Con "Comuni mortali", l'istrionico Achille Lauro continua la sua corsa nella teatralizzazione della musica italiana, mescolando cantautorato, glam, pop e suggestioni vintage in un impasto che promette, come al solito, tanto ma mantiene troppo poco. L'artista, tanto camaleontico da risultare semplicemente confuso, tenta la carta della profondità autoriale, ma lo fa con una vocalità spesso incerta e monocorde, che fatica a reggere il peso emotivo dei testi. Con i riflettori puntati sul contenuto, poi, è difficile non fare caso alle numerose banalità e alle fastidiose soluzioni retoriche.
Gli arrangiamenti dolenti di archi che aprono "Perdutamente" precipitano l'ascoltatore in una serie di vignette d'epoca che superano spesso il limite dell'imbarazzo empatico. Inevitabile (?) il tributo alla Capitale in "amoR", una ballata prevedibile degna del peggiore Tommaso Paradiso: "Torna presto, amor/ Me so' fatto grande". Compare una chitarra in "Dannata San Francisco", a spezzare la monotonia, ma l'unica soluzione sembra non essere fluenti in italiano e così riuscire a non capire i testi, che contengono perle come "Moriremo veloci, scoperemo quelle stelle" o "Per stare con te cinque minuti/ Questa notte, sì, mi compro casa". Per capirci su quanto l'album insista sulla retorica del sentimentale e del malinconico, c'è anche la dedica alla madre, "Cristina": un lago di nostalgia, di ricordi tristi, pensieri suicidi e ovviamente un ritornello da ballata pop classica.
A bilanciare un po' arriva la più vivace "Fiori di papavero", con una bella linea di basso e un appeal da ultimi The Kolors, che però andrebbe ascoltata senza capire frasi come "Ti regalo il Vomero"; meglio la gemella diversa "Dirty Love", con un riff funk e riflessi ottantiani.
Presenti anche le già conosciute "Amore disperato" e "Incoscienti giovani", quest'ultima presentata a Sanremo, perfettamente integrate nella scaletta malinconica e virata seppia, che si presta persino a interpretazioni bibliche in "Nati da una costola".
Achille Lauro usa il suo linguaggio più tipico solo in "Happy Birthday Mr. Kennedy", con una sfilata di riferimenti di pop culture più o meno lugubri, e soprattutto nella conclusiva "Barabba III", dove si riavvicina al rap con il nuovo capitolo di una saga intimista e centrale nella sua discografia.
La sostanza in "Comuni mortali" è un miraggio. Domina una forma artefatta, posticcia. I testi oscillano tra il poetico e il prevedibile, indulgendo in cliché strasentiti, con un assortimento di immagini risapute. Ormai non ha neanche senso chiedersi il perché di quest'ennesima maschera: il passaggio da un'identità artistica all'altra appare più un espediente per mantenere alta l'attenzione del pubblico che un percorso coerente, e si appaia a un'immagine che è ormai principalmente legata alla televisione, un medium in cui la musica è soprattutto un pretesto per lo spettacolo.
L'istrionismo di Lauro, che un tempo appariva come rottura, oggi sa di confezionato a tavolino. Persino la copertina in bianco e nero risulta artefatta e già vista, pretenziosa e un po' banale... come tutto il resto.
12/05/2025