Why don't you please yourself?
If it feels so good then don't you, baby
Don't you stop
E infatti
Jessie Ware non si è fermata. Anzi, conscia di avere finalmente il beneplacito del suo variopinto pubblico di riferimento, di non dover più dimostrare di essere soltanto la più sofisticata interprete d'Albione, tira dritto sul percorso dance recuperato brillantemente con lo splendido "
What's Your Pleasure?" e col suo quinto album cementa il proprio status di diva delle piste da ballo. Non potrebbe farlo in un momento migliore: lasciatici la pandemia alle spalle, non c'è occasione più propizia di questa per tornare finalmente a ballare, per rimuovere ogni freno inibitorio e riscoprire un piacere a lungo dato per perso. "That! Feels Good!", con i suoi esclamativi d'ordinanza, è la trionfante ode dedicata a un universo sonoro che sin dagli
anni Settanta ha saputo farsi carico proprio di quest'esigenza, che ha intrecciato il desiderio di comunione e una procace sfrontatezza erotica ai più trascinanti ritmi in circolazione. La
disco-music, con tutti i suoi epigoni, rimane il faro su cui contare, la luce che indica la strada e sa ancora rivolgersi alla contemporaneità senza imbarazzi inter-generazionali: la luce che Ware sfrutta per un
tour de force tutto da sudare.
Trattasi del fratello minore del disco di tre anni fa? Basta un solo ascolto per rendersi conto di come una simile affermazione sia una grossa approssimazione. Se il terreno sondato presenta palesi analogie, nondimeno la materia del nuovo album guarda decisamente meno ai synth
moroderiani e agli schemi boogie per spostarsi di qualche anno indietro, in un
continuum sonoro che dal baricentro disco spazia liberamente nel funk e soul, senza disdegnare discese torride incursioni afro.
Chic e Sister Sledge, African Suite e Roy Ayers, i Rufus e Cheryl Lynn: Ware si è studiata alla perfezione la storia del genere, nei suoi massimi apici commerciali e nel suo ricchissimo sottobosco, ne distilla l'essenza più profonda, tenendo conto del rapporto privilegiato con le comunità
queer e afroamericane. Soprattutto, sa applicare una simile conoscenza in un album che non si rivela mai pura filologia.
Non è soltanto questione di produzione, con tutto che due colossi come
Stuart Price e James Ford dei
Simian Mobile Disco intervengono con mano accorta: nello sfavillio di ottoni (
courtesy of Kokoroko) e tastiere, di fraseggi di archi e brulicanti venature elettriche, è la voce di Ware, nella sua sfacciataggine londinese, a diventare il centro di ogni cosa, il cardine privilegiato su cui ogni strumento si impernia. Lo è al punto che il ricchissimo comparto strumentale rischia quasi di rimanere schiacciato, di fronte a un simile strapotere vocale. Quasi, ché di certo il senso di trionfo e riscatto sottesi al singolo di lancio "Free Yourself" non avrebbero la stessa forza se non ci fosse quel pianoforte, quella propulsione
anthemica che si trasforma in autentica euforia.
E così "Begin Again" non avrebbe la stessa carica drammatica se sotto la melodia
trés "We Are Family" non si agitassero vibranti passi di samba e accenni
highlife, una comunione dance globale che spera in un miracolo per sovvertire la mesta tabella di marcia. Ma è solo una breve parentesi, un passaggio che accentua il senso di evasione, di partecipazione a un rituale profondamente seducente. Già la
title track, saggiamente posta in apertura, si muove tra l'invitante e l'irresistibile, a richiamare un impero dei sensi a cui viene richiesto di cedere; l'insistita cadenza funky non fa che accelerare la resa, impattando su un impianto corale sapientemente tenuto a bada.
Altrove la materia si fa decisamente più curiosa e allo stesso tempo più difforme: ecco l'attacco
French-touch di "Freak Me Now", assalto house che in un'altra dimensione sarebbe il più luccicante tormentone estivo. "Shake The Bottle" sciorina con la sua tagliente
allure metropolitana (dei
Talking Heads catapultati di peso nella Londra di fine anni Settanta?) un elenco di uomini improbabili prima di approdare a un ritornello tutto allusioni e doppi sensi. Se "Pearls" raddoppia la dose, ingigantendo la carica sensuale tra spolverini di seta e un'ironia da vera
drag queen, "Beautiful People" è la più pura riconoscenza, la tristezza che si tramuta in esultanza, trombe e
cowbell a infiltrarsi in un momento alla
Sylvester, un party capace di sciogliere il più profondo dei turbamenti.
È con un senso di straniamento che si accoglie una "Lightning" che nel suo andamento electro-r&b avrebbe trovato una più adatta collocazione in "
Glasshouse", peraltro surclassando agilmente tre quarti di scaletta. È però in fondo un peccato veniale, uno strappo alla regola che poco toglie a una collezione strutturata di tutto punto, dotata dei giusti colori e delle opportune alternanze. Dal palcoscenico, Jessie Ware ci saluta e ci chiama, vera diva della discoteca: rifiutare l'invito sarebbe un sacrilegio.
03/05/2023