Alla fine la natura retrò della musica degli Allah-Las si è rivelata un’arma a doppio taglio per la band di Los Angeles e le premesse dell’esordio del 2012 non hanno trovato seguito nei pur piacevoli album seguenti. Jangle-pop alla Byrds e surf music non si sono rivelate materie stilistiche facilmente compatibili, e una scrittura non brillante ha poi inibito il potenziale della band, facendo prevalere sempre di più l’estetica sulla sostanza.
“LAHS” è il primo segnale di redenzione creativa, ma anche un singolare errore strategico per una band che fino ad ora aveva affidato a una briosa euforia la potenzialità espressiva della sua proposta. Gli Allah-Las giocano la carta della versatilità e della varietà di stili, spazzando via parte della pretenziosità degli ultimi capitoli e strappando qualche lieve sorriso di compiacimento per una band che è in cerca di un’identità meno sfuggente e più definita.
Peccato che la band si ricordi di accennare qualche idea lirica solo verso la fine dell’album: l’onirica malinconia à-la Rem di “Polar Onion”, il pop psichedelico stile Curt Boettcher di “On Our Way” e la profondità delle atmosfere sonore di “Houston” sono senza dubbio le migliori espressioni di “LAHS”.
È pur vero che il blues svogliato alla JJ Cale di “Keeping Dry”, la dance psichedelica di “Roco Ono” e l’originale mix di George Harrison e samba di “Prazer Em Te Conhecer” aprono nuove interessanti prospettive per la band americana, ma altrove prevale una sensazione di superficialità e approssimazione della scrittura che riduce interessanti sperimentazioni a futili riempitivi (“Royal Blues”,”Light Yearly”). Ed è superfluo il citazionismo che imperversa nei restanti brani, tra richiami ai Grateful Dead in “Holding Pattern” e nella jam session all’acqua di rose di “Star”, o ai Beach Boys nella scialba “In The Air”.
“LAHS” convince a metà, risultando piacevole nel suo insieme solo per la natura meno pretenziosa del progetto.
22/10/2019