Pochi nel 2016 si accorsero dell'omonimo disco d’esordio di Bebawinigi, al secolo Virginia Quaranta. Diamanda Galás, Carla Bozulich, Lydia Lunch e Tom Waits furono solo alcuni dei nomi che su queste pagine furono chiamati in causa per spiegare le coordinate musicali dentro cui agiva la cantante, compositrice, polistrumentista e attrice d'origine tarantina, a dire di una musica dalle nitide ascendenze gotiche e felicemente infettata dal virus del grottesco, del maldestro e finanche dell'inadeguato, perché Bebawinigi è per l'appunto il nome che Virginia volle a suo tempo dare a quella fase di passaggio tra fanciullezza e adolescenza in cui, inutile negarlo, ci siamo tutti sentiti un po' goffi e inadatti ad affrontare le prime, vere sfide della vita.
Con "Stupor", suo secondo lavoro sulla lunga distanza, Bebawinigi mostra di aver raggiunto la piena maturità, proponendoci tredici "canzoni ossessive" che spaziano, senza risparmiarsi, tra generi e stili diversi, in un continuo gioco di pieni e vuoti, di fiammate rumorose, dilatazioni cariche di mistero ancestrale e sentite concessioni all'estasi infantile. "Ayahoo!" apre le danze con chitarre taglienti e scansioni para-industriali, con la voce a gigioneggiare in lungo e in largo a suon di gramelot, un linguaggio che fonde, ma forse sarebbe meglio dire tritura, suoni, parole, onomatopee e quant'altro, per imitare probabilmente quel borbottìo sommesso che sempre accompagna i nostri pensieri.
Frenetica e satura di energia post-punk, "Mr. Fat" spinge a battere il piedino con ostinazione, laddove l'acustico candore di "Go Back", arrangiato con tenera fantasia, tra archi, loop vocali e fiati radiosi, potrebbe evocare una Juliana Hatfield stuporosa.
Innervata intorno a un bordone di violoncello, "Krisis" ci guida lungo sentieri fatti di mistero e inquietudine, con la voce che è ora litania estatica, ora accorata modulazione di incantesimi che in "Yeah!" si spingono, invece, verso spazi sconfinati, lasciando al suono e alle vocalizzazioni la possibilità di vagare liberamente, prima che una maestosa distorsione ne indirizzi il corso verso un baratro gotico.
Senza concedere nulla al nostro orizzonte d'attesa, Virginia si lancia, quindi, in una danza fatta di antiche visioni cosmiche ("Space"), scarabocchia (forse esagerando un po' col minutaggio) la filastrocca di "Giù dal cielo" ("Corriamo verso Marte con le nostre gambe storte/ e ci faremo un giro tra le stelle/ e poi sputeremo giù"), innesca il crescendo tambureggiante e le distorsioni al napalm di "Guarda in alto" (registrata dal vivo), evoca il fantasma di Lisa Germano con le trame dimesse e crepuscolari di "Camomilla" e si abbandona, dunque, al decostruzionismo dadaista di "Zichi".
Dopo tre minuti di vocalizzi disseminati tra le stelle, "The Call Of Deep" galoppa fiera tra percussioni e archetti imbizzarriti su corde ruvidissime. E se nella prima parte di "Let The Game" ascoltiamo rumori di barche alla deriva e tempeste marine fare il paio con scurissime litanie, nella seconda ecco prendere piede una fragorosa cerimonia tribale. "In The Hall Of The Mountain King" trasforma, infine, il famoso brano del compositore norvegese Edvard Grieg (1843-1907) in una stratificazione di registri vocali, corrispettivo sonoro di una stanza sonora invasa da specchi rotti.
17/11/2022