Non c’è nulla da fare: ci tormenterà ancora a lungo il revival post-punk che imperversa, ultimamente con più costanza del solito, in questi ultimi decenni. L’unica cosa saggia da fare è una buona cernita di quello che davvero valga la pena ascoltare, nei migliori casi di quello che potrebbe resistere al tempo. Delle volte i fiori più preziosi di questo sottobosco si trovano inoltrandosi per i sentieri meno battuti, dove un raggio di sole fattosi spazio tra il fitto fogliame può dare vita a una variazione dalle sfumature diverse e, proprio per questo, più interessante delle altre.
Di colorature che le differenzino dalla marmaglia post-punk ultimamente incancrenitasi sulle declamazioni à-la Fall, le Adwaith ne hanno numerose. Anzitutto Hollie Singer (voce e chitarra), Gwenllian Anthony (basso, mandolino e tastiere) e Heledd Owen (batteria) emanano un’aura di femminilità magica. Poi c’è una spiccata componente dream-pop, che rifulge non soltanto della luce di Elizabeth Fraser ma anche di esperienze più moderne, come quella di Gwenno. Infine, il misterico utilizzo del dialetto gallese (le ragazze vengono da Camrthen, West Wales), che attribuisce ai brani, specie quelli più lenti, un alone mistico.
Il viaggio delle tre vestali gallesi comincia nel 2015, quando le due amiche di infanzia Hollie e Gwenllian danno vita alla band come un duo e soltanto dopo la loro prima esibizione conoscono la futura batterista Helledd. Impegnate anche politicamente con il movimento indipendentista gallese, le tre ragazze iniziano a sfornare singoli e a collezionare importanti apparizioni a festival inglesi sin dal 2017. Ottenuto un contratto con la Libertino Records, le Adwaith pubblicano il loro primo disco, l’acerbo “Melyn”, nel 2018.
È della scorsa settimana, invece, l'uscita di questo “Bato Mato”, un disco nel quale il sound sfaccettato e intrigante del trio sembra aver raggiunto un’importante profondità.
Già l’opener “Cuddio”, con l’intrecciarsi di una solida e scura ritmica post-punk alle trame vocali eteree di Hollie, investe l’ascoltatore con suggestioni ed echi ancestrali, ma è nella canzone successiva, la frizzante “Sudd”, che le tre consumano il loro incantesimo: il basso scalpita elettrico, le tastiere spargono polvere di fata, le chitarre danno la giusta propulsione alle strofe, il ritornello è tutto giravolte e capriole voluttuose in un boschetto magico.
Il folk fa la sua apparizione sotto forma di una chitarra acustica pizzicata e archi nell’oscuro lento “Yn Y Swn”, in cui prende forma l’anima oscura della band, forse ancora più ammaliante di quella diurna. Il disco continua a proporre ritmiche lente e profonde anche nella successiva “Cwympo”, che culmina in un trascinante finale in ascesa verso la Luna. Toni ancora più cupi animano l’episodio più violento del lotto, una “Oren” che fa incontrare Cocteau Twins e Siouxsie.
Si balla anche nella foresta incantata delle Adwaith, il ritmo lo detta il basso schioccante e voluttuoso di “Lan Y Mor”. Chiude la collezione di canzoni “Eto”, sortita in bilico tra indie-pop e shoegaze, che suggella la grande versatilità e fantasia compositiva della giovane formazione.
Come concludere? Come tante altre formazioni post-punk odierne, le Adwaith non inventano nulla, mettono però in campo elementi meno abusati, trovando anche nella loro amata lingua regionale un ulteriore punto di forza. Come rifiutare, dunque, l’invito a visitare il loro boschetto incantato?
08/07/2022