Cosa è rimasto del sognatore della West Coast?
di Lorenzo Donvito
Potremmo scrivere tre recensioni per “Downhill From Everywhere”: la prima ne parlerebbe bene, forse anche eccessivamente, da fan adorante, che magari conosce a memoria la discografia di Jackson Browne, l’ordine delle canzoni sui vinili, almeno i primi cinque, e l’ha visto suonare più di una volta. La seconda lo abbatterebbe senza pietà, infierendo sulla reale bontà delle intenzioni di un ricco rocker della West Coast innamorato della Costa Brava e su dove siano scomparse le capacità compositive dei suoi lavori passati. La terza medierebbe, giustificando un album di un signore di settantadue anni che ha lasciato la sua zampata nella storia del rock (i fatidici cinque album che vanno dal primo omonimo del 1973 a “Running On Empty”, 1977), ancora impegnato su tematiche sociali, specie per l’ambiente, e con la voce di un eterno ragazzo. Lo potremmo accostare al suo amico Bruce Springsteen, rimasto meno nell’ombra negli ultimi anni, ma con una serie di dischi recenti utili solo per motivarlo/motivarci ad andare in tour e godere per quelle tre ore. Oppure potremo riattaccarci a Neil Young che suggeriva di “bruciarsi rapidamente invece di sparire nel nulla”(“Hey Hey, My My”, 1979), registrando e pubblicando ogni tipo di pseudo-canzone che gli sia balzata tra la testa e le dita.
“Still Looking For Something” apre l’album e ci fa sperare tutto il bene possibile per le seguenti nove canzoni, come dice Browne stesso, “sto ancora cercando qualcosa”, e la direzione imboccata sembrerebbe quella giusta, senza troppi guizzi di novità ma fedele al suo passato impegnato e in perfetto stile West Coast. “My Cleveland Heart” con il riff e il ritornello che profumano del primo John Mellencamp (quello tra “American Fool” del 1982 e “Rain On The Scarcrow” del 1985) narra di un rocker che immagina di sostituire il proprio cuore con uno artificiale, così da superare i dolori e le fragilità metaforiche a cui l’essenziale muscolo è sottoposto; il video che ne è tratto, leggermente inquietante, ironizza su un trapianto che finisce con i medici intenti a suonare il pezzo. Sulla stessa corsia, con un beat più accelerato, viaggia "Until Justice Is Real", “Cos'è il benessere, cos'è la salute?/ Cos'è l'illusione e cos'è vero?/ Qual è il mio scopo, cosa posso fare?”, si chiede Jackson e, certo, siamo sicuri della sua buona fede, da sempre è impegnato in lanciare messaggi di pace e solidarietà. Fino a farsi abbandonare durante gli anni 80 da parte del suo pubblico più mainstream per via delle liriche di condanna esplicita della politica Usa in America Centrale (la seconda parte della carriera di Browne, iniziata negli anni 80, vede un cambio netto nella stesura dei testi, che passano dal personale al politico, come in “Lives In The Balance”, 1986).
La ballata “Minutes To Downtown” è una canzone d'amore per una nuova compagna, evidentemente molto più giovane di lui, "gli anni che ho visto cadere tra la mia data di nascita e la tua/ svaniscono oltre la riva alterata di un fiume che cambia corso", canta Browne, ribadendo la sua posizione “close to the end” (vicino alla fine). La pianistica “A Human Touch” è invece scritta e interpretata con Leslie Mendelson (giovane cantautrice di Brooklin) per il documentario 5B, la storia degli eroi quotidiani, infermieri e assistenti che hanno intrapreso azioni straordinarie per confortare, proteggere e curare i pazienti del primo reparto di Aids nel 1983 al San Francisco General Hospital.
Il riff iniziale di “Love Is Love” sembra uscito dalle session del suo album “I’m Alive” (1997), invece arriva da “Let The Rhythm Lead: Haiti Song Summit Vol. 1” (2020), un progetto benefico dove oltre al nostro, appaiono Paul Beaubrun, Habib Koité, Jenny Lewis, Raúl Rodríguez, Jonathan Russell e Jonathan Wilson, che suonano insieme ai membri del gruppo roots haitiano “Lakou Mizik”. Un tema di speranza di fronte a ostacoli indicibili, che mantiene la sfumatura caraibica originale e una parte del testo in francese.
Continuando con le contaminazioni musicali, quando la voce di Browne canta in spagnolo è difficile non farsi sopraffare dall’accento caricaturale. Nel ritornello di “The Dreamer”, Jackson si chiede in castigliano “dove vanno i sogni nati dalla fede e la illusione?”, e raccontando la storia dell’ennesimo immigrato che, scavalcato il famigerato confine messicano, ricerca una vita migliore, tutto suona un po' fuori luogo, ingombrante e sistemato alla meglio. Molto più inquadrata la versione originale del pezzo del 2017 insieme a Los Cenzontles (gruppo che promuove la musica messicana), in cui riaffiorano gli arrangiamenti in stile “Linda Paloma” di molti anni prima (“The Pretender”, 1976). L’altra intrusione nella lingua spagnola arriva nel coro finale di “Song For Barcellona”, tributo alla città catalana, “una canzone per Barcellona, per il rispetto e il futuro, per la giustizia nella terra (?)”, recita dopo quasi sei minuti di una ripetitiva rumba affiancati da una chitarra elettrica alla ricerca di fraseggi interessanti.
