Breeders

Breeders - Girl-pop generation

L'incontro tra due delle menti più virtuose della famiglia 4AD, Kim Deal (Pixies) e Tanya Donnelly (Throwing Muses). Poi, l'arrivo dell'altra sorella Deal e il grande successo di "Last Splash", a metà tra power-pop e alt-rock. Ascesa e caduta di una band generazionale, tra le più rappresentative dei 90

di Antonio Ciarletta

Quando Ivo di 4AD volse il suo sguardo oltreoceano, non poté che riscontrare un fermento creativo straripante, che di lì a poco avrebbe portato all'esplosione di scene rock dalla rilevanza qualitativa e (in qualche caso) commerciale internazionale. Tra metà anni 80 e inizio anni 90, Olympia, Minneapolis (già da qualche tempo in verità), Boston, Seattle, furono epicentri di terremoti musicali le cui scosse di assestamento si avvertirono per tutto il decennio successivo, almeno.

Il reclutamento fu atto dovuto, con l'obiettivo, forse, di ridefinire l'immagine dell'etichetta, non tradendone però la filosofia di base, imperniata su una concezione iconico/sonora che era vero e proprio trattato di filosofia esistenziale. Qualche nome? Beh vi bastino i seguenti: Pixies, Red House Painters, Lisa Germano, Unrest, Throwing Muses, artisti che in breve avrebbero riscritto la storia del rock americano, tanto per confermare la lungimiranza di questo straordinario personaggio.
In seno all'etichetta, come da tradizione, trovarono terreno fertile le collaborazioni, e la vicenda che stiamo per raccontare nasce dall'incontro tra due delle menti più virtuose della famiglia 4AD, Kim Deal (Pixies) e Tanya Donnelly (Throwing Muses). Più che side project estemporaneo, i/le Breeders rappresentarono un'unità creativa compiuta, sia nel suono che nell'etica/estetica di fondo, nonché eccellente strumento per dar sfogo a una miriade di pulsioni, forse parzialmente represse all'interno delle formazioni madre da dinamiche relazionali delicate. Figlie di un femminismo di ritorno, le cui istanze montarono fino a esplodere virulente nelle tematiche del movimento delle riot girls, Deal e Donnelly si fecero osservatrici e interpreti di una inquietudine esistenziale tipica di quel periodo, da intendere come reazione all'edonismo reganiano/thatcheriano che caratterizzò gli anni 80. Ma la risposta a quell'egemonia culturale costituiva esclusivamente il substrato, una sorta di lasciapassare obbligatorio quanto naturale in una proposta alternativa.

Il reale centro tematico reggeva su un sottile equilibrio riguardante il passaggio critico da adolescente a giovane donna, la fase in cui gli scompensi psicologici da problematica mestruale lasciano spazio a riflessioni più ampie sull'esigua simmetria/asimmetria vigente nel rapporto tra i sessi e sulla difficoltà del reciproco riconoscimento/accettazione.
Non pensate a Hole o Babes In Toyland, a esplosioni incendiare di rabbie represse e nemmeno a sperimentazioni dissolute su tabù sessuali di una Lydia Lunch. In tal senso, come semiotica conseguenza di quella cifra concettuale, la musica si assestava su una foggia stilistica molto particolare, che aveva modo di manifestarsi in una sorta di pop psichedelico, scorticato ma compito, quasi trattenuto. L'influenza dei Pixies non è trascurabile, a dimostrare la leadership artistica della Deal, che si palesò ulteriormente con l'abbandono della Donnelly, avvenuto tra il primo e il secondo album. Sono le armonie, accanto all'innata capacità di forgiare ritornelli orecchiabili, a rendere così interessante il suono delle Breeders. Una sperimentazione spontanea, quasi inconsapevole oseremmo dire, che vedeva l'accostamento di stili diversi, di suoni e ritmi apparentemente poco conciliabili; punk, hard-rock, grunge, psichedelia, accenni cocktail lounge, coretti vocali che rimandano alle girl-group, e sghembe, improvvise variazioni di registro.

