Quante volte avete letto nelle recensioni dei lavori degli Animal Collective - e dei dischi in solitaria di chi lo compone, questo folle progetto - la locuzione “melassa psichedelica”? Avete mai provato a definire questa (forse indefinibile) espressione, a circoscriverla, a darle un senso? Non è semplice, non può esserlo. Forse viene più utile pensare alle sabbie mobili: una massa di sabbia, argilla e sale, tutti elementi in apparenza solidi, ma che intrisi d’acqua formano un aggregato instabile, in cui il liquido attutisce fino ad annullare completamente l'attrito tra i granuli. Nelle sabbie mobili sprofonda ogni cosa, e liberarsi è impresa assai ardua. Il suono dei dischi di Avey Tare, che del Collettivo Animale è co-fondatore, porta più o meno a questo risultato. Solo che al posto dell’acqua, è l’acido lisergico ad ammantare un composto psichedelico dal quale (un po’ come i buchi neri al centro delle galassie) è impossibile uscire.
L'ultimo album solista di Avey Tare, il selvatico “Eucalyptus” del 2017, aveva in sé questo grosso limite. Il mood paludoso e stratificato, che se nell’esordio di “Down There” poteva affascinare per il suo incedere trasognato, cupo e straniante, quasi da discesa negli inferi dell’anima, in “Eucalyptus” lasciava l’ascoltatore in balia della stasi, dell’immobilismo e della costrizione. Anche il recente ritorno degli Animal Collective, l’ultimo “Tangerine Reef”, restava amorfo e impantanato in una profondità insostenibile, nella più totale assenza di una forma distinguibile e memorabile per le sue composizioni. Sarebbe forse indelicato tirare in ballo l’assenza del diamante pop di Panda Bear, dei suoi guizzi melodici e delle sue armonie erranti, eppure…
E come per il compare Panda nel recente “Buoys”, anche per il buon Dave Portner va registrata una stagione 2018/19 all’insegna del ritorno al passato freak-folk. “Cows On Hourglass Pond” riaccende il fuoco dei primitivismi degli esordi, con le stratificazioni elettroniche sempre presenti ma rilette in chiave più leggera, meno impastate e subacquee rispetto a quanto fatto nei lavori precedenti. L’acustica quasi sempre in primo piano in fase di mixaggio, il rinnovato interesse per il ritmo che smuove dal torpore, la proverbiale logorrea sbilenca dello sciamano del Maryland mai soffocata o sofferta ma anzi più viva che mai, annacquata senza mai esser completamente sommersa.
Una risalita dagli abissi certificata da un affascinante e rarefatto melodismo che sa di nostalgia e pioggia atlantica (“Saturday (Again)”), folk obliquo e atmosferico (“Remember Mayan”, la seconda parte di “What’s The Goodside?”, lisergica e spaziale come certi arazzi di Atlas Sound), narcolettiche composizioni droniche (“Nostalgia In Lemonade”, “Our Little Chapter”), luminose filastrocche che, come il mattino, hanno l’oro in bocca (“HORS_”, con Portner che strimpella la sua acustica accompagnato da un irresistibile ritmo clip-clop). Il nuovo e felice corso di Avey Tare continua con il sing along di “K.C. Yours” strutturato su un beat primitivo che sembra quasi di ascoltare una B-side di “Feels”, in cui la chitarra impregnata di acido di “Eyes On Eyes” riporta alle comuni floreali che per anni sono stati la giusta dimora del Collettivo.
Cosa resta di questo “Cows On Hourglass Pond”? Un sapore dolce e rustico, antico ma vitale, a tratti davvero bucolico. Probabilmente nessuna canzone memorabile, ma forse a Portner nemmeno interessa. Quello che conta è che, per questa volta, le sabbie mobili non siano più così minacciose. Ora che Avey e Panda hanno riscoperto il piacere dei vecchi campfire, persi nei boschi e nei loro altissimi sogni lucidi, l’attesa per il loro ritorno in famiglia è ancora più grande.
03/04/2019