Per quanto “Angel's Pulse” sia la prima pubblicazione ufficialmente dichiarata come tale da Devonté Hynes, si potrebbe tranquillamente definire la sua carriera a nome Blood Orange come una consistente serie di mixtape, a cui è stata fornita un'adeguata cornice concettuale e un'appropriata rifinitura produttiva per giustificarne la promozione ad album.
Nessun intento denigratorio in quest'affermazione, dacché è la natura difforme, stilisticamente incostante dei suoi progetti ad averne messo in evidenza (tra le altre cose) il ricercato talento sonoro, la peculiare sensibilità compositiva, diventata ormai un paradigma contemporaneo. Anche così, è difficile non rilevare la maggiore eterogeneità, la successione velocissima dei quadretti di quest'ultimo progetto, uno dei tanti taccuini di appunti registrati nel corso degli anni, per il quale è stata decisa infine una diffusione al di fuori delle mura domestiche. Poco male, dacché è una nuova occasione per perdersi nei viaggi senza meta di Hynes, nel suo tono intimo e conviviale allo stesso tempo, sempre capace di travalicare estetiche e attitudini in uno schiocco di dita.
Inutile cercare le nuove “Chamakay” e “Charcoal Baby”, non è nelle intenzioni di Hynes proporre il nuovo anthem art-soul con cui rimpinguare un ipotetico greatest hits della sua ormai consistente carriera. Piuttosto, quello che più gli preme è fornire ancora una volta uno spaccato del suo fervido processo creativo, della natura gregaria della sua arte, che fiorisce specialmente se si circonda di amici e collaboratori, tali da esaltarne le sottili nuance sonore.
Se è vero che molti dei momenti qui contenuti difficilmente vanno oltre lo status di bozzetto poco sviluppato (specialmente negli episodi in solitaria) nondimeno il discorso riesce a non risolversi nel compitino privo di spessore grazie al ricco parterre di ospiti, da fare invidia anche alle sue pubblicazioni maggiori. Dalla voce della nuova stella arty Kelsey Lu, qui chiamata a declamare con fare quasi innodico i brevi tratteggi melodici di “Birmingham”, ai fraseggi soul-hop (densi di commenti di archi) disegnati in compagnia di Toro Y Moi, il cast qui coordinato viaggia tra i generi e le attitudini, in un'alternanza che alla frenesia, tipica di simili operazioni, preferisce invece contrapporre una candida rilassatezza.
Momenti di concitazione hip-hop (in cui fa capolino il dolce lirismo di una Tinashe affrancata ormai dalle beghe contrattuali), fulminee ballate dal tono gospel (il minimalismo estremo di “Berlin”, in aperta collaborazione dell'amico Ian Isiah e Porches), la torch-song narcolettica di “Take It Back” (con tanto di contributo vocale “operatico” da parte di Arca): in trentadue minuti si dispiega ancora una volta il sofisticato mondo espressivo di Devonté Hynes, il dialogo intrattenuto, come da moderno mecenate, col meglio dell'intellighenzia queer/black in circolazione. Anche nella sua ovvia natura intelocutoria (che sia il corollario di un'intera era creativa?) il marchio Blood Orange continua a dispensare momenti di autentica classe.
26/07/2019