregnato di letteratura, cinema e musica, Danielle sviluppa una peculiare predisposizione per la poesia, che mette a frutto nei suoi studi. Dopo aver frequentato la Saint Ann's School a Brooklyn, si iscrive all'Università di Harvard, dove si laurea in Letteratura. Durante quel periodo, studia poesia sotto la guida di Jorie Graham, un'esperienza che si rivelerà cruciale per la sua esperienza cantautorale. Inizialmente, la sua carriera si orienta verso la radio e il doppiaggio, attività che continua a svolgere tuttora, prestando la sua voce per spot pubblicitari e narrazioni per televisione e cinema. Poi, arriva l'occasione che le cambierà la vita.
Calling ElvisFiglio del protagonista di "Psycho" e di una celebre fotografa, Elvis Perkins è tutto tranne che il classico rampollo di una coppia celebre: rimasto orfano alla morte della madre negli attentati dell'11 settembre (la fotografa Berry Berenson, che era a bordo dell’aereo che si schiantò per primo contro il World Trade Center), è arrivato al debutto discografico solo dopo la trentina e ha sempre preferito centellinare nel tempo le sue canzoni. Dando vita a un cantautorato personale e visionario, in cui i fantasmi del passato evaporano nella luce dell'alba. Dopo aver pubblicato due interessanti lavori come “Ash Wednesday” (2006) ed “Elvis Perkins In Dearland” (2009), nel 2015, dopo una pausa di 6 anni, dà alla luce il suo terzo album, “I Aubade”. È un personaggio atipico, il giovane Perkins, in quei sei anni di silenzio, la sua non è una semplice lontananza dai riflettori: è in pratica un esilio volontario dalla vita digitale. Non rinuncia, tuttavia, a promuovere in tour il disco ed è proprio questa la scintilla che accende la carriera musicale di Danielle Aykroyd. Amico di lunga data, Perkins la invita a unirsi alla sua band come bassista e polistrumentista durante il tour di "I Aubade". Un'esperienza felice e fortunata che accende in lei il desiderio di intraprendere un percorso cantautorale solista.
Per l'occasione, Danielle decide di non sfruttare l'ingombrante cognome familiare, affidandosi a un curioso moniker, Vera Sola, nato come un gioco ironico con sé stessa, unendo una vena autoironica a una sincera ricerca di autenticità artistica (sì, in romanesco si presta a una facile ironia, che vi risparmieremo).
E all'insegna di un autarchico fai-da-te è anche il suo debutto discografico. Nel febbraio 2017, Vera Sola entra in studio per registrare Shades di cui cura quasi ogni aspetto: dalla scrittura agli arrangiamenti, dalla produzione all'esecuzione di tutti gli strumenti, utilizzando anche elementi non convenzionali come ossa, catene e vetri rotti per creare atmosfere sonore uniche.
Pubblicato il 9 novembre 2018, Shades è un’incursione nei dirupi oscuri dell’anima, affollata di demoni e fantasmi, in cui un asciutto lirismo si innesta in un tessuto sonoro country-folk pervaso da una vena gotica e desolata. In copertina, Vera è fotografata in una stanza fatiscente, avvolta in quello che sembra un abito da sposa d’epoca, come in una istantanea color seppia di un’era lontana. Domina un'impronta minimalista, tutta giocata sul dialogo intimo voce-chitarra e su fugaci suggestioni dream-folk alla Marissa Nadler. Le ombre del titolo in un attimo vengono messe a fuoco con un’intensità poetica che toglie il fiato: l’America di Vera Sola è uno spaccato inedito, il racconto gothic-noir di una Nashville selvaggia e oscura, che in pochi hanno avuto il coraggio di raccontare.
L’ apertura di “The Virgil’s Flower” mette subito in luce la peculiarità di Vera rispetto alla concorrenza: un registro austero, classico, pacatamente inquieto, che si sposa ad arrangiamenti minimali ma incisivi, con quelle percussioni scandite come una marcia implacabile ad assecondare la sua declamazione limpida, prima che tutto si dissolva in una coda d’organo. Chitarre elettriche tintinnanti, acustiche dal sapore flamenco e percussioni trascinanti conferiscono a “The Colony” una tensione western mentre il timbro senza tempo di Danielle ci trasporta in una storia infestata dai fantasmi, tra le rovine di una ghost town dell’era della corsa all’oro, in cui la sacralità delle terre native veniva infranta dal rombo dei treni, con quei versi che ribollono di indignazione: “I gouge myself a pipeline, and I dig myself a mine... take the land from them to stanch their living” (“Mi scavo un oleodotto, e mi scavo una miniera… prendo loro la terra per soffocare la loro vita”). La stessa raggelante collera che nel tremolo folk di “Black Rhino Enterprises” svela l’atrocità dello sterminio dal punto di vista di una vittima, che dalla tomba non può testimoniare neanche la sua prigionia: “And I’ve never been captive/ so I cannot speak for chains/ and I’ve never been captured/ from the grave/ I cannot say”.
