La matematica post-rock non ammette sgarri, e il titolo parla chiaro: una dozzina di brani tonda tonda - e forse non l'ultima che ci verrà elargita, stando al cliffhanger di quel vago plurale. L'annuncio che rimbalza su diverse testate parla di "un nuovo album dei Gastr del Sol dopo 26 anni", ma va interpretato con prudenza. Queste dodici tracce sono davvero inedite e il tempo trascorso è effettivamente quello: peccato non si tratti di nuove incisioni, bensì di un ricco bouquet (la bellezza di 103 minuti, distribuiti su doppio cd o triplo Lp) dall'archivio Drag City, sia in studio sia dal vivo.
Improbabile, d'altro canto, che i due iperattivi protagonisti potessero deconcentrarsi dalle rispettive carriere. Jim O'Rourke, poi, è da tempo inafferrabile: dopo il trasloco nipponico, pare coinvolto solo dalle sue sonnolente abluzioni ambientali, con giusto la meraviglia baroque-folk di "Simple Songs" a ridestare l'attenzione. Quanto a David Grubbs, è rimasto confinato nell'ombra (d'altronde, è forse mai stato sotto i riflettori?) ma non ha certo poltrito, tra le innumerevoli collaborazioni e i sentieri paralleli da critico e professore universitario. Ben venga allora questo tuffo nel passato, che certo non può nuocere a loro e a noi.
Il periodo coperto abbraccia gli anni tra il '93 e il '98, ovvero l'intera parabola della ditta. Non aggiungerà granché a quanto già sapevamo, ma è comunque una gradita integrazione. Rimarcati i tratti delle due impegnative personalità: su una sponda, il fingerpicking Fahey-iano di O'Rourke (responsabile anche dell'accurato remastering), sospeso in un indefinito spazio-tempo; dall'altro, il pianismo sottrattivo di Grubbs, in cui i silenzi contano quanto le note. E poi laconiche field recording ("Dead Cats In A Foghorn"), minimalismi ("The Bells Of St. Mary's"), massimalismi ("Blues Subtitled No Sense Of Wonder"), collage faustiani ("20 Songs Less"), fanfare atonali ("The Harp Factory On Lake Street"), almeno un paio di gioielli da incorniciare tra il meglio del loro repertorio ("The Seasons Reverse" e "Onion Orange", rispettivamente in apertura e in chiusura).
Tra titoli enigmatici e durate smisurate, a essere ribaditi sono non solo i pregi, ma anche i difetti di un astrattismo che a volte affascina, a volte sembra non andare da nessuna parte. In fondo, li abbiamo amati anche per questo. E in attesa della prossima sporca dozzina, lasciamoci ancora una volta ipnotizzare dal progetto che, più di ogni altro, ha rinsaldato l'asse Louisville-Chicago.
24/05/2024