Ci vuole poco per cadere nell’oblio e nell’indifferenza di pubblico e critica, ma che questo accada a una delle figure cantautorali più valide dell’ultimo decennio è sintomatico di un periodo dove la sovrapproduzione tende a omologare anche le proposte musicali più valide. A distanza di tre anni dal pur celebrato “Years In Marble” il cantautore francese Raoul Vignal ha inaugurato il 2024 con un disco in collaborazione con Théo Charaf (“Two Way Street”), mettendo a confronto il personale folk cristallino e etereo con le influenze blues e American roots di Charaf, un lavoro bellamente ignorato dalla critica.
Con ostinata passione e incurante della data (otto novembre), non proprio indovinata per la pubblicazione di un nuovo album, Raoul Vignal sfida la sorte con una nuova, preziosa raccolta di dodici canzoni che già dal titolo svela la volontà dell’autore di restare nell’ombra, privilegiando la qualità alla visibilità mordi e fuggi.
“Shadow Bands” è un disco baciato da un’eleganza d’altri tempi. Chitarre acustiche e percussioni spazzolate creano tappeti sonori sui quali la voce di Vignal si adagia con fraseggi melodici elaborati e mai prevedibili. Come moderno menestrello, il musicista francese incanta (“Shipwrecks And artefacts”), seduce con sonorità esotiche sognanti (“Icarus”) e fa filtrare la giusta dose di soul tra le pieghe di ballate folk tanto semplici quanto elaborate (“South, Brother”, “Pathway”).
In piena autarchia, sia in fase di scrittura che di realizzazione, Raoul suona tutti gli strumenti tranne le percussioni, affidate a Lucien Chatin. Il cantautore francese coltiva indomito la passione per la musica e la letteratura medievale, concedendosi alla complessità strumentale degli antichi madrigali bretoni (“Canon Song”), facendo librare atmosfere noir e cavalleresche che si incrociano con stranianti sonorità country/western che aggiungono un tocco cinematografico (“Brimstone Skies”).
L’elemento pregante di “Shadow Bands” è la ricca tessitura sonora: Raoul mette a frutto la collaborazione con Théo Charaf introducendo sonorità country-blues (“A Horse Named Fortune”), nello stesso tempo offre performance strumentali e assolo, sia alla chitarra acustica sia a quella elettrica, che smuovono le acque delle tenui ed eteree ballate (la già citata “Canon Song” e “Waltz In Clay”).
Quel che distingue Raoul Vignal da molti autori contemporanei è l’abilità nel trascinare canzoni apparentemente ordinarie in territori inesplorati. Come quando prende per mano le nuance romantiche di “In Glow”, modificando lo scenario dalle nebbie della Provenza alle cupe e solitarie atmosfere dell’unico brano strumentale (“Andlau”), al quale spetta il compito di anticipare le due pagine più malinconiche e minimali dell’album, tanto gracili quanto ricche di poesia (“Deer Song” e la title track), due ennesime perle di scrittura che inducono a un pronto e meritato repeat automatico dell’intero progetto.
Chiedetevi quanti dischi possiedano queste qualità e ponetevi qualche dubbio sul filtro non sempre equo adoperato da stampa e mezzi d’informazione. La musica di Raoul Vignal non fa rumore e conquista grazie a un’originalità che di questi tempi è merce rara.
05/04/2025