Raramente è stata concepita un’operazione più sfacciatamente commerciale e mal riuscita al pari di questa, nonostante il plauso arrivato in anteprima da Uncut, Mojo, Record Collector e Prog Mazine (tra le altre riviste inglesi). La Enigma Records, detentrice dei diritti di tre album di Peter Hammill (“In A Foreign Town”, “Out Of Water” e “Roometamperaturelive”) non riesce a individuare gli antichi contratti e l’autore decide di rivedere e re-incidere i dischi in studio citati come aveva fatto in passato con l’Opera “The Fall Of The House Of Usher”. Di “Usher” si è parlato nella monografia qui sul sito. L’esito questa volta?
Sul primo dei due dischi i brani rimangono in buona misura invariati, le griglie Midi antiche sono le stesse, si interviene a malapena sulla spazializzazione dei suoni (panpot), si innesta qualche suono più attuale in pezzi come “Vote For Brand X”, si amplificano i delay sulle sezioni di archi sintetici sulla sempre magnifica “Time To Burn”, i cantati rimangono intonsi, in una delle ultime prestazioni dell’autore in forma smagliante (basti ascoltare “Sun City Nightlife”, brano sull’apartheid, impressionante davvero nelle sue progressioni). La batteria elettronica è quella nuda e cruda del disco di origine (orrenda). L’electropop danzereccio di “Auto” risulta mixato molto meglio.
Su “The Play’s the Thing” appare un pianoforte acustico, cosa che dà al brano respiro e ne restituisce la drammaticità shakespieriana (il Bardo è citato nelle liriche: “What is it Shakespeare’d say, If he came back today? Surely he’d recognize these mortal coils”), ma la strumentazione sintetica restante rimane poco gradevole.
Di una bruttezza rara come sempre “This Book”, “Under Cover Names” e “Smile”, brano glam che riporta a certo Lou Reed di metà anni 70, inutile e scadente anche la versione strumentale di “Time To Burn” destinata a karaoke per radical chic. “Hemlock”, che come sempre dal vivo aveva trovato una sua dimensione urticante, in studio sorprende a malapena per la sua sezione introduttiva, nella nuova edizione, invero assai stucchevole.
Il risultato di questa prima prova è dunque meno plastificato dell’originale e appena poco più valido, davvero un cimelio per completisti, perché, siamo onesti, ciò che conta di un album alla fine è il suo contenuto e quello del disco in questione è mediamente trascurabile.
Discorso assai diverso per la rilettura di “Out Of Water” dove la quasi totalità del disco è cantata da capo (e che la voce di Peter vive ormai un periodo di grossa impasse, lo si era capito quest’estate, nel concerto a Piacenza) e ri-suonata completamente, andando a sostituire pure i contributi strumentali di Nic Potter al basso elettrico, John Ellis all’elettrica, David Jackson ai fiati.
Il disco in questione è stato nella carriera dell’autore una piccola gemma della maturità dove la produzione non era riuscita a intaccare minimamente il valore di ogni singolo pezzo. Se la qualità dei brani di partenza è innegabile, la produzione messa in atto, la rilettura e l’incisione non sono neanche minimamente pari, andando a gettare ombra sulla propria luce e non il contrario, cosa a cui Hammill ci ha (quasi) sempre abituato.
Ad ogni modo, parte con gran lavoro noise di chitarre “Evidently Goldfish”, brano originariamente ben più interessante, qui devastato dal suono della batteria elettronica, completamente mozzato sulle frequenze acute (per non parlare dell’elettrica). Le tastiere sono suonate assai peggio, andando a creare ritardi o accelerazioni non richieste dal pezzo, spiccatamente ritmico. La voce appare evidentemente più “sfumata” nelle armoniche.
Appurato che Hammill ha grosse difficoltà con l’editing, si procede con la ballata “Not The Man”, non proprio un capolavoro, ma originariamente testimonianza di un controcanto tra i più incredibili della storia del rock. L’esito qui è davvero di un imbarazzante difficile da descrivere.
L’unica traccia di questa nuova versione che porta qualche entusiasmo è “No Moon In The Water”, con qualche suono sintetico di maggiore contemporaneità, un canto praticamente “live”, con difficoltà di intonazione che si fanno carattere e soprattutto con un’apertura intorno al secondo minuto che, pur nella pesantezza dell’esecuzione alle tastiere, conquista. Meglio ancora la coda con il bellissimo coro di voci celestiali, in cui l’autore mostra tutta la sua gamma di nuance, anche in età matura.
“Our Oyster” risulta meno rigida della versione d’origine, presenta dissonanze alquanto bizzarre negli appoggi pianistici, ma viene resa in un modo interessante, a mio avviso più avvincente di quella del lontano 1990.
“Something About Ysabel’s Dance”, presenta un curioso intermezzo jazzy elettro-acustico e spagnoleggiante (già ascoltato, pur in forma ben diversa dal vivo) con l’impiego di un piano acustico impegnato in cluster davvero sfiziosi e alieni campioni elettronici. Per il resto, il violino originale di Stuart Gordon, autentico capolavoro d’esecuzione viene immerso in troppo delay (sembra suonato in una stanza di fianco) e la chitarra acustica dal suono meno crudo e “strappato” dell’originale rende il pezzo lezioso. Peccato, poteva essere una buona occasione.
“Green Fingers” è appena meno rigida nelle sue varie modulazioni armoniche e nei controtempi, ma suona fintissima; l’inquietudine morbosa di “On The Surface” (in origine una gemma gotico-minimalista) si perde completamente; mentre “A Way Out” viene resa in una versione dove il dramma è sostituito con un andamento più ritmico.
Dopo la stupenda prova vocale su “In Disequilibrium” degli Isildurs Bane, capolavoro della maturità di “compositore per tastiere” per Mats Johansson e l’intimo tributo all’Italia di “In Translation” e soprattutto dopo i fasti e i crolli dell’ultimo tour con i Van Der Graaf Generator, che lo vedono vivo per miracolo, Hammill ci consegna un doppio album sinceramente inutile, se non per un risicato numero di pezzi, in qualche modo più appassionanti, spesso per questioni di mixing. Inutile tanto più tenendo conto che l’ultima prova solista in studio con brani inediti risale al 2017, con uno dei dischi più brillanti di una carriera inumana: “From The Trees”. Nel mentre, il compositore britannico ha messo all’asta le sue chitarre. Settantacinque anni appena compiuti, dei quali almeno 58 trascorsi nel mondo dell’industria musicale “che conta”. Da un uomo del genere ci si aspetta almeno un livello di coscienza critica e di consapevolezza dei propri limiti di ben altro livello. Brutto periodo Mr Hammill, non c’è dubbio, brutto periodo davvero.
25/11/2023