Una ruota che gira, la luce e l'oscurità che si cedono il passo a cadenza regolare, i riferimenti che perdono di ogni significato se non in relazione a quanto li precede e li segue: è un coacervo di contrasti, legati con eccellente logica drammatica, il nucleo tematico alla base dell'album, un insieme di influssi che dalla letteratura gotica alla lettura dei tarocchi approda alle visioni di Buffy Sainte-Marie e al libro dei morti tibetano. Confusi? Non siatelo, dacché il savoir-faire compositivo di Cabral affronta tale congerie di spunti con maestria narrativa, menestrella in un medioevo ipotetico pronta a scoprirsi e a scoprire nuovi significati, altre strade alla propria arte. Via i sintetizzatori (perlomeno nel ruolo di protagonisti), dentro ottoni, arpe e fagotti, via i filtri e le distorsioni, ben venga una produzione avvolgente, ben definita, che contorna gli splendidi slanci vocali di SPELLLING, inquieta fattucchiera per un terzo Britney Spears, un terzo Neneh Cherry e un altro ancora Azita Youssefi, che declina ogni variazione compositiva con estrema plasticità e senso della nuance, pronta a contrassegnare il benché minimo passaggio di tono.
E come ogni favola che si rispetti, di passaggi, inceppi di percorso, se ne trovano a iosa: quale migliore occasione per far risplendere la scafatissima direzione di Cabral, capace di intercettare la più vibrante poesia anche nelle occasioni più inattese. In una prima metà ben più ariosa rispetto alle forme ben più grevi e fosche del secondo lato, la magniloquenza di tratto permane una costante tangibile, declinata però con estro volta per volta diverso, un gusto che ben calza l'attitudine fiabesca generale. Da una “Little Deer” che trasporta la simbologia pittorica di Frida Kahlo in una soleggiata cornice twee-jazz (altezza Shivaree) a un'ipotesi synth-cameristica delle Bangles in “Always”, Cabral volteggia tra stimoli antitetici con un felice senso dell'armonia, escogitando vie a un folklore diverso.
Marcette barocche mascherate come notturni di Gershwin (“The Future”), scansioni debussiane che danno il via a incubi horror-synth (“Queen Of Wands”), nuove ipotesi di psichedelia folk, sfuggenti come il desiderio che si trascinano dietro (“Legacy”, come se Weyes Blood si svegliasse nel mezzo di un tormento lynchiano): la penna dell'autrice non conosce sosta, sposa ogni idea con pieno convincimento, ne armonizza le intenzioni nel pieno di un disco che non presenta sostanziali cedimenti.
Strategicamente posta a metà, come chiave di volta verso i paesaggi più alienati del secondo lato, “Boys At School” incornicia con i suoi sette minuti e mezzo il momento più imponente della collezione, lento crooneristico che all'eleganza delle linee di pianoforte abbina gorgoglianti bassi sintetici e una stralunata vena chitarristica, il perfetto supporto all'aspra interpretazione della musicista, perfettamente calatasi nell'inquieta parentesi adolescenziale dipinta dal testo.
Se di conoscenza si parla, il dolore e il rifiuto che essa inizialmente comporta non potevano essere resi in maniera più tangibile. Lode a Chrystia Cabral nell'avere percorso una strada così rischiosa senza cadere vittima dei cliché, giocando con la propria vena più barocca, scorrazzando in lungo e in largo verso gli estremi della propria ispirazione. E chi l'ha detto che le fiabe siano necessariamente destinate ai bambini?
(02/07/2021)