Baby, you were born in disguise
You were wearing a mask when you first opened your eyes
You have to stop trying to be nice
Your crying is something you can't intеllectualize
Angry, weepy, chaos rock trio, così si presentano i mary in the junkyard. In meno di un paio di anni di attività, il terzetto londinese composto da Clari Freeman-Taylor (voce, chitarra e basso), Saya Barbaglia (basso e viola) e David Addison (batteria) è riuscito a costruirsi una solida reputazione in ambito live, vantando un importante numero di visite in qualità di supporter al Windmill di Brixton (fra i trenta e i quaranta concerti nel solo 2023, stando alle dichiarazioni del gruppo), venue chiave che ha visto l’ascesa di numerosi progetti di grido, tra cui Black Midi, Squid, Black Country, New Road, The Last Dinner Party ed English Teacher.
Salito agli onori delle cronache nell’ottobre 2023 con la pubblicazione del primissimo singolo “Tuesday”, all’interno del quale l’indie-rock sfaccettato degli Ugly si mescola a inclinazioni pop rumorose di rimando ai Wolf Alice, il gruppo ha fornito un ulteriore assaggio questa primavera con l’Ep “this old house”: a far da padroni sono testi profondi e atmosfere haunted, che includono influenze post-rock che strizzano l’occhio ai già citati BCNR e ai caroline, vezzi chamber-pop à-la Radiohead di “A Moon Shaped Pool” e divagazioni art-rock con accento folk che guardano a Wilco e Big Thief.
La breve opera è incentrata su come ci si senta a essere a casa e lontano da essa, e sui ricordi che permeano le pareti di un’abitazione, sulla quale si incardina il dualismo di rifugio sicuro e luogo spaventoso e infestato, dove i piccoli timori si possono deformare e ingigantire, tramutandosi in mostri. La band promuove inoltre l’etica Diy, realizzando interamente i videoclip dei brani, così come alcuni degli abiti indossati in scena, mentre al timone della produzione spicca il nome dell’attuale capo di XL Recordings, Richard Russell (Damon Albarn, Gil Scott-Heron, Ibeyi).
L’apertura del disco è all’insegna dei nuovi inizi con gli echi di “ghost”, dove il fantasma in questione funge da metafora per indicare come si sentisse la frontwoman all’interno dei suoi precedenti legami di amicizia, ovvero invisibile e non apprezzata; trovato il coraggio di lasciar andare chi non la comprendeva e considerava, riesce a essere finalmente felice e a scoprire anime affini con cui potersi esprimere liberamente.
Nell’intensa semi-ballad “marble arch” Freeman-Taylor si rivolge alla sorella, narrando una storia di isolamento derivata dalla necessità di lasciare casa e non volervi mai più fare ritorno. Il sentirsi in trappola fin dalla nascita in situazioni che non ci appartengono e costringono a indossare delle maschere è il fulcro dei ritmi e dei sinistri singulti di viola di “goop”, mentre l’ultimo brillante tassello, fornito dagli arpeggi vertiginosi e claustrofobici di “teeth”, guarda al continuo soprassedere alle distruttive dinamiche di una relazione tossica.
Tra oscurità e salvifici barlumi di luce sprigionati da sofferti e costruttivi lieto fine, “this old house” è un ottimo biglietto da visita per i mary in the junkyard, nonché preludio di interessanti sviluppi futuri: non desiderando limitazioni di sorta, non possiamo immaginare come suonerà realmente il debutto del trio (probabilmente ormai non troppo lontano), e questo alimenta una certa curiosità.
06/12/2024