You know I recall somebody saying: Therе ain't no cowboys left
(da "Lafayette")
Inutile girarci intorno, quando tre anni or sono lo abbiamo incontrato per la prima volta, abbiamo subito riconosciuto in Orville Peck una delle figure più iconiche che la pop music ci abbia presentato negli ultimi anni. Un ammaliante e oscuro country crooner con voce profonda e sensuale, arricchito qua e là da notturne vibrazioni noir, ma soprattutto un’estetica queer che buca lo schermo, gli occhi di ghiaccio che sfondano una specie di maschera in pelle da cowboy sadomaso. Un impatto visivo oltre che musicale, costruito in combutta con la stilista Catherine Hahn e l’amico Christian Cowan, che subito dopo l’attenzione delle riviste di musica ha garantito a Peck quella di Vogue e di tante altre testate di moda.
Mettici anche una collaborazione con Shania Twain, nonché l’inclusione nella soundtrack della serie-evento dell’anno “Euphoria”, ed è facile comprendere perché il salto da Sub Pop (“Pony” del 2019) a Columbia (che sponsorizza questo nuovo disco) sia stato così repentino.
Una copertina ancora più kitsch che vede Orville indossare una versione dorata della sua tradizionale mise da cowboy feticista mentre un enorme stallone nero gli scalcia intorno, una massiccia durata di 53 minuti (quasi due volte quelli di “Pony”), la scaletta suddivisa con ambizioni letterarie in capitoli e la scelta di abbracciare completamente il country, rinunciando alle sfumature indie (in particolare shoegaze e dream-pop lynchiano) dell’esordio, ci mostrano il canadese raddoppiare le ambizioni rispetto al suo debutto. Orville Peck vuole diventare un classico, subito. E per farlo non può che ingaggiare la sfida di cimentarsi in uno dei sound più canonici e consolidati, e invero più conservatori, della tradizione americana. Farlo con il giusto mix di rispetto e irriverenza gli ha garantito la vittoria.
“Bronco” lo vede quindi circondato dalla band indie-rock canadese The Frigs a fare la parte di scafati turnisti di Nashville e raccontarci ammalianti storie di frontiera. “Daytona Sand” è un’opener perfetta: con il suo ritmo lento e la chitarra pizzicata sembra alzare la polvere di un far west desertico e colmo di storie destinate a prender vita attraverso il suo baritono. La prima a essere raccontata, con ululato alla luna alla maniera di Chris Isaak, è quella di un loner che cerca di lasciarsi alle spalle una relazione tossica. Le fa da seguito “Outta Time”, una canzone il cui titolo sembra conferirle il rango che le spetta, ossia quello di brano fuori dal tempo, di classico istantaneo, con un ritornello nuovo di zecca ma che potremmo tranquillamente immaginare suonato decenni e decenni fa nelle radio del Tennessee. Non è da meno “C’mon Baby Cry”, con il suo falsetto da brividi, ulteriore prova di una varietà di toni vocali e di un controllo mostruosi, nonché di un altro refrain memorabile.
Se “Bronco” e la scatenata “Any Turn” sono due incroci con il southern-rock, “Hexie Mountains”, “Let Me Drown” e “All I Can Say” vedono il cowboy cimentarsi rispettivamente con la prova del banjo, con quella del country più orchestrale e cinematografico e con un duetto al femminile.
Il titolo dell’opera seconda di Orville Peck quest’anno non può che ricordarci il meraviglioso anti-western di Jane Campion “The Power Of The Dog”. Nella pellicola della registra australiana avvertiamo aleggiare la presenza di Bronco Henry, un vecchio mandriano per cui il meschino Phil (un Benedict Cumberbatch letteralmente depredato dell’Oscar da Will Smith) prova dei sentimenti che cerca di castrare, reprimere, ancorato com’è ai valori di un selvaggio west ormai in stato di decomposizione. Al contrario, il “Bronco” di Orville Peck si muove a suo agio nei polverosi e ortodossi arrangiamenti country, ma con padronanza e fare dissacrante finisce con rinfrescarli e donar loro nuova, inattesa linfa.
13/04/2022