In principio fu "Hearts" (2011), un disco fortemente debitore dei Cocteau Twins e dello shoegaze più onirico, ispirato ma lungi dal poter essere considerato originale. Tre anni dopo fu la volta di "Chiaroscuro", nel quale il duo ridusse l'apporto delle chitarre e si concentrò su battiti ovattati e sintetizzatori al neon.
Ancora una volta l'originalità non era una prerogativa di Maria e Frederik, che concentravano gli sforzi della loro indietronica sulla proiezione di umori e insicurezze. Latitando questa volta melodie efficaci, il risultato fu però poco più che una copia annacquata dei Chromatics.
"Warnings" rimane in questa zona sonora notturna e stordita, con risultati però decisamente più soddisfacenti. Le melodie sono questa volta chiare e rapiscono istantaneamente. Tutto il disco è inondato di un pulviscolo fatato che annebbia e stordisce. Uno di quei miracoli produttivi possibili quasi solo in casa Bella Union, un tempo dominio incontrastato di 4AD.
E così succede che i nove lunghi minuti di "Turn" aprano il disco con tutta la calma necessaria, fornendo all'ascoltatore il tempo giusto di ambientarsi nella dimensione notturna e trasognata. Ammaliandolo lentamente, risucchiandolo a poco a poco in spirali oniriche degne di Julee Cruise o Victoria Legrand.
Il piacevole torpore si protrae in canzoni più brevi come "Silence" e "I'll Be The Death Of You", mentre "Neon Lights" mette in campo una danza di lucine colorate e beat meno abbozzati. Tra i brani più solenni e teatrali spicca "The Prophet", che nel mare di synth ficca una chitarra strisciante e distorta con un filo di cattiveria che non guasta.
La lunga "Death Engine" è un'altra immersione a capofitto in un dolce mare di battiti ovattati e nebbioline incantate. Anche qui l'effetto "Twin Peaks" è garantito.
Chiude un lamento cibernetico al vocoder intitolato "Depression Tourist", con il dispositivo elettronico di distorsione vocale abusato come se la Lindén fosse Imogen Heap. È il congedo di una fuggevole sirena finalmente al pieno delle sue capacità.
Non cambiando quasi nulla negli scenari e nell'impianto musicale, che difatti si sono limitati a rallentare e aumentare di profondità, gli I Break Horses sono riusciti a realizzare un disco assolutamente migliore di quello precedente. Il merito è delle canzoni, che si evolvono plasticamente, senza paura di dilungarsi o spezzarsi sul più bello. Una libertà tipica di chi apre il cuore con sincerità e affida ai sentimenti il timone dell'espressione, curandosi della forma quanto basta. Il che, in assenza di grande originalità, equivale a liberarsi di un peso non da poco.
(21/05/2020)