Lingua germanica figlia dell’olandese, l’afrikaans è un idioma parlato soprattutto in Sudafrica e in Namibia. I Lay Llamas, ancora innamorati del terzo continente e tornati, nel frattempo, alla doppia trazione Giunta-Valenti, lo usano per battezzare l’ultima fatica, “Goud” (in italiano “oro”), impressa su vinile da Black Sweat Records. Cimentandosi per la prima volta nella lavorazione del “metallo di transizione” per eccellenza, i due scelgono una forgiatura basata non solo sulle forme delineate dalla psichedelia krauta dei 70, ma anche su profili rivolti a un futuro chimerico. Ne è un inequivocabile indizio la grafica “amebico-cosmica” – così definita nella press release – della copertina curata da Virginia Genta, pianeta della galassia a nome “Jooklo”.
Introdotta dall’ammaliante flauto di Nicola Giunta su un tappeto di percussioni tribali, “Elevate Yourself” scatena una sequela di visioni rifratte e fluide al contempo, sospinte dalle note di un organo Farfisa – con sonorità simili a quelle a marchio Orlo di cui si innamorò decenni fa Mamman Sani – e ammantate da un velo di serpeggiante inquietudine. E proprio il turbamento, tradotto in copertina nella predominanza del nero (colore praticamente assente in tutti gli altri artwork dei Lay Llamas), è il nuovo ingrediente che tinge di dark la psichedelia solitamente variopinta dei Nostri. D’altronde, gli anni appena trascorsi e, incidentalmente, quelli che abbiamo davanti non alimentano certo la fioritura di buone speranze. “Where do we go/ now that we’re dumb?”, è la domanda contenuta nell'elegia psych-folk “Acid Mother, Holy Temple”, connotata da un disperato incedere processionale che si chiude con i versi di Gioele Valenti “Can you hear the sound/ of the falling trees around/ and they scream for the madness/ and they lay without crown”.
Suoni ambientali della giungla e cupi vocalizzi abitano la library vorticosa di “Circular Time”, sostenuti da un basso enigmatico che fa da contraltare a placidi rintocchi reggaeggianti di organo. Tra fumosi arpeggi elettrici, la documentaristica “Back To Gobekli Tepe” poggia su una psichedelia mediorientale che si scioglie nella tropicale ipnagogia radioattiva di “Valley Of Vision”.
Con i suoi due minuti scarsi, la disorientante hauntology di “Extra Solar Africa Orchestra”, a base di percussioni, kalimba ricavata da una noce di cocco e vocoder, è il countdown all’ascesa agli astri di “Echoes And Dust From A Future World”, in cui le tastiere kosmische dei Bitchin Bajas incontrano la tormentata solennità sacerdotale di Nico: “My homeland is burning/ pray for us and whom’ll come/ and as I leave echoes and dust/ pray for us and whom’ll come”.
Come un intermezzo rubato alla scaletta di “Crime And Dissonance” – la compilation di culto con gli episodi musicali più sinistri di Ennio Morricone, assemblata nel 2005 dal devoto Mike Patton – il mistero stage & screen di “Fifty Black Women” ci introduce al lisergico finale affidato a “At The End Of The Night”, inebriante preghiera sciamanica a cavallo tra le suggestioni psych-folk di Six Organs Of Admittance e i magici rituali del colletivo Muni.
04/03/2022