La prima incarnazione delle Breeders consta, oltre Deal e Donnelly, di Josephine Wiggs di Perfect Disaster (basso) e Britt Walford degli Slint alla batteria, quest'ultimo sotto lo pseudonimo Shannon Doughton.
Registrato al Palladium Studios di Edimburgo, Pod si fregia della solita grande (non) produzione di Steve Albini. Il guru di Pasadena riesce a tramutare in atto ciò che inizialmente è solo in potenza, senza incidere pesantemente sulla cifra stilistica della band. Il suono è fresco e distorto, ma non approssimativo, come se la Breeders suonassero dal vivo ma al meglio delle proprie possibilità. Il concept grafico, opera del genio di Vaughan Oliver, si presta benissimo ad argomento di tesina universitaria in cui potrebbero entrare in gioco le interpretazioni dei sogni di Freud, le tensioni erotiche dei racconti di Paul Bowles, l'arte grottesca dei surrealisti.
Pod è un florilegio di pop-song irresistibili. Pensate a un incrocio tra i Pixies di "Surfer Rosa" e le Throwing Muses periodo di mezzo, quelle tra "Hunkpapa" a "Red Heaven", per intenderci. Ma non sfuggiranno all'ascoltatore attento speziature armoniche di Polvo, maggiormente evidenti nell'album successivo, a rendere ancor più saporita la portata.
La musica è scarna ma compatta, frutto della perfetta integrazione tra meccanismi ritmici e solistici, delle chitarre così virtuosisticamente younghiane/verleniane, nervose, tremanti, persino incerte. L'iniziale "Glorius" è il manifesto, lenta nenia sottovuoto in cui ha modo di emergere quel suono instabile di cui dicevamo poc'anzi. Sulla medesima (forzata) falsariga è la cover beatlesiana di "Happines In A Warm Gun", mentre "Doe" è il modello power-pop a cui si uniformeranno la maggior parte dei pezzi delle Breeders, a cominciare da "Fortunately Gone", come delle Ronettes in versione indie-rock. Per proseguire con "Hellbound", baraonda garage con le chitarre lancinanti fuori controllo pur nella compostezza pop del pezzo.
In linea di massima compassate o quantomeno non sguaiate, le Breeders tradiscono rabbia visionaria in "Iris", dinamica piano-forte-piano martellante e linea di basso avvolgente a rendere meno ispido il delirio espressivo. L'imprint della scena di Boston si evince nella commistione di suoni elettrici e acustici di "Metal Man" e "Oh", stupenda ballata rallentata nobilitata dal violino elettrificato di Carrie Bradley, che strazia lo strumento fino a fargli sanguinare una melodia tristissima, come un Warren Ellis in nevrosi mestruale.

Leggermente inferiore, rispetto al successivo Last Splash in termini di maturità compositiva, Pod raccoglie comunque i favori della critica dell'epoca in virtù di un suono spontaneo, e brillantemente pop.

Il passo successivo, l'Ep Safari, vede l'ingresso in formazione dell'altra Deal, Kelly, ed è ancora incentrato sui temi della sessualità, sul difficile rapporto con l'altro sesso e con il proprio corpo. Non avrebbero sfigurato in Pod "Safari", "Do You Love Me" e "So Sad About Us", venate di un intimismo spinto che quasi ci si vergogna ad ascoltarle, come a violare fatti altrui.
Intanto la Donnelly abbandona (formerà le Belly"), mentre dietro le pelli subentra stabilmente Jim Macpherson.. La band accompagna i Nirvana nel tour europeo del 1992, aprendone i concerti.

