Una volta riemerso dalle stanze sonore avvolte nella notte più ancestrale, il percussionista d’avanguardia Ingar Zach sa certamente confrontarsi anche con il tempo presente. Tanto più quando la sua scura poetica primitivista si applica a un ensemble misto come quello incontrato lo scorso anno in “Pressing Clouds Passing Crowds” (Hubro, 2018) del sodale Kim Myhr, già con lui nel trio Mural.
La suite da camera scritta e condotta dal chitarrista ha ispirato in Zach una nuova versione del suo brano “The Lost Ones”, in origine composto per sola voce e percussione; la partecipazione del Quatuor Bozzini rimane comunque funzionale al sostenimento di un’atmosfera tendenzialmente monocorde e rarefatta, con poche stoccate a turbare la linearità indicata da un’onda corta che attraversa i venti minuti nella loro interezza, sino a un climax che, pur senza tragicità, ha l’inconfondibile sentore di una fine ineluttabile.
L’intervento poetico della franco-norvegese Caroline Bergvall è tanto breve quanto difficile da interpretare, come un racconto del quale è conservato soltanto il paragrafo finale, e non ci è dato sapere chi, cosa e perché, ma soltanto il vago e inspiegabile come di un addio senza ritorno.
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Now I must leave, now you must let go. Now you leave, now I let you go.
Take good care of this life, said the departing one, to the ones who stay.
I bless and thank you, embrace and hold you, said the left ones, to the leaving ones.
Said the last ones, to the lost ones.
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“Let The Snare Speak”, seconda metà del disco, è invece una rivisitazione solista del brano commissionato a Zach dall’ensemble australiano Speak Percussion, responsabile del progetto continuativo “Before Nightfall” al cui primo capitolo ha preso parte anche il Nostro. La diffusione di sine tones attraverso gli amplificatori non è soltanto un elemento sonoro autonomo – figlio delle ricerche psicoacustiche di Alvin Lucier – ma anche propedeutico alla generazione di vibrazioni sulla superficie dei tre rullanti controllati dalle mani di Zach. Ciò che ne risulta è una drone music che accosta livelli di continuità ad altri in perpetua mutazione, tra effetti granulosi di spessore variabile che talvolta si approssimano al noise elettronico meno brutale di Kevin Drumm.
Sulla volontà di mostrare il contrasto tra due facce della ricerca artistica del percussionista norvegese, in “floating layer cake” sembra aver prevalso quella di trovare una collocazione a due brani di media durata che avrebbero altrimenti sbilanciato l’equilibrio di album precedenti o futuri. L’origine stessa dei due brani finisce col destinarli al ruolo di corollari, per quanto interessanti, entro la produzione del fondatore di casa Sofa, il quale tuttavia trova la giusta occasione per dimostrare una versatilità sinora non così evidente.
09/04/2019