Essere i Radiohead, nel 2016, non è un mestiere semplice. Significa avere sul collo il peso di mille aspettative, frutto di una discografia che, nelle sue tappe fondamentali, si pone al vertice del panorama alternative degli ultimi vent'anni, e che però in tempi recenti ha palesato la sua prima vera macchia. "The King Of Limbs" ci ha consegnato una band indecisa e spenta; gran parte della delusione derivava da un output finale non soddisfacente, sia per il minutaggio ristretto, sia per scelte produttive un po' pasticciate. Nonostante dal vivo assumesse un respiro più ampio, di fatto una rivalutazione non è mai avvenuta, e il sentimento generale anche tra i fan della band più fedeli era che se i Radiohead avessero sbagliato anche questo tanto atteso nono album, la loro reputazione di band infallibile sarebbe definitivamente crollata, lasciando il passo all'accettazione dei loro attuali limiti e difetti. Un LP9 che, insomma, si poneva come la prova del nove per la band di Thom Yorke & co.
Dopo mesi di speculazioni e teorie che hanno monopolizzato dibattiti e discorsi un po' ovunque nel web, i Radiohead hanno fatto tutto in una settimana, con quel loro classico stile a sorpresa che ormai dai tempi di "In Rainbows" segna ogni nuova uscita. Prima il video in claymation per "Burn The Witch", poi quello esistenzialista per "Daydreaming", diretto da Paul Thomas Anderson, cui immediatamente ha fatto seguito l'annuncio di "A Moon Shaped Pool", rilasciato appena due giorni dopo. L'ennesima release azzeccata nei tempi e nei modi, come dimostra l'enorme risonanza che video e album stanno avendo. I meri fatti di marketing, così come l'hype cieco e smodato, ovviamente non dovrebbero occultare il puro dato musicale. E allora, che band ci riconsegna "A Moon Shaped Pool"?
Una band che probabilmente ha capito i limiti di una formula che iniziava a mostrare la corda e, messe da parte certe tendenze elettroniche divenute ormai stantie, svela il suo lato più umano e intimista. Non che l'introspezione e la malinconia non fossero già tratti essenziali della loro proposta musicale, che anzi in molti momenti ha sintetizzato lo spleen depresso e umbratile della nuova era tecnologica. Ma, laddove in capolavori come "Ok Computer" e "Kid A" questi sentimenti veicolavano un messaggio universale, in "A Moon Shaped Pool" mai come prima la sfera privata di Yorke si pone al centro della scena, con il dramma personale della recente separazione dalla compagna di una vita, Rachel Owen. Si tratta in parte di un ritorno alle atmosfere di "In Rainbows", ma senza la sua tavolozza sgargiante di colori, che ha fatto posto a un grigiore esistenziale che molti potrebbero scambiare per monotonia.
In realtà, tra le pieghe di un lavoro a prima vista monocorde, prende vita un'atmosfera strana e ineffabile. Queste undici canzoni, molte delle quali già conosciute in veste live, si situano in quell'imprecisato confine in cui la malinconia e la nostalgia diventano sentimenti prossimi alla serenità. È difficile stabilire cosa sia a guidare lo spirito inquieto di Yorke, se la rassegnazione o la speranza, o piuttosto la serena presa di coscienza dell'inutilità di inseguire sogni e ambizioni irraggiungibili. Nel video di "Daydreaming", il cantante vaga ansioso e smarrito in diversi edifici, dislocati in una rete labirintica e indistricabile, fino ad arrivare a un contatto diretto con la natura, là dove le emozioni scorrono ancora non contaminate dalla quotidianità. E mentre gli archi in reverse seguono il sussurro ondivago di Thom, dipingendo scenari cupi e misteriosi, tutta la tensione accumulata esplode, prima di affievolirsi in un finale dimesso che sa quasi di addio e rinuncia. È un brano che mette in luce l'abilità nel creare climax quasi cinematografici che Johnny Greenwood ha avuto modo di acquisire, anche grazie alla collaborazione avuta in tempi recenti con lo stesso Anderson.
Del resto, archi e orchestrazioni ricoprono un ruolo vitale nel corso di tutto il disco. Il singolo "Burn The Witch", invettiva contro un sistema opprimente che ricorda l'impegno politico di "Hail To The Thief", accumula tensione su tensione grazie ad archi ostinati e dirompenti, perfetto contraltare alla voce fluttuante di Yorke. Altrove sono cori angelici a elevare il lirismo dei brani, come quello che irrompe nel mezzo della rockeggiante "Identikit", o che dona a "Decks Dark", prossima al trip-hop, un'aura di misterioso fascino. Nello sfondo è onnipresente il pianoforte, cristallino e torrenziale, che assieme alle trame della chitarra acustica, e a un tessuto ritmico tenue, va a dipingere paesaggi eterei e sfuggenti, a tratti tipicamente folk (in alcuni passaggi emergono echi di Nick Drake e Tim Buckley), come testimoniano "Desert Island Disk" e "Glass Eyes". Proprio "Glass Eyes" merita una menzione a parte: un po' la "Faust Arp" di questo disco, è il classico brano che a un ascolto fugace sembra un mero riempitivo, salvo poi rilasciare suggestioni sempre nuove in quelli successivi. Tale effetto è probabilmente dovuto alla simbiosi di pochi, ma decisivi elementi: primo fra tutti, il testo poetico e introspettivo, che vede Yorke , appena sceso dal treno, alienato in mezzo alla folla muta e indifferente; a conferire maggiore profondità sono gli archi, qui commoventi come non mai, che sul finire, tra le note di cello appena abbozzate, fanno quasi rivivere la catarsi di "Motion Picture Soundtrack", fattasi ancora più intima e personale.
Per chi asserisce che questo disco difetti di melodie, il miglior controesempio è sicuramente "Present Tense", già nota ai fan sin dal 2009, e che si colloca di diritto tra le melodie più belle pennellate dai Radiohead, con il suo trascinante incedere bossanova. Anche la psichedelia fa capolino in diversi momenti, sia essa d'impronta kraut-rock come nella cavalcata "Ful Stop" o leggiadra e svogliata come in "The Numbers", sorta di inno anti-cambiamento climatico. Effettistica curata, insieme a linee di basso che disegnano groove ipnotici, concorrono a creare un clima di sospensione estatica in cui smarrirsi.
Nulla, però, è paragonabile al candore e alla grazia di "True Love Waits". Brano noto da oltre vent'anni e già inserito nel live "I Might Be Wrong" del 2001, viene qui spogliato del suo arrangiamento acustico e adornato di un pianoforte spoglio e spettrale, reminiscente di quello che apriva "Kid A" in "Everything In Its Right Place". Se la celebre versione acustica faceva emergere acuti di disperazione, qui la rassegnazione la fa da padrone, guidando la voce rotta di Yorke lunga una melodia sconsolata che chiude idealmente un cerchio aperto molto tempo fa.
"A Moon Shaped Pool" è un graditissimo ritorno di una band che sembrava aver perso la bussola, ma che ha ritrovato ispirazione e capacità di emozionare come non accadeva da quasi dieci anni. È un colpo di classe in cui c'è molta esperienza, e a volte manierismo. Ma grazie al cielo, i Radiohead che fanno i Radiohead sono ancora un gran bel sentire.
20/05/2016