Un disco (in senso stretto) che chi ama Mina odierà senza mezzi termini, chi è nel circuito underground o avantgarde digerirà d’un sorso senza fatica e semmai giudizio dovesse far emergere, porterà ad andarsi a benedire col tempo. A prescindere, questo non è album/progetto che può accogliere giudizio alcuno e non a caso è stato quasi completamente ignorato dalla critica. È una manifestazione che va presa per quello che è o rifiutata, concetto che oggi più che mai incontra resistenze e viene percepito come “cazzeggio”.
Perché? Il valore estetico dell’album ha senso rispetto all’idea che lo genera. L’idea è quella di cantarsela e ballarsela sulle macerie di un mainstream come oggi lo viviamo andandone a recuperare le origini culturali tutte. L’esito non è agghiacciante, non è divertente, è irriverente e sottende un senso di dramma assai latente, di quelli che lasciano catatonici presupponendo che in qualche modo tutti lo si è già.
Per la prima volta che mi sia stata data d’ascoltare Manitù Rossi (per chi non lo sapesse, il cantante) veste quell’abito da sera più volte dichiarato in quanto “forse crooner” e lo fa rispettando ossequiosamente le melodie. Non c’è dentro e non c’è manco fuori, è quello che è e soprattutto, cosa magnifica, rinnega ogni tipo di fare performativo. Le sezioni strumentali, tra dadaismo, situazionismo e industrial, disegnano sotto il canto (probabilmente registrato a cappella su guide) scenari che a volte risultano associabili alle linee melodiche, in altri casi se ne allontanano completamente come a creare nebulose. Quello che si ascolta non è straniante perché non cerca nulla di definito, è un incontro (mai scontro, perché l’armonia è liquefatta e dunque si muove apparentemente random) dove nulla è casuale e può trovare convergenze mentali in chi ascolta oppure no.
È questo un disco che mi è piaciuto? Risposta: “no”, non nel senso più diretto, ma ci sono ritornato appresso così tante volte che ne ho perso il conto, perché i dischi che più mi hanno segnato son quelli che non ho capito, questo ha lasciato risorse/sedimenti in mille punti interrogativi e io non vivo di certezze, anche se le difendo. Nessun giudizio, è un album che può essere ascoltato o no, ma che comunque lascia il segno per assoluta unicità. Ad avercene. Un estremo manifesto della poetica in un’epoca in cui questa parola sembra aver perso ogni senso. Complimenti davvero.
(16/01/2021)