Il 1993 è l'anno di Last Splash, capolavoro del gruppo e tra i migliori album indie-rock del decennio.
Congedato Albini, è Kim Deal, supportata da Mark Freegard, a produrre il disco. Proseguendo sul sentiero tracciato da Safari, le Breeders irrobustiscono il suono, ma al contempo ne limano gli spigoli. Le chitarre ruggiscono distorsioni sonnacchiose, i ritornelli compiuti e canticchiabili, mentre la ritmiche incalzano con maggiore vigoria. La musica è sicuramente più "commerciabile", tanto che, Last Splash diviene disco di platino, trainato dal successo del singolo "Cannonball".
La scrittura della Deal mantiene, invece, il suo appeal dissacratorio, e il femminismo allucinato di alcune di quelle liriche ne fa una delle maggiori interpreti dell'humus giovanile dello scorso decennio.
Le Breeders si districano con nonchalance tra il country di "Drivin' On 9" e la filastrocca "Mad Lucas", come una Lisa Germano esiliata alle Haway. Chitarre hawaiane che ricorrono ancora in "No Aloha", subissate da una valanga di riff travolgenti e voci filtrate. Sfiora l'avanguardia noise "Roi", con una selva di distorsioni stranianti a inglobare il canto visionario della Deal, uno straniante frutto incestuoso, partorito dall'unione Earth-Neil Young di "Dead Man".
Il talento lirico Deal si manifesta nelle vesti di frasi brevi e icastiche: "We were rich once/ Before your head exploded/… If you are so special why aren't you dead…", canta in "I Just Wanna Get Along", party-song alla B-52's, mentre il collasso nervoso di "New Year" manifesta alla perfezione le tensioni post-adolescenziali di cui le Breeders sono veicolo.
Last Splash sembra lanciare il gruppo nella stratosfera del rock alternativo, ma ciò non avviene. L'estenuante tour del '94 rompe, probabilmente, il giocattolo, e una serie di eventi costano, di fatto, l'accantonamento del progetto.
Kelly, arrestata per possesso di droga, è ricoverata in una clinica riabilitativa in Minnesota. Nel '96 è nuovamente in azione con il progetto Kelley Deal 6000. Al contempo, Kim si dedica alle Amps, mentre Wiggs alla Josephine Wiggs Experience.

Nel 1997, una formazione delle Breeders suona al concerto in memoria di Tim Taylor, cantante dei grandi Brainiac, morto in un incidente d'auto, così iniziano a circolare voci di un possibile nuovo album. Title Tk arriva nel 2002, con Albini alla consolle, ma è una piccola delusione, e le critiche contrastanti lo confermano.
Il problema? Kim Deal soffre della propria maturazione, rimanendo ingabbiata in un'eterna adolescenza musicale che ne limita l'evoluzione artistica. Manifestazione, sentimenti repressi ed espressi con fare sanguigno: Kim non è cantautrice, e come Juliana Hatfield tenta di dare profondità concettuale alle canzoni non avendo le doti necessarie. Nella massa di composizioni, spesso solo abbozzate, si distinguono, comunque, un paio di perle del calibro di "Too Alive" e "Huffer", a mantenere il disco in linea di galleggiamento.

Come Nirvana, Lemonheads, Replacements e Sex Pistols prima ancora, le Breeders sono (state?) una band generazionale, tra le più rappresentative del decennio precedente. Difficile ipotizzare un'evoluzione che tenga conto dei cambiamenti socio-culturali intercorsi, come degli orientamenti artistici in atto già da qualche tempo. In ogni caso, restiamo in fiduciosa attesa.

Un'attesa che viene ripagata nel 2008 con Mountain Battles, un disco che rinverdisce i vecchi fasti rockeggianti. Le sorelle Deal dimostrano di saper sputare pezzi al fulmicotone, tassativamente sotto i tre minuti. “Overglazed” stampa con la sua esuberanza ritmica un manifesto vecchio ma non stantio: semplice, diretto, cantato con trasporto, atmosferico. Splendidi esempi di elettricità malsana si susseguono con continuità (“Bang On”, “German Studies”  ), minuscole danze folk mettono in risalto la voce corrugata ma sempre efficace di Kim Deal (“Night Of Joy”, “We’re Gonna Rise”, “Spark”).
La formula funziona, insomma, anche se a tratti pare evolversi con risultati alterni: il rallentatore di “Istanbul” risulta quasi amatoriale, eppure seducente, la tesa “Wake It Off” si erge a inno dell’opera per enfasi melodica, il cantato spagnolo di “Regalame Esta Noche” regala vivacità nella parte centrale del disco, capace anche di aggiungere un colpo country-folk di grande effetto come “Here No More”.
Nella parte finale, l’opulenza la fa da padrone, con la grassa e marcia “No Way”, sorretta da un giro di chitarra flemmatico, la zuccherosa “It’s The Love” e la title track, splendido epitaffio stravagante ed essenziale, sublimazione ed ennesima conferma del valore di questa band, con il lento crescendo della voce e le gelide distorsioni che virano verso territori inusuali.

