Per l’artista canadese Vicky Mettler, in arte Kee Avil, il secondo album è l’ennesima sfida. Un passo ancora più arduo nelle voragini insaziabili della sperimentazione, un ulteriore sussurro che assomiglia a uno stridio, una brutale lacerazione di quel che resta di un assetto strumentale rock, una reinvenzione estrema del linguaggio creativo messo in atto con l’esordio “Crease”.
E’ una nuova forma di bellezza, quella che emerge dal secondo album di Kee Avil, realizzato per la sempre lungimirante Constellation. Un progetto anticipato da uno dei singoli più disturbanti e affascinanti dell’anno in corso, un graffio rock con basso, chitarre e sintetizzatori in cerca del segreto del pifferaio di Hamelin. Un brano che sfida i confini mai valicati da Sonic Youth e PJ Harvey e che ritorna vittorioso, non senza mietere vittime innocenti.
Quelle di “Spine” sono dieci canzoni che definire minimali è d’obbligo: non più di quattro elementi per ognuna delle tracce e un rigore autarchico che priva di sangue, carne e ossa le già scheletriche composizioni.
Scritto durante una pausa del tour di “Crease”, il nuovo album non risente di quella normalizzazione che di solito fa seguito a un rapporto più intenso con il pubblico. Già dalle prime note di “Felt” deformazioni armoniche, suoni spigolosi, chitarre dal suono tagliente, ritmi biascicanti e gracchi noise gettano scompiglio nelle inquiete e aspre modulazioni sonore. Nulla di strano, se confrontato con l’ancora più estrema “The Iris Dry”, un susseguirsi di sussurri e acerbi spunti vocali intrappolati in sonorità metalliche di dubbia origine e diabolici scalpitii ritmici.
"Spine" è un disco non facile da assimilare, disturbante ma mai eccessivo, oscuro e inquieto, eppure stimolante. La sempre palpabile trepidazione emotiva e le intelligenti intuizioni armoniche trovano terreno fertile nelle dieci tracce, tra moleste incursioni glitch (“Gelatin”), voci strozzate dal terrore (“Under”) o alterazioni di suoni e rumori più penetranti del silenzio (“Fading”).
Germi goth affiorano e lusingano le complesse e frastagliate strutture armoniche con incursioni decise nel dark-folk (“Remember Me”) e ancor più organiche e devastanti destrutturazioni in chiave quasi horror di un tessuto sonoro malato ed esangue (“Croak”).
Non sorprende che Kee Avil citi tra le ispirazioni Jenny Hval e This Heat. Dalla prima ha attinto quella natura interdisciplinare che coniuga alla perfezione nella poeticamente struggente “At His Hands”; della formazione art-rock inglese rievoca le scheletriche influenze industrial nella ossessiva e disturbante “Do This Again”.
“Spine”, più che una conferma del talento alieno e originale di Kee Avil, è un altro prezioso corpo autonomo. Un disco che della discordanza e della dissonanza si nutre, con un ardore e una spiritualità inediti e avvincenti.
15/05/2024