La saga dei Buzzcocks al centro della nuova puntata di Rock in Onda, il programma condotto da Claudio Fabretti tutti i mercoledì dalle 12 alle 14 sulle web-frequenze di Radio Città Aperta (www.radiocittaperta.it).
Nata dal genio della coppia Shelley-Devoto, la band di Manchester ha di fatto inventato il punk-pop, con il suo mix esplosivo di chitarre iperveloci, bassi potenti, melodie accattivanti e testi sagaci, all’insegna di un romanticismo controcorrente e di un genuino sconcerto nei confronti del mondo moderno.
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Buzzcocks
Pochi gruppi come i Buzzcocks hanno saputo interpretare appieno il loro genere abbattendone però al tempo stesso quasi tutti gli stereotipi. Anche per questo vanno annoverati tra i protagonisti più originali di un’intera stagione. Punk nell’animo, nell’approccio insolente, nella capacità di condensare rabbia e sentimento in schegge di canzoni liofilizzate da 2-3 minuti, i mancuniani erano però anche molto altro. A cominciare dal loro aspetto da studenti freak sbarbatelli, privi dell’attitudine vandalistica dei loro coetanei punk. “Siamo quattro bravi ragazzi, di quelli che potresti portare a casa e presentare ai genitori”, ironizzava Pete Shelley in una delle sue prime interviste. Del resto, lui e Howard Devoto, l’altro geniale co-fondatore del gruppo, sfuggivano al cliché del kid proletario annoiato in cerca di rissa o di nichilistica (auto)distruzione. Il primo, all’anagrafe Peter McNeish, era uno studente d’ingegneria appassionato di poeti romantici - non a caso, aveva scelto come nome d’arte quello del suo preferito: Percy Bysshe Shelley. Il secondo, invece, aveva ripudiato l’inglesissimo cognome Trafford per assumere quello più misterioso di Devoto, in linea con la sua passione per letteratura e filosofia, il cui studio alternava agli ascolti compulsivi di quel proto-punk di marca americana nato a cavallo tra la Detroit degli Stooges e la New York dei Velvet Underground e del Cbgb.
Ma a frantumare le convenzioni del punk era anche e soprattutto la loro musica. Era pop, per le melodie cristalline e i ritornelli-killer che i nostri riuscivano a sfornare con nonchalance, quasi come novelli Beatles o Kinks. Era post per l’attitudine art-rock (che Devoto avrebbe poi sviluppato più compiutamente nei Magazine) e per i testi arguti, che al posto del nichilismo dei Sex Pistols e degli assalti politici dei Clash, mettevano le frustrazioni adolescenziali, il sesso e, udite udite, l’amore, incluso quello bisessuale, apertamente decantato da Shelley. Ma era anche un primo embrione di indie: l’ Ep d’esordio “Spiral Scratch” (1977), pubblicato per la loro etichetta New Hormones, è infatti annoverato come il prototipo del DIY (do it yourself). Infine, c’è chi si è spinto ancora più in là, immaginando addirittura fantasiosi accostamenti con il jazz, come Paul Morley, corrispondente da Manchester di Nme, che rimase fulminato dai loro primi concerti: “Sembravano Ornette Coleman! Chitarra e basso erano guizzanti, la batteria era del tutto poliritmica, la voce una frusta. Se ti allontanavi di 5 centimetri pensavi: questo è il free-jazz”.
Meno blasonati di altri loro compari, i Buzzcocks sono però tra gli interpreti di quell’epoca che sono riusciti a lasciare un’impronta più profonda e duratura. Il loro punk-pop resisterà all’usura del tempo: dall’era dei Ramones (forse i loro unici veri maestri putativi) a quella dei Nirvana (che li adotteranno come padrini, portandoli sul palco del loro ultimo tour, nel 1994) fino a quella dei Green Day, che ne semplificheranno la lezione traghettandola nel Duemila, e del revival punk-garage degli Strokes che impazzerà negli anni Zero. Del resto, era stato lo stesso Shelley a rivelarlo ambiziosamente a Nme: “Prima di fare una canzone, devo assicurarmi che possa superare la prova del tempo”. Paradossale, al tempo della più grande truffa del rock’n’roll e della rapida autodistruzione di Sex Pistols e compagni.
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