Poco più di un anno fa usciva "Saracena", album raffinato nelle sonorità e articolato nel suo piglio politico. Un lavoro eccellente che, ponendo al centro il concetto di separazione, voleva cantare della Nakba, l'esodo forzato degli arabi di Palestina e il loro dramma tornato attuale. Cesare Basile è totalmente svincolato da qualsiasi logica di mercato o moda stilistica. Uno dei pochi autori del panorama italiano rimasti in grado di produrre dischi in cui l'underground strizza sempre più l'occhio al mainstream. Quello che colpisce è il suo essere artigiano della musica, arrivando stupire senza mai però risultare sovraesposto. Artigiano lo è letteralmente nel costruire i suoi strumenti, modificarli o elaborarli. A questo unisce la versatilità di una carriera trentennale in cui ha sempre guardato oltre i confini geografici e sonori.
Questa lunga premessa è doverosa per introdurre "Nivura Spoken", ma per comprenderlo a pieno va contestualizzato anche il momento di concepimento. Siamo in piena pandemia nella primavera del 2020. In un'intervista recente è lo stesso Cesare a dire che non voleva creare un album convenzionale ma qualcosa di più aderente al periodo straordinario che il mondo viveva. Aggiunge che non era molto incline a suonare la chitarra, preferendo approcciarsi invece all'elettronica. Così dopo varie vicissitudini il 16 maggio, pubblicato dall'etichetta catanese Viceversa Records, esce "Nivura Spoken".
In primo luogo un album che potremmo definire distopico nelle sonorità ma anche negli accostamenti testi/musica. Una struttura articolata che vede come ulteriore impianto lo spoken-word, di tradizione blues ma la cui origine risale addirittura all'antica Grecia, quando i discorsi dei saggi venivano messi in musica e suonati durante le Olimpiadi. Un lavoro ibrido, meticcio come sempre, ma con parametri ridisegnati anche questa volta. Sette tracce, 27 minuti di sperimentazione e oscurità ("Nivura" del resto in dialetto siciliano significa "Nera").
Dopo una prima traccia/intro omonima e più digeribile in cui si intravedono venature desert blues, si scende nei sei gironi successivi, ognuno dei quali vede protagonista una voce femminile.Donne, artiste di livello e sodali a cui Cesare ha chiesto di traghettare nelle sue visioni sonore l'ascoltatore. Ognuna di essa recita nella propria lingua o dialetto di derivazione.
"U me zogu cor diavu" è una rivisitazione di "Sympathy For The Devil" dei Rolling Stones narrata da Rita Oberti in un dialetto montano ligure con una cornice industrial e noise. In "Nisun al da na vos" la voce di Sara Ardizzoni si impasta a suoni evocativi e ipnotici che sembrano emergere dal ribollire di lontane terre sulfuree. "Cosmo" potrebbe essere una pièce teatrale: la voce di Nada Malanima pare giungere da un'altra dimensione, il testo alienante è scalfito da violenti graffi sonori.
Vera Di Lecce presta la voce a una rivisitazione "sintetica" del traditional salentino "Aremu Rindinedda", mentre Valentina Lupica riadatta un testo di Franco Scaldati su un tappeto sonoro già blando di Basile.
Davvero notevole è "Frustration". Il testo, a cura della rapper palestinese Sarah Elkahlout, viene confezionato da Basile in chiave post-rock: la musica conferisce al cantato la sacralità che merita: per versi così intensi, che Sarah ha inviato dalla sua terra martoriata, non si può che provare rispetto.
Cesare Basile, insomma, si conferma artista capace di muovere il proprio sguardo nel tempo e nello spazio. Fa del tempo uno strumento di conoscenza e dello spazio un mezzo di espressione, attraversando in ogni direzione queste due grandezze senza confini di sorta e unendo mondi apparentemente inconciliabili.
24/05/2025