È un basso luminoso e tremolante a guidare tra i solchi di un disco che nei suoi paesaggi arsi e desolati brucia di una rabbia rappresa, come quella di “For (The Comfortable)”, che evoca senza tregua la devastazione provocata dal male quando il mondo resta a guardare. La scansione ritmica è costante, inesorabile, anche quando Vera utilizza qualsiasi oggetto a portata di mano come percussione per accentuare il rintocco funereo di “Circles”, dove le voci sovrapposte alimentano un crescendo noir da murder ballad alla Nick Cave, o per immergerci nella melodia ipnotica canticchiata in “Small Minds”, che dietro la sinuosità dei suoni cela un’amara riflessione personale sul rapporto con un uomo insensibile (“I want to hurt you/ I want to make you feel alone… But would you care at all?”), di cui la conclusiva “New Nights” pare quasi l’inevitabile epilogo, con il suo struggente requiem di un amore perduto (“Every morning is a murder…that the day would dare continue, without you by my side”).
Altrove, gli arrangiamenti si fanno più variegati, come nella marcia solenne di “Loving, Loving”, con un incedere cerimoniale in stile Black Heart Procession e una preziosa linea di chitarra elettrica, o nella tesa “The Cage”, in cui Vera imbastisce un surreale dialogo tra Eva e Dio nel Giardino dell’Eden, che si traduce in un dolente atto d’accusa sulla misoginia (“You are here a derivation/ so you make the most out of being/ second in line”).
I tormenti di Shades sono antichi, ma sembrano quasi una resa dei conti con il mondo contemporaneo, con quel verso “I read the tarot on my phone” (in “By Mothlight”) a raffigurare quasi plasticamente il contrasto. Una fiera dichiarazione di solitudine e alterità, che oscilla tra personale e universale. Folk, western, doo-wop, soul e gothic ribollono in un crogiolo dalle sfumature seppia. Un’opera così articolata che pare quasi impossibile sia stata realizzata da una persona sola.
Il cantautorato di Vera Sola si colloca in un punto imprecisato e mobile fra Vera Lynn e Vera Hall, fra la grande dame della British music hall e la cantante di spiritual dell’Alabama ai tempi della Grande Depressione. Se i riferimenti contemporanei sembrano soprattutto il songwriting sfuggente di Micah P. Hinson, l'enigmatico folk di Angel Olsen e le suggestioni desertiche dei Calexico, aleggia sulle canzoni anche l'ombra aggraziata di Nancy Sinatra, specie quella delle collaborazioni storiche con Lee Hazlewood.
A dispetto dei pochi mezzi a disposizione e della produzione spartana, Shades incontra subito reazioni critiche molto favorevoli, e non solo in patria: la rivista francese Magic gli attribuisce il massimo del punteggio, nominandolo secondo miglior disco dell'anno e definendolo “un capolavoro assoluto”.
Ma anche Vera non è certo una che ama le liturgie del music business. Così, sulla falsariga dell'amico Elvis, si concede ben cinque anni di silenzio discografico: praticamente un suicidio commerciale per un'artista debuttante in rampa di lancio. Eppure, l'attesa si rivelerà un'opportunità vincente per la cantautrice e polistrumentista americana.
Ballate pacificatriciPer l'opera seconda Peacemaker (2024), Vera non fa tutto da sola (ops!): co-produce il disco insieme a Kenneth Pattengale (Milk Carton Kids) e chiama al suo fianco uno stuolo di musicisti coi quali scolpire un immaginario sonoro non più circoscritto al dialogo del passato fatto di voce, chitarra e poche sparute vestigia malinconicamente dream-pop che stavano in bilico tra la sensibilità di Marissa Nadler e la solitaria drammaturgia di Leonard Cohen. Nasce dunque una cornice più consistente attorno al suo tipico sound, attraverso una strumentazione più ricca, che prevede anche archi e fiati in grado di accentuare il fascino oscuro delle sue composizioni.
La scelta di ampliare la struttura strumentale, con band al completo e annesse sezioni d’archi e fiati, va a tutto vantaggio dell’autenticità dei personaggi e delle storie di solitudine, amore e violenza che fanno da sfondo all’album. Spaccati spesso crudi e desolati, a cui si associa però un suggestivo afflato onirico.
Pur pubblicato nel 2024, Peacemaker è stato in gran parte concepito e realizzato nel 2019; Vera ha lasciato marinare le undici canzoni negli anni della pandemia e dell’isolamento emotivo, per poi incastonarle in un pamphlet teatrale e musicale a metà strada tra Tom Waits e i Calexico, e il risultato è sfavillante, magico.
