Well, it's been such a long time
Why don't you come on in?
Sì, è passato parecchio tempo, qualcosa è cambiato, ma forse conviene ancora entrare. Bill Callahan ha sposato Hanly Banks, è diventato papà del piccolo Bass, si diverte su Twitter, non sembra voglia spostarsi dalla cara Austin e tutto il suo repertorio discografico è su Spotify. Vista la puntuale cadenza con cui l'ex-Smog ci aveva abituato fin dal lontano 1990 con “Sewn To The Sky”, il lungo silenzio creatosi dopo "Dream River” iniziava a farsi pesante. Fortunatamente ecco arrivare alle nostre orecchie “Shepherd In A Sheepskin Vest”: riguardo la pausa, il Nostro ci tiene subito a chiarire le cose in “Writing”, poiché la vita potrà anche cambiare, la missione/vocazione no:
It feels good to be writing again
Clear water flows from my pen
And it sure feels good to be writing again
I'm stuck in the high rapids, night closes in
It feels good to be singing again
Yeah, it sure feels good to be singing again
Le venti tracce di “Shepherd In A Sheepskin Vest” (in uscita il 14 giugno, sempre sotto la fedele Drag City) sono vividi e intensi scorci d'una nuova realtà: se nei precedenti lavori Callahan era un inscalfibile baluardo a difesa dalla solitudine, dell'intimità e della purezza delle relazioni più profonde, circondato da un silenzio e da una natura necessarie per interrogarsi sul trittico Amore, Vita e Morte, ora il discorso si amplia su scala più familiare e sociale. Senza perdere un grammo d'intensità e poesia.
Ad assecondare musicalmente il cantautore saltuariamente appaiono dei comprimari - Matt Kinsey alla chitarra, Brian Beattie al basso acustico – e ancora più raramente una batteria irrompe tra le note (“747”, Relesead”): a dominare sono la voce, la chitarra e le parole di Callahan. Come sempre. Sotto potrete sentire – e vedere – lo scricchiolare delle assi del pavimento, il sole del mattino, le interruzioni dovute all'euforia del figlio, le piccole commissioni quotidiane. “Last night I swear I felt your touch”, cantava qualche anno fa in “
Eid Ma Clack Shaw”, e ora le vecchie perdite sono colmate e le giornate segnate solo da due parole - “Beer And Thank You" - finite.
La situazione attuale è raccontata in “Son Of The Sea”: “The house is full of life; life is change”. Non è una quotidianità narrata parola per parola, quasi in presa diretta come fa da un po'
Kozelek: ogni istante è filtrato in quel lavoro di distillazione, di ricerca dell'essenziale che ha portato molto vicino la lirica di Callahan a quella di
Cohen.
Scabro ed essenziale, per scomodare Montale, d'un infinitesimamente piccolo e privato, che grazie alla poesia e alla musica riesce a essere universale.
Superata la simbolica copertina, l'eco in lontananza di “Shepherd's Welcome” anticipa un sogno, raccontato nella successiva “Black Dog On The Beach”, incentrata sulla figura paterna: ora che è genitore, Bill inizia il discorso partendo dal suo di padre. “Shepherd In A Sheepskin Vest” contiene inediti e gustosi autoritratti: "The Ballad Of The Hulk" è l'accostamento tra il cantautore e il protagonista della vecchia serie tv, famosa per le scene in cui il dottor Banner si trasformava lacerando le vesti. A inframezzare il tragitto, gli scorci bucolici pieni di una sincera felicità che solo Callahan riesce a non rendere banale: chi altri si potrebbe permettere un “I got married, to my wife, she’s lovely” (“Son Of The Sea”) o un “I've got the woman of my dream” (“What Comes After Certainty”)?
Inutile andare a scovare o impuntarsi sulla scelta dei brani più belli: Callahan dissemina pezzi della sua anima e talento in ogni brano, da “Confederete Jasmine” passando per “Camels” ("Can separate the man from his place"), fino alla sopracitata “What Comes After Certainty”, in cui il cantautore, raccontandoci della luna di miele a Kauai, si muove in perfetto equilibro tra le sicurezze dell'inedita dimensione e l'irriducibile muoversi in equilibrio su una linea di lunghi dilemmi:
True love is not magic
It's certainty
And what comes after certainty
A world of mystery
Appena s'inizia a pensare che il Nostro stia dando il meglio di sé sul versante romantico (la sola "Circles" può sbaragliare tranquillamente ogni canzone d'amore uscita negli ultimi sei anni: “I made a circle, I guess, when I folded her hands across her chest"), verso la fine dell'opera, superata la narrazione di questo mondo di affascinanti e inevitabile misteri, l'oscuro
family man si ritrova ancora a camminare per valli solitarie e a fare i conti con la bestia che abbiamo dentro. La sua versione del classico “Lonesome Valley”, impreziosita dal bel piano e dalla voce femminile, e la conclusiva “The Beast” sono il degno gran finale d'una lunga confessione imbevuta di storie, vita vissuta, sogni e visioni, riflessioni, bellezza e sincerità tratteggiata con il tocco unico di Callahan.
Non ci interessa sapere se sotto il manto della pecora ci sia un Lupo o un Pastore: ci basta sapere che li possiamo trovare la voce più intensa e profonda in circolazione.
01/06/2019