Di quel riduzionismo che ha caratterizzato la scena elettronica tra il decennio Zero e gli anni Dieci, ormai resta poco più che un ricordo sbiadito. Conna Haraway ne è testimone: forse ci eravamo stancati di quel piglio essenziale, o forse i computer hanno iniziato a costare così poco, rispetto alla loro potenza computazionale, da spalancare le porte a un ventaglio di software e plugin talmente vasto da rendere obsoleta quella che un tempo era sì un'estetica, ma anche una necessità legata all'hardware disponibile. Il massimalismo, oggi, è forse la nuova interfaccia, e "Spatial Fix", seconda release di Conna Haraway, producer di Glasgow e co-fondatore di INDEX: Records, casa madre di entità come Xenia Reaper, ne è un paradigma.
Curiosamente, però, non è per INDEX: che esce questo lavoro. Né lo era il suo debutto, "Lusidiq", un artefatto ectoplasmatico a metà tra ambient-dub e Idm rarefatta, come da protocollo del più recente sottobosco elettronico. Entrambi i lavori sono pubblicati dalla label australiana Theory Therapy, già nota ai cultori per le uscite di Usof e Conclave Reflections. Haraway, tuttavia, si smarca da questi nomi, abbracciando un approccio meticoloso al sound design, di una trasparenza quasi algoritmica, ben distante dalle logiche Diy di altri sciamani della new wave elettronica. Sempre ambient-dub, sì, ma su coordinate completamente diverse rispetto alla fangosa deriva di Uon o all'onirismo plumbeo di Pontiac Streator. Qui, la glitch-music diventa il resoconto lucido di un crash di sistema, i bug del proprio software personale su un fondale naturale assorbito e riscritto dentro un ecosistema digitale.
L'approccio di "Spatial Fix" è tanto materico ("Freon") quanto astratto ("Switchback"), con ritmi downtempo eredi di una nobile tradizione novantiana, tra illbient e un certo hip-hop strumentale, che si incastonano in un flusso sonoro ipnotico, a tratti shoegaze, con un wall-of-sound che si integra armonicamente tanto con la pulsazione quanto con le incursioni naturalistiche: lo scorrere di un ruscello, il cinguettio quantizzato di uccelli sintetici, contrapposti a massate ritmiche quasi Uk-bass. A voler essere pignoli, forse il tessuto sonoro è così denso da risultare, a tratti, labirintico: l'architettura di Haraway è affascinante, ma l'impressione è che talvolta la RAM emotiva dell'ascoltatore venga messa alla prova. Nulla di compromettente, comunque. In sole quattro tracce, l'album si fa abitare, e nella sua complessità stimola sessioni d'ascolto multiple, come un codice sorgente da rileggere ogni volta con occhi diversi.
05/06/2025