L'industria dell'entertainment produce (in) serie, a ritmi che appaiono esponenzialmente crescenti, e ha dunque il potere di “normalizzare” qualunque intuizione, rendere ordinario lo straordinario. Ritmi che, come in tutto il mondo del lavoro, esigono la massima qualità nel minor tempo, finendo con l'accontentarsi del compromesso.
È successo lo stesso con il duo Trent Reznor & Atticus Ross, ormai tra le firme più importanti della musica per il cinema: da pionieri di un nuovo genere di score (“The Social Network”) a semplici “operai” al servizio della committenza, per il grande come per il piccolo schermo, fino al piccolissimo dei servizi in streaming.
Salvo imprevisti, il colosso Netflix è destinato a divenire un passaggio obbligato per tutto il settore: non soltanto a causa dello strapotere economico ma anche per la qualità crescente dei suoi contenuti, che già per molti clienti hanno di fatto sostituito l'obsolescente palinsesto televisivo. Coi nuovi media entra in gioco anche la viralità, e l'ultima grande produzione ha certamente generato gli effetti sperati: “Bird Box” (nel cast anche Sandra Bullock e John Malkovich) gioca idealmente sullo stesso terreno del serial distopico “Black Mirror”, fondato su un analogo mix ansiogeno di atmosfere horror ed elementi low fantasy.
Si è già parlato – qui e dall'alba di tutta la critica musicale – di come la stessa formula non possa riprodursi all'infinito senza perdere in efficacia: la discreta resistenza di Reznor e Ross in termini qualitativi ha ancora dalla sua la relativa recenza dell’esordio in studio, a partire dal quale hanno avuto sempre più occasioni per aggiungere e riconfigurare gli elementi del loro linguaggio strumentale.
A quasi un decennio di distanza, tuttavia, i temi vanno confondendosi tra loro, e specialmente le cullanti melodie al pianoforte di Atticus Ross ricadono negli stessi pattern tonali e alternanze di registri. Dalla lenta meditazione di “Outside”, ampio prologo della soundtrack, il duo va arricchendo l’apocalittico scenario del film con la stessa algida risolutezza delle prove per Fincher e del più recente “Patriots Day”.
Tra le aspre accumulazioni post-industrial di Reznor, in “Bird Box” trovano spazio anche raggelanti orchestrazioni d'archi, onda lunga delle grida forgiate mezzo secolo fa da Penderecki – tornato in auge anche grazie alla terza stagione di “Twin Peaks” –, con esiti talvolta nervosi e interstiziali (la nenia ricorrente di “Careful What You Wish For” e “And It Keeps On Coming”), talaltra poderosi e soverchianti (da pelle d’oca il climax del pre-finale “Close Encounters”). Nel lungo intermezzo “What Isn’t Anymore” ritornano anche le distintive percussioni smorzate che comparvero in “The Girl With The Dragon Tattoo”, affiancate dall’ossessiva pulsazione di un synth ruvido e incalzante.
Pur seguendo gli stessi prevedibili schemi soft/loud del rock strumentale proliferato negli anni Zero, la colonna sonora di Reznor e Ross – forte di un’alchimia ampiamente rodata fra talenti indiscutibili – risulta persino più convincente dell’intero prodotto confezionato da Netflix, a dire il vero poco avvincente e a sua volta afflitto da cliché narrativi e da una piattezza nei dialoghi assai difficili da ignorare. Certo è che, fra i tempi già stretti della post-produzione cinematografica, le crescenti richieste e l’attività dei redivivi Nine Inch Nails, il duo difficilmente troverà il tempo e le forze per elaborare qualcosa di innovativo al pari dei premiati esordi.
12/01/2019