Riportare tutto a casa. Era questa, quasi inevitabilmente, la missione di Patrick Stickles e soci dopo l'estemporanea escursione in territori alieni di “A Productive Cough”. Un'escursione, va detto, parecchio avara di soddisfazioni. Al punto che gli americani del New Jersey si sono subito rimboccati le maniche per rimettere le cose al loro posto e tornare a fare ciò che gli viene meglio. Per tornare a casa, dicevamo: e quella casa si chiama punk. E questa volta, per evitare di cadere in nuove tentazioni, hanno deciso saggiamente di affidarsi a un produttore al di sopra di ogni possibile sospetto di cedimento a livello sonoro, Bob Mould, che in effetti ci ha messo del suo per far tornare i Titus Andronicus ai livelli che riconosciamo loro.
“An Obelisk” è un disco sporco, cattivo, sudato, e dunque punk-rock come è lecito aspettarsi. Ma non è “solo” un album di pancia. Al contrario, è la sua sostanza prima ancora che l'attitudine a stupire: ci sono idee e spunti dentro a queste dieci tracce, e forse vale davvero la pena di sottolinearlo. Più che al punk dell'ultima ora, tornato prepotentemente in auge in diverse sfumature con gente come Idles e Fontaines D.C., questo album (magari un attimo ripulito della sporcizia che fieramente propugna per riuscire a imbastire il parallelo) mi sembra guardare in più momenti alla lezione a stelle e strisce dei Superchunk. Che poi sono le stesse persone che mandano in stampa il tutto tramite la Merge: per una volta non sono gli opposti ad attrarsi.
In altre parole, “An Obelisk” si lascia ascoltare perché sa conciliare la sua verve corrosiva e una vena melodica nemmeno troppo nascosta, e che francamente non guasta. “Just Like Ringing a Bell” suona, per l'appunto, la campana della riscossa, ma è ben presto chiaro che di punk in questo lavoro c'è soprattutto il sentimento, più che un'effettiva e letterale applicazione.
L'anti-inno “(I Blame) Society” si inserisce appieno in questo filone, così come le selvagge “On The Street” e “The Lion Inside”, ma sono soltanto alcune tra le svariate soluzioni di cui “An Obelisk” può fare sfoggio. C'è una “Troubleman Unlimited” che rallenta i giri ed esplicita l'intervento dell'ex-Husker Du al timone. C'è il blues-rock sudicio e irriverente di “My Body and Me”. C'è la marcetta garage/rumorista di “Within The Gravitation”, che evoca piuttosto da vicino i Replacements, e all'opposto c'è il capitolo “orecchiabile” “Hey Ma”, in cui le distorsioni e le urla si fanno più o meno da parte e i risultati questa volta (se confrontati con quanto avveniva un anno fa) non sono affatto disprezzabili – il finale simil-epico sembra anzi cadere a fagiolo.
Il fatto che “Tumult Around The World” chiuda il sipario con dei cori west coast denota non solo un certo coraggio, ma anche un tocco di ironia.
Alla fine, nonostante la bava alla bocca e la vena iconoclasta che sono poi alcuni tratti caratteristici di questa formula, “An Obelisk” rischia perfino di sembrare un album scorrevole. E, certo, poteva andare meglio, come racconta la discografia degli americani. Ma, soprattutto, poteva andare molto peggio.
22/07/2019