Peacemaker è un disco che non nasconde mai la propria tormentata natura: il passaggio dal passato al presente è subito scandito dai primi due brani: “Bad Idea” - rievocazione dell'esperienza personale di Vera durante l'incendio Woolsey - per un attimo lascia riaffiorare le immagini dell’esordio, ma lo sfarfallio degli archi alla Penguin Cafè offre i primi indizi del cambiamento, mentre il pop-rock-surf di “The Line” è il definitivo segnale della rivoluzione semantica di Vera Sola con tempi rock’n’roll sporchi, sudici.
Il titolo dell’album è una dichiarazione d’amore per i pistoleri del vecchio West (ne riparliamo in occasione dell’ultima traccia), un mondo passato che nelle mani di Danielle assume sembianze oniriche e fatalmente carnali, tra atmosfere latine che si tingono di noir (“Get Wise”) e pagine ingiallite di diari mai scritti, elegantemente addobbate dal duettare di piano e chitarra su delicate note di un antico valzer (“Is That You?”).
Canti d’amore e di sentimenti ordinari non mancano nell’immenso, eppur essenziale, scenario del disco: sono canzoni melodicamente disordinate e struggenti, che ancora una volta richiamano il fascino maudit di Tom Waits, come in “I’m Lying”, con le sue evocazioni poetiche (“La pioggia che si rompe sui vetri delle finestre/ Sul sedile posteriore di un’auto presa in prestito/ In un parcheggio nel Tennessee/ Dove dico Ti amo, ti amo, ti amo, ti amo/ Sto mentendo..), ma anche inattesi slanci alla Patsy Cline che regalano una delle pagine più ariose (“Desire Path”), nonché accenni di ibride sonorità elettroniche che non mutano l’essenza di ballate tanto spettrali quanto viscerali (“Waiting”, egualmente inebriata di armonie alla Patsy Cline).
Il secondo album di Vera Sola mostra così tutti i connotati di un instant classic, un disco destinato a crescere con il passare del tempo, un racconto dove le pagine più oscure sono rese lucenti dal suono lontano di percussioni e archi intrappolati in un decadentismo pittorico (“Bird House”) o dove murder ballad alla Nick Cave sono messe alla berlina da un sarcasmo degno di David Lynch o dei fratelli Coen (la splendida “Hands”).
A rendere ancor più incendiarie le parole e le melodie è la splendida voce della cantautrice americana: il vibrato di Danielle si fa strada tra le note più dure e grezze del disco (“Blood Bond”), con la stessa intensità dispensata nell’audace e accorta “Instrument Of War”, canzone che nell’allegorica storia di una pistola Colt, chiamata appunto “Peacemaker”, racchiude l’ambiguo dualismo di uno strumento di vita e di morte, simbolo della moderna inquietudine e protagonista inconsapevole di uno dei capolavori del cantautorato targato 2024.
La voce elegante di Vera, che evoca nuovi raffronti lusinghieri con quella di Nancy Sinatra, mette in mostra una qualità ipnotica che cattura l'ascoltatore, mentre i testi, intrisi di immagini gotiche e riferimenti letterari, riflettono la sua formazione poetica ma anche una peculiare vocazione cinematica. L'influenza di artisti come Leonard Cohen e Nick Cave è palese nella profondità lirica e nella capacità di raccontare storie complesse attraverso canzoni apparentemente semplici.
Il fascino delle ballate di Vera Sola si sposa anche a suggestive esecuzioni dal vivo. Le performance di Danielle sono state descritte come ipnotiche e quasi allucinatorie, con una grande presenza scenica e ambientazioni noir alla David Lynch. Il magazine Loud and Quiet arriverà a descriverla come "un androide di 'Westworld' fuori controllo; un anacronismo vivente, capace sia di conversazioni sul palco che di incarnare pienamente i personaggi delle sue canzoni". Vera Sola ha condiviso il palco con artisti come Sixto Rodriguez, partecipando a tour negli Stati Uniti e in Europa.
In attesa di un nuovo album, nel 2025 Vera Sola ha pubblicato l’Ep Ghostmaker, dove il suo haunted folk rivive nell’inedita “The Ghostmaster’s Daughter” (altra litania noir in punta di fingepicking) e nelle rivisitazioni di quattro tracce di Peacemaker: “The Line”, Hands”, “Get Wise” e una “Waiting” riproposta in compagnia dei Milk Carton Kids.
Che il talento sia sbocciato, insomma, è fuori discussione. Non ci resta che attendere con curiosità le prossime mosse della figlia d'arte più promettente del nuovo cantautorato a stelle e strisce.
Shades (Spectraphonic, 2018) | 7,5 | |
Peacemaker (Spectraphonic/ City Slang, 2024) | 7,5 | |
Ghostmaker (Ep, Spectraphonic, 2025) | 6 |
Sito ufficiale | |
Testi |