La title track è invece un atto d'accusa contro i nostri comportamenti e su quanto negligentemente stiamo inquinando tutti i nostri oceani, un rock in cui domina un testo call-and-response in stile Dylan. “A Little Soon To Say” descrive un momento di auto-introspezione sulla nostra vita e la speranza che il mondo sarà, in futuro, un posto migliore: “Siamo qui solo per un momento/ e nessuno di noi può vedere/ oltre l'orizzonte/ che tipo di mondo sarà questo mondo” - la ballata viaggia su un riff chitarristico arpeggiato sul quale le liriche si appoggiano delicatamente.
L’immagine di copertina, in cui appaiono alcune enormi prue di navi abbandonate su una riva, arriva dalla serie "Shipbreaking" del fotografo canadese Edward Burtynsky e vale la pena dare un’occhiata alle sue opere più famose: vedute di paesaggi alterati dall'industria, residui di miniera, cave, discariche in cui la bellezza mozzafiato delle sue enormi foto è in contrasto con gli ambienti in pericolo che rappresentano. Ancora una volta, seppur grazie più a un’immagine che incornicia le sue canzoni che alle canzoni stesse, il messaggio che Browne vuole trasmetterci arriva a destinazione. Ben vengano in ogni caso, allora, quelli come lui che continuano a provarci.
Voto: 5
***
Un artista che non ha più niente da dimostrare
di Gianfranco Marmoro
Il vero dilemma di un personaggio come Jackson Browne è l’aver finito per rappresentare proprio quell’America che era sotto i riflettori di quelle sue canzoni ricche di critiche sociali, nonché di riflessioni personali e intime. Si è dunque trasformato, a sua insaputa, da ribelle a modello di quell’America che il musicista ha saputo descrivere come pochi, con una scrittura degna di stare accanto ai narratori più lucidi del sogno americano.
Il nuovo album “Downhill From Everywhere” rispetta la cadenza con la quale sono stati pubblicati gli ultimi cinque dischi: sette anni di distanza dall’ultimo “Standing In The Breach”, allo stesso modo si fregia dell’ennesimo sapiente e realistico equilibrio tra impegno politico (“The Dreamers” e la title track) e ultimi scampoli di romanticismo (“Minutes To Downtown", “Human Touch”), con dieci canzoni che conservano un profilo folk-pop raffinato e agile, e una serie di pregevoli trovate strumentali degne di un artista che conosce a menadito i segreti di scrittura e arrangiamento.
Musicalmente “Downhill From Everywhere” è uno dei set più vitali degli ultimi tempi del musicista americano. La title track ha la stessa energia del Bob Dylan era-“Blood On The Tracks”, mentre “Still Something For Something” è una di quelle perle di compostezza ed energia armonica e lirica che non ti aspetteresti più da un ultrasettantenne, e che non fatica ad entrare tra le canzoni più belle di Jackson Browne.
Il lettore, e dunque l’ascoltatore, a questo punto si chiederà quale siano le inevitabili cadute di tono che segnano il passo con le produzioni trascorse. Ben poche direi, forse qualche numero di routine (“Until Justice Is Real”), un uso della lingua spagnola che non sempre noi occidentali perdoniamo ad artisti che non siano di madrelingua, dimenticando la sentita partecipazione sociale che anima il musicista in “The Dreamer” e “Song For Barcelona”, e, in ultimo, il fatto che alcune delle canzoni erano già state pubblicate per sostenere eventi e progetti.
Piccoli nei che sono più legati al concetto che ognuno di noi ha di un musicista come Browne, troppo velocemente liquidato come parte di un sistema che non solo dimostra di conoscere meglio di molti altri suoi colleghi, ma addirittura di raccontarlo con una profondità emotiva ed artistica che solo i grandi protagonisti hanno conservato intatta.
Chiedetevi quanti siano capaci di descrivere la sconfitta di una generazione che non è riuscita a lasciare alle successive il mondo per il quale ha lottato (la delicata “A Little Soon To Say”) o quante canzoni riescano a parlare di amore e sentimento della terza età con un’intensità liricamente pregante, adagiata su un amabile e vellutato uptempo come quello dell'eccellente “Minutes To Downtown”. La risposta è semplice, ma non sempre facile da accettare, “Downhill From Everywhere” è un disco che non ha nulla da dimostrare o farsi perdonare, se non una coerenza che alletta e rincuora l’anima e la mente.
Voto: 7
15/08/2021