Chi, come me, li ha conosciuti con “Yellow” e “Clocks”, ballate un po’ sbilenche, che si portavano dietro strascichi britpop e il desiderio di un nuovo modo di fare pop-rock, probabilmente li ha dapprima amati e in seguito ripudiati. Chi con quel pop introverso e crepuscolare, ripiegato su se stesso, ci è cresciuto, non ha potuto fare a meno di allentare la presa quando sono arrivate le melodie euforiche e svenevoli, l’atteggiamento jovanottistico, le collaborazioni con Rihanna e i testi vuoti, non per snobismo, ché da queste parti il pop fatuo piace pure, ma per delusione. Delusione per quel che poteva essere e non è stato. Delusione perché anche quegli ingenui ragazzotti inglesi s’erano piegati a un diverso modo di creare e concepire la musica. Non necessariamente peggiore, indubbiamente meno puro.
Ma il 2019, che pare essere un’annata proficua, ha portato consiglio anche a Chris Martin e compagni, che hanno pubblicato un doppio album composto da “Sunrise” (parte prima) e “Sunset” (parte seconda), che è un melting pot caotico e quasi indistinto di world music, bedroom pop, influenze medio-orientali e tentazioni afro-beat.
Manca, per fortuna, il consueto inno da urlare a squarciagola negli stadi agitando bandierine colorate. Al suo posto troviamo “Arabesque”, che vede la collaborazione di Stromae e Femi Kuti, figlio di Fela, ed è un tripudio di suggestioni jazz, col sax in primo piano, e mescolanze sonore a dipingere l’idea di musica come strumento per la pace.
“Music is the weapon, music is the weapon of the future”. Sicuramente il miglior pezzo del disco, insieme alla critica sociale di “Trouble In Time” e a “Church”, delicatamente screziata da un tocco ambient.
Interessante “Guns”, che rimanda ai primissimi dischi, mentre è da sottolineare che anche le ballate sembrano aver riacquistato un certo piglio: “Èkó” è un’ode all’Africa e alle sue donne, infatti si avvale della collaborazione della cantautrice e musicista nigeriana Tiwa Savage; "Champion Of The World" è la ballata perfetta che Chris Martin stava cercando di scrivere da un bel po' di anni; mentre “Daddy”, suonata al pianoforte, è una ninnananna rivolta a un padre distante, in cui il cantante accarezza le parole una ad una, le lascia vibrare nell'aria, senza aggredirle, ma soprattutto, per la prima volta dopo tanto tempo, si mette a nudo senza maschere (“Look dad, we got the same hair/ and daddy, it’s my birthday”).
“Everyday life”, in chiusura, omaggia sfrontatamente “Everybody Hurts” degli Rem (“Cause everyone hurts, everyone cries”).
L’unica concessione al passato recente fancazzista dei Coldplay si trova nel singolo “Orphans”, che in realtà si amalgama bene nel contesto del disco, senza stonare o risultare fastidioso. Forse perché il mood generale è piuttosto plumbeo anche quando scappa un sorriso. Forse perché l’ostentata positività degli ultimi album ha lasciato il posto a una speranza inquieta e fugace.
Di alcuni brani avremmo fatto volentieri a meno, in particolare della gospel “BrokEN” e di “WOTW/POTP”, sconclusionata demo alla chitarra, e in generale si sarebbe potuto realizzare un disco più compatto, raggruppando alcuni pezzi, eliminandone altri, riorganizzando la scaletta in modo più coerente e scorrevole.
Però è anche questo caos interiore a rendere “Everyday Life” forse il disco più onesto dei Coldplay, fors’anche il meno commerciale. Slabbrato e impreciso, ricco di intuizioni e citazioni, nonché di qualche, seppur timida, sperimentazione (“Cry Cry Cry”, “Trouble In Time”, “Sunrise”, “Arabesque”).
Probabilmente i Coldplay ben presto si renderanno conto di aver scontentato parecchi seguaci con un disco così scompaginato e poco colorato, sin dalla grigia copertina, e torneranno a concentrarsi su altro. Per ora, però, non si può non apprezzare il disegno e l’impegno che ha portato alla creazione di un bel lavoro quale è “Everyday Life”.
25/11/2019