“Dogrel” (o doggerel, a seconda dell'isola britannica su cui ci si trova) significa filastrocca. Si tratta di un termine antico, risalente al Quattordicesimo secolo, utilizzato in origine per denigrare versi di scarsa qualità, considerati troppo facili, o anche volgari. Versi fatti apposta, però, per arrivare a tutti, perfetti per scuotere le coscienze delle masse, aizzarle. Guidare la rivoluzione dal basso. È una parola, “Dogrel”, che si sposa alla perfezione con il punk, o perlomeno con la percezione primigenia che ne ebbe il ceto medio inglese.
Scelta dai dublinesi Fontaines D.C. come titolo del loro attesissimo debut album, “Dogrel”, diventa per la band un’indicazione di intenti chiara e ambiziosa.
La collocazione dei Fontaines D.C. all’interno della nuova, turbolenta ondata di band post-punk made in Uk e (come in questo caso) dintorni è avvenuta automaticamente sin dal lancio dei primi singoli. Un po’ a ragione, perché comunque le radici della musica dei Fontaines D.C. sono senz’altro punk, un po’ per convenienza, per cavalcare il successo ottenuto l’anno scorso da band come gli Shame o gli Idles. Con questi ultimi i dublinesi condividono etichetta (la Partisan) e, almeno in alcuni frangenti (“Big”, “Too Real”, la vorticosa “Hurricane Laughter”), l’indole guerrigliera delle declamazioni di Grian Chatten, che rovescia però le sue invettive in un ostentato e fiero accento irlandese.
L’Irlanda e la sua capitale, specie nei loro anfratti più dimenticati e meno abbienti, sono necessariamente il luogo delle narrazioni infuriate e drammatiche del vocalist. La tristissima ballad in minore “Roy’s Tune”, ad esempio, non solo racconta una storia proletaria priva di speranza, di chiaro stampo No Future, ma riesce a farti sentire il gelido vento d’Irlanda in faccia. “Boys In The Better Land” è ugualmente urgente e critica con la società, ma presenta un riffing guizzante e un testo molto ironico. Con versi come “If you're a rockstar, pornstar, superstar, doesn't matter what you are/ Get yourself a good car, get outta here” recitati con la sfrontatezza di Damon Albarn in “Parklife” (la canzone). Ombrosa e mesta, Dublino ritorna anche nello struggente finale folk punk intitolato “Dublin City Sky”.
Non conosce invece limiti geografici o discriminazioni di sorta la vastità di influenze raccolte dal gruppo in anni di ascolti appassionati, che spesso esulano dal punk. I Fontaines D.C. hanno infatti un forte senso della melodia, tratto quest’ultimo che li differenzia molto dagli Idles. Le melodie sono molto spesso disegnate dal basso del talentuoso e poliedrico Conor Deegan III, mentre le parti più rumorose sono lasciate alle chitarre di Conor Curley e Carlos O’Connell.
Tra i gruppi punk storici, il riferimento preferito dei Fontaines D.C. sono senz’altro i Clash (probabilmente proprio per la grande inclinazione melodica), che vengono omaggiati con un giro di basso a-là Paul Simonon in “Sha Sha Sha”.
Numerosi anche i momenti new wave e post-punk. “Television Screen” mischia la scena wave newyorkese a una melodia smaccatamente Irish, mentre le trame di basso che aprono la cinerea “The Lotts” rimandano con convinzione alle tenebre tessute da Simon Gallup ai tempi di “Faith”.
Tra cazzotti sferrati al basso ventre e lacrime gelate dalla brezza atlantica, le undici filastrocche di “Dogrel” mescolano esperienze musicali e arrivano dritte al punto con una precisione inusuale per una band al proprio debutto.
Probabilmente non innescheranno alcuna rivoluzione. Perché se nel 2019 ancora c’è una musica con questo potere, di certo non è il punk. Ma questo i Fontaines D.C. lo sanno troppo bene, così come noi, che chiudiamo un occhio e insieme alle canzoni ci godiamo il loro inguaribile romanticismo.
16/04/2019