Sedetevi, fate un bel respiro, spegnete il telefonino, date da mangiare al gatto per non essere disturbati, mettete la cuffia o, se potete, sfruttate i 100 watt di potenza dell’impianto hi-fi che avete sempre fatto suonare in modalità flat e date il via all’ascolto di “Hellfire”.
Il third difficult album della band inglese Black Midi è come il monolite di “2001: Odissea nello Spazio” di Stanley Kubrick, una rivelazione, un’epifania che indica nuovi percorsi evolutivi, un disco altresì ostico e non immediato, erede più della genialità di Captain Beefheart che delle assonanze prog espresse nei primi due capitoli. Il progetto più free-form della band inglese è anche il più meditato e finemente concepito, quasi al limite della perfezione, è l’album nel quale tutti i tasselli sono al posto giusto, ma non per celebrare una normalizzazione lirica e armonica, quanto per svelare ulteriori segreti e piaceri del caos e della destrutturazione sonora.
“Hellfire” non è un disco rock, è il tutto e il nulla. Geordie Greep, Cameron Picton e Morgan Simpson sfruttano tutto il loro potenziale strumentale e creativo per un surreale e rocambolesco citazionismo, che mette in crisi qualsiasi tentativo di raffronto o accostamento. Le infinite sfaccettature - jazz, cabaret, metal, pop, avant-prog, punk, burlesque - si avvicendano come in una smisurata rock-opera.
Forti di un bagaglio melodico mai così potente, i Black Midi passano, senza colpo ferire, dai Primus a Leonard Bernstein (“27 Questions”) o sfruttano le regole della devoluzione scivolando da riff hard-rock a improbabili sfilacciature folk (“Eat Men Eat”).
Niente mezze misure, dunque. “Hellfire” eleva il tasso di cacofonia verso limiti che solo Butthole Surfers e Scott Walker hanno varcato con eguale profondità e iconoclastia. Non sorprende, dunque, che i sette minuti abbondanti di “The Race Is About To Begin“ assomiglino al figlio reietto di “Tilt” e “Locust Abortion Technician”.
Il caos non è mai stato altresì così limpido e chiaro. I Black Midi saldano dinamismo ritmico e ossessività armonica con forme stimolanti, originali e lievemente vanesie (“Sugar/Tzu”). State attenti però a non prendere troppo sul serio il terzo album della band inglese: l’inganno è sempre dietro l’angolo.
Il riff metal intonato a mo' di rap e punk di “Welcome To Hell” più che un film è un cartone animato, semplice, efficace e banale, come tutto quello che i Black Midi sembrano aborrire, o forse no?
Irrequieto, incongruente, fastidioso, “Hellfire” incolla l’ascoltatore alla sedia, lasciandolo in balia di improvvise aperture melodiche che ti aspetteresti di ascoltare in un disco di Frank Sinatra (“The Defence”) o di inedite soluzioni country-western-chamber-prog incorniciate da archi, flauto, armonica, xilofono e perfino dal canto degli uccelli (“Be Still”).
Se “Schlagenheim” aveva il merito di rappresentare il potenziale live della band e “Cavalcade” il compito di sottolinearne l’abile scrittura e versatilità, “Hellfire” ha il pregio di tagliare i ponti con le pur evidenti influenze – Frank Zappa, King Crimson, Boredoms, Van Deer Graaf Generator, Cardiacs – per una ponderata e travolgente estasi musicale, che dell’imprevedibilità si nutre fino ad apparire pretenziosa ("27 Questions"), per poi sminuirne la tensione cerebrale, accostando demoni e dei, fino a rasentare l’apoteosi della provocazione acustica nel jazz atonale di “Dangerous Liaisons”.
Mai cosi vertiginosi, incandescenti, caotici, brutali, i Black Midi consegnano a questo già vibrante 2022 l’opera più matura e originale della loro carriera. La struttura musicale è ineccepibile e inquietante, il cantato non è mai stato così aspro e tagliente, merito dei testi ai confini dell’apocalisse umanitaria e decisamente meno astratti. Una discesa negli inferi e negli abissi della follia. Un disco spregiudicato e potente, che piacerà sia ai fan dei Pere Ubu che a quelli della Mahavishnu Orchestra.
15/07/2022