Mountain Battles (2008) si svela tappa importante per un collettivo che pareva ormai destinato a rimanere in soffitta. Un semplice disco di canzoni sguscianti, dal fascino irresistibile e senza tempo.

Per il ventennale di Last Splash Kim Deal raduna a sè la line-up che quel disco lo incise, per riproporlo interamente dal vivo.
La leader prende così la palla al balzo per provare nuovo materiale proprio con la formazione del suo acuto artistico. Ne esce un nuovo album di rentrée, a una decade dal predecessore, All Nerve(2018), salutato da più parti come opera riflessiva e cupa, indicativa dell'età adulta di Deal e compagni. Senza direzione e senza stimoli, ha ancora dalla sua fibra e brevità ("Wait In The Car") e un momento che potrebbe indicare in effetti una strada cantautoriale ("Dawn: An Effort").

Let's start a new life/Beat's gonna lead us/Live on

Nel 2024, a 63 anni compiuti Kim Deal, decide di inaugurare la sua carriera solista e per la prima volta si mette in copertina.

La gestazione del suo esordio è stata molto lunga e racchiude più fasi della vita di Kim, alcuni brani (“Are You Mine?” e "Wish I Was") risalgono al 2013, gli altri si sono accumulati nel corso degli anni. Sicuramente ci troviamo di fronte ad un’artista in una fase riflessiva che cerca di abbozzare un bilancio della sua vita, sia quella da rocker passata sui palchi di mezzo mondo tra dipendenze ed eccessi, ma anche quella quotidiana con suoi dolori, gli affetti e tutte le sue fragilità.  

Anche questa volta Deal mette in luce tutte le sue doti di grande songwriter.

La varietà e l’eclettismo è la caratteristica musicale più evidente di “Nobody Loves You More”: alla Kim Deal del 2024 la gabbia dell’indie rock sembra stare stretta e cerca di forzarla in tutti i modi.

Ha un fascino retro l’open track “Nobody Loves You More” con i suoi archi svolazzanti e un break strumentale carico di appeal cinematografico. Soffia una brezza swingata tra le chitarre languide di ”Summertime”, si sentono aromi esotici tra una  spruzzata di Calipso e qualche goccia di Blondie in “Coast” e quando si insinua la fame di beat “Cristal Breath” soddisferà l’appetito.  

Anche i momenti più intimi sanno essere coinvolgenti: in “Are You Mine?” Kim rende palpabile l’amore e il dolore di assistere la madre mentre la sua mente sprofonda nel Alzheimer, come nella velvettiana “Wish I Was” che racconta tutta la fatica di sentire la giovinezza alle spalle anche se la voce è quella di un’eterna teenager.

Meno convincente l’oscuro esperimento “Big Ben Beat” tra beat spezzati trainati dal basso in overdrive accoppiato ad esili chitarrine tex mex.

Quando Kim torna sui sentieri battuti il piglio è quella dei momenti migliori. “Come Running” è magnetica, piena di saliscendi con controcanti angelici sopra chitarre in distorsione, nel power pop di “Disobedience” c’è la disillusione cinica di chi ha sempre tifato rivolta, e la conclusiva “A Good Time Pushed “, prodotta da Steve Albina, profuma di psichedelia e divertimento trattenuto.

Dato che la sorella Kelley e il batterista Jim MacPherson hanno collaborato a “Nobody Loves You More” questo album non sancisce la fine dei Breeders che sono in piena forma e hanno partecipato quest’estate al tour di Oliva Rodrigo.

Oltre ai Breeders a reggere la mano di Kim per il suo esordio in tarda età ci sono tanti amici tra cui: Josh Klinghoffer, Raymond McGinley dei Teenage Fanclub, Britt Walford degli Slint e per le calde sonorità caribiche di “Coast” la band Mucca Pazza.

"Sono incuriosita dal fallimento" dichiara la Deal, ma sembrerebbe proprio il contrario. “Nobody Loves You More” dimostra il coraggio di volersi addentrare in territori poco frequentati in passato, unito, però, ad una certa abilità a non smarrirsi e ritrovare sempre la strada.

Fallimento rimandato, prova riuscita, brava Kim.  




Contributi di Alessandro Biancalana ("Mountain Battles") e Michele Saran ("All Nerve")