Ottoni e good vibes. Per semplice che possa sembrare, la formula dei britannici Ezra Collective si è rivelata sorprendentemente efficace, e in cinque anni ha portato l'ensemble jazz/afrobeat a milioni di ascoltatori (1,8 e rotti al mese, stando all'attuale conta di Spotify) nonché alla storica vittoria del Mercury Prize nel 2023, prima volta assoluta per artisti jazz.
Giunta ora al terzo album, la formazione londinese rilancia con nuovi spunti e collaborazioni. Di tutti i nomi dell'articolato panorama
neo-afrobeat del Regno Unito, gli Ezra Collective sono quelli dal
sound più accogliente: rispetto al taglio combattivo dei
Sons Of Kemet, allo slancio futuribile dei
The Comet Is Coming o al frullatore art-punk dei
Melt Yourself Down, le scelte della compagine londinese possono risultare curiosamente confortevoli. Difficile che questo classicismo sia del tutto slegato dal successo della formazione; va osservato, tuttavia, come questa indole faccia il paio con un'apertura all'esplorazione e alla contaminazione che garantisce la costante varietà di stimoli e brani.
Il passo spigliato, l'
interplay ricco, la tavolozza timbrica acustica e avvolgente sono gli ingredienti che danno a tutti i brani un carattere vivace e unitario, e al centro delle tessiture svettano in particolare gli strumenti dei cinque componenti della band: la tromba di Ife Ugonjobi, il sax tenore di James Mollison (in più di una traccia affiancato anche da
Nubya Garcia), batteria e basso dei fratelli Femi e TJ Koleoso, le tastiere di
Joe Armon-Jones.
Il mutare di queste ultime sposa la diversità di influssi della
tracklist: per la frizzante strumentale "Palm Wine" e diversi degli episodi più
jazzy è perfetto il timbro cristallino del
Rhodes, mentre altrove ("Have Patience", il singolo "God Gave My Feet For Dancing", cantato da Yazmin Lacey) sono i toni del pianoforte a proiettare eleganza sulla scena. In "Ajala" e "The Traveller" i colori si fanno più elettronici, con un simil-
Clavinet effettato e
funkeggiante nella prima, e nella seconda con cangianti venature sintetiche.
Ma è dove entra in gioco la voce che si registrano le maggiori deviazioni stilistiche. "No One's Watching Me", con Olivia Dean, segue una sfumatura intima e suadente cui fa da contrappunto un lavoro ritmico decisamente fantasioso e frastagliato. "Streets Is Calling" lascia invece spazio al rap di M.anifest e Moonchild per un pezzo dal taglio sempre vitale, ma più notturno e urbano. Il già citato "God Gave My Feet For Dancing", pezzo più ascoltato del disco con 7 milioni e mezzo di streaming Spotify, combina infine calore e levigatezza per un midtempo armonioso e ritmicamente stratificato.
Notevoli anche "Expensive", reinterpretazione di "Expensive Shit" di
Fela Kuti, che come da programma spinge al massimo sui botta-e-risposta afrobeat, e la latineggiante "Shaking Body", un improvviso balzo transoceanico fra ritmi caraibici e svolazzi trombettistici. Due ulteriori prove dell'ampiezza di spettro di cui la band è capace, pur senza avventurarsi in territori ostentatamente sperimentali o rinnegare l'accattivante
liveness del proprio suono.
Ancora una volta, insomma, "Dance, No One's Watching" regala un’esperienza musicale energica, accessibile e ricca di personalità.
15/11/2024