Il quintetto, nel suo ottavo disco, intraprende una via non scontata né banale, che arricchisce la sua discografia di un lavoro ancora una volta differente rispetto ai precedenti. Non è un lavoro pop, non è elettronica, non è rock. Che cos'è, dunque, "The King Of Limbs"? È una via di mezzo di tutto, un mix nel quale possono rintracciarsi i Radiohead di sempre, seppur nel contesto di un gioco di ombre che rende questo disco forse il più misterioso e difficilmente inquadrabile della loro storia.
In un certo senso, in cuffia, "The King Of Limbs" è forse il disco che ci aspettava. Rimane poco della bellezza pop del disco precedente, qui si osa di più. Il sound è compatto e monolitico come non mai, senza tuttavia mancare volta per volta di variazioni sul tema. Perfetto incrocio tra la freddezza di "Kid A" e le languide scie di "Amnesiac", "The King Of Limbs" offre una sorta di rivistazione dell'uno-due di inizio decennio. Uno stile inconfondibile, nel quale fanno capolino da un lato cornici elettroniche (file under: Four Tet) e dall'altro personalissime e addolcite declinazioni dubstep (file under: Flying Lotus).
La marcetta iniziale "Bloom" racchiude perfettamente il senso dell'album: in bilico tra frastagliate linee ritmiche, superficiale freddezza e aperture alla Björk di "Debut" e "Homogenic". Il canto sinuoso di Yorke al solito si pone da contraltare rispetto alla struttura, creando un perfetto incrocio tra calore e distacco.
E se il frenetico incedere di "Morning Mr. Magpie" sembra uscito dalle outtake di "The Eraser", i primi istanti di "Little By Little", in quota "Half To The Thief", parlano il verbo dei Portishead, col canto che si fa lamentoso e strozzato. "Feral", più di ogni altra, porta alla memoria "Kid A", tra schegge ritmiche impazzite, improvvisi stop e conseguenti accelerazioni, in un moto non distante dal Four Tet più vivido. Fino a qui emerge una grande omogeneità, sotto la quale si nascondono soluzioni non facilmente catturabili a un primo ascolto.
Il singolo "Lotus Flower", giocato su beat serrato, organo e stupende linee vocali (che si riscaldano nel "ritornello") segna lo spartiacque del disco. Da qui è una discesa nel miele più dolce. "Codex" è episodio per piano, echi lontani e un senso di avvolgimento e calore che sfiora la perfezione, "Give Up The Ghost" è un'incantevole nenia per fiati e sovrapposizioni vocali in un incastro dolcissimo e celestiale. La conclusiva "Separator" richiama alla memoria il passo felpato di "House Of Cards", con un crescendo velatamente psichedelico.
Un disco breve - trentasette minuti - ma densissimo, forse il più introspettivo, difficile e granitico della loro storia.
Se la musica fosse matematica, i Radiohead sarebbero sempre un gioco a somma positiva.
(23/02/2011)