È gennaio, fa freddo, piove e le giornate ancora sono corte. Non vi è momento migliore perché esca il disco dance-pop dell'anno, quello dotato delle giuste dosi di escapismo e positività per proiettarci, mente e corpo, verso altre stagioni. Troppo presto per sancirne il primato nel 2025? Me ne assumo il rischio. A meno di autentiche sorprese da parte di Shygirl o da qualche dj dall'Estremo Oriente, quanto offerto da Rose Gray in “Louder, Please” non teme troppo i raffronti, mostrando la sua autrice alle prese con un lessico sonoro che guarda dritto negli occhi la gloriosa storia della club-culture britannica, torcendola in direzione di luccicanti melodie pop, facendosi personale tributo alla stagione nu-disco che tanto riuscì a far sudare. Si arriva in fondo che chiedere di alzare il volume diventa un obbligo morale.
In un genere che negli ultimi anni ha ritrovato una sua specifica affermazione, affidandosi a interpreti e autori più o meno di grido, trovare la giusta quadra per non scadere nel più bieco streamingcore non è affatto un'operazione semplice. Complice l'esperienza maturata in anni di uscite collaterali ed Ep, Gray ha sufficiente carattere per calarsi nei panni della nuova summer-queen, lavorando sui due fondamentali che da sempre decretano il successo della dance: scrittura e produzione. Non godono dell'impatto immediato dei brani della migliore Dua Lipa o della sofisticazione di una Róisín Murphy, le melodie escogitate dall'autrice riescono però a individuare una felice via di mezzo, tale da insinuarsi agilmente nei meccanismi della canzone pop ma da una prospettiva ellittica, più vicina all'eversione di personaggi quali Charli XCX e altri della ciurma hyper. Allo stesso modo rispondono le scelte produttive, un concentrato di tutta la migliore house degli ultimi trent'anni, corredata però di armi nascoste, scatti collaterali che ne espandono il potenziale, lasciando trasparire le zone d'ombra, quei leggeri scatti di cattiveria che vanno oltre il compitino.
Apparentemente un brano apocrifo della Kylie Minogue del periodo d'oro, “Tectonic” fa presto a sviare da facili paragoni e dotarsi di un'ambience più espansa, una struttura più liquida che avvolge come un manto la voce di Gray, capace di un'irresistibile dolcezza. Se si tratta di sfoderare gli artigli e giocare con un piglio da diva del dancefloor, l'autrice non si tira indietro: “Free” attacca con un pimpante tratteggio di synth che i Clean Bandit le invidierebbero, per poi esplodere nel ritornello, come se Ibiza all'improvviso venisse catapultata in un paradiso elettrico, rendendo concreta la libertà che il titolo va dichiarando.
La libreria danzereccia di Gray apre poi su pagine trance che vibrano alle stesse frequenze dei Fragma ma con un approccio melodico ben più concitato (l'inno festaiolo “Party People”), rivisita a suo modo l'estetica da Eurovision scomponendo l'euforia camp propria della kermesse in nervosi segmenti technoidi (“Angel Of Satisfaction”).
Se si desidera quel pizzico di pepe in più, “Switch” arriva al momento giusto, giocando di allusioni e proposte in un luccicante abito electro. Anche a giocare maggiormente di evocazione, ad andare a parare nel raggio ipnotico proprio di una Kelly Lee Owens (“Hackney Wick”), Rose Gray ha i piedi ben piantati per terra, mostra chiaramente di saper dominare la materia, di avere qui trovato le spinte necessarie per affermare tutta la sua personalità. E quindi, non vorrete mica continuare a tenere il volume basso? Louder, please!
26/01/2025