“Se non avessi incontrato Roversi, adesso farei l’idraulico”, esagererà in riconoscenza Lucio Dalla in un’intervista rilasciata due anni prima di lasciarci. Eppure il rapporto tra i due sanguigni bolognesi – il cantautore e il poeta/libraio – non fu sempre idilliaco, anzi, divenne presto burrascoso, come rivelato dai velenosi scambi epistolari che la Sony ha portato alla luce nel cofanetto del 2013, ricostruendo la storia di uno dei connubi tra canzone e letteratura più importanti della musica italiana. Un rapporto difficile, tra due persone molto distanti, benché fortemente attratte l’una dall’altra: popolare Dalla, con il suo approccio istintivo e stradaiolo; fieramente intellettuale Roversi, con il suo elegante e caustico versificare, isolato però in una torre eburnea d’incomunicabilità. Ma è stata proprio la fusione di questi due mondi a generare tre opere in grado di rivoluzionare la canzone italiana. Scardinando la formula tradizionale strofe-ritornelli e rimpiazzandola con un peculiare flusso di musica e poesia, indubbiamente sperimentale ma mai velleitario o fine a se stesso, anzi spesso gradevole, grazie al talento melodico di Dalla e ad arrangiamenti calibrati e fantasiosi al tempo stesso. Ed è anche per questo che "i dischi di Dalla-Roversi in fondo sono in tutto e per tutto ancora opere per la massa, ma per una massa intelligente e dotata di senso critico", come sostiene Fabio Zuffanti su Rolling Stone, ipotizzando perfino che si tratti del vertice assoluto del repertorio del cantautore bolognese (ma qui è difficile arrivare a seguirlo, visti i tre capolavori che sono seguiti).
A cinquant’anni dal primo capitolo di quello storico sodalizio, cerchiamo di ricostruire attraverso versi, suoni e testimonianze un esperimento unico – e assolutamente irripetibile – che ha saputo raccontare l’Italia dell’epoca restando sinistramente attuale e profetico. Anche dopo mezzo secolo di storia.
Il giorno aveva cinque teste (1973)
Non ricordo quale fu la canzone che mi mosse. Fu una chiave che mosse tutto, per cui mi decisi a lavorare con Roversi e lo decisi seriamente. Fu il verso ‘nevica sulla mia mano’
(Lucio Dalla)
Il 20 gennaio del 1973 atterrava sui banchi dei negozi di dischi un 33 giri alieno, fin da quella surreale copertina, affidata all’Up & Down Studio, già all’opera sul primo 45 giri di De André, “Nuvole barocche”. Un disegno naif raffigurante una terra desolata e una città in cui si distinguono alcuni dei principali monumenti mondiali; attorno, due processioni, a destra di uomini e a sinistra di donne, in costumi – attuali e storici – fino ai due soggetti ignudi in primo piano, novelli Adamo ed Eva, in rappresentanza di un utopistico futuro di un’umanità tornata vergine e pura. Quasi un’allegoria rinascimentale, probabilmente ispirata da “L’Amor sacro e l’Amor profano” di Tiziano Vecellio, nonostante lo stile più semplice e schematico. Sulla destra, quella scritta didascalica che si ripeterà anche nel secondo capitolo della trilogia: “Dieci canzoni di Lucio Dalla su testi di Roberto Roversi” (il terzo capitolo è una storia a parte, come spiegheremo in seguito).
Già, ma come si era messa in moto questa officina bolognese, frutto dell’idillio tra due personaggi così apparentemente inconciliabili?
Nell’anno 1972 il trentenne Lucio Dalla, “il primo soulman italiano” scovato da Gino Paoli nelle orchestrine jazz e approdato ai trionfi sanremesi di “4/3/1943” e “Piazza Grande”, attraversa una profonda crisi creativa. Ha già rotto con Paola Pallottino, l’amica, e in seguito storica dell’arte, che aveva scritto il testo di “4/3/1943”. Ed è insoddisfatto anche di “Piazza Grande”, firmata dal duo Bardotti-Baldazzi, che definisce (ingenerosamente) “un tentativo smaccato di ripetere l'operazione Gesù Bambino, un'operazione di bassa lega”. Quei versi, pur memorabili, gli stanno ormai stretti. E non è il successo l’obiettivo che si prefigge. Anzi, ha una paura fottuta di essere associato alle “canzonette” tricolori.
Del resto, è dai tempi di “Lucio dove vai” (1967) che vive una sorta di dissociazione tra il suo vero sé e la sua figura pubblica. Insegue così una “terza via” alla canzone italiana: una terra di mezzo tra il cantautorato ideologico di Pietrangeli, Guccini e Lolli e la musica pop. Insomma, uno stile tutto suo, originale, in grado di raccontare personaggi ed emozioni individuali, ma anche di aprire uno squarcio sulla società, mettendo alla berlina l’arroganza e le contraddizioni del potere.
È il produttore Renzo Cremonini, ex-aiuto regista di Michelangelo Antonioni, a suggerirgli il nome del concittadino bolognese Roberto Roversi, scrittore e libraio, sceneggiatore cinematografico e autore teatrale. Un intellettuale di sinistra (nel senso nobile del termine), che nel 1955 ha fondato la rivista Officina insieme a Pier Paolo Pasolini e Francesco Leonetti e che ora simpatizza per Lotta Continua. Lucio si presenta alla Libreria Palmaverde di Via Castiglione a Bologna chiedendogli dei versi per le sue canzoni. Si invaghisce, in particolare, di un verso, “nevica sulla mia mano” (da “La canzone di Orlando”), il quale, a suo dire, sarà la scintilla per l’intera collaborazione (non a caso, verrà scelto come titolo per lo splendido box-set del 2013 dedicato alla trilogia, che include 4 dischi e un libro illustrato di 200 pagine con foto e manoscritti, in cui i due protagonisti raccontano il loro straordinario incontro).
Roversi è l’uomo giusto al momento giusto: è lui l’autore concettuale e sofisticato in grado di suggellare la metamorfosi artistica auspicata da Dalla. Un’operazione finalizzata, secondo le sue stesse parole, a dare alla canzone una caratteristica “civile”: non solo legata agli schemi, alla formula cuore-amore.
Appena conclusa l’incisione del disco, Lucio si chiude in casa e, alle 4 di notte, scrive una lettera all’amico che trabocca entusiasmo e riconoscenza: “Mi hai insegnato tutto: ad avere rispetto e paura nello stesso tempo e amore per il mio lavoro - possiamo conoscerne ora il contenuto - amore perché non venderei questo disco neanche per la vita di mia madre (forse ho esagerato), perché lo proteggerò anche a costo della mia vita, perché mi sento di cantarlo e di suonarlo davanti ai re (se ce ne sono ancora) e davanti agli straccioni, ai sindaci, ai matti e ai santi. (...) Ho fatto, suonato, pensato e cantato più musica in questi quindici giorni che in tutta la mia vita. Tu dovevi esserci. Ogni nota ogni accordo ogni inflessione della voce la verificavo tra me e me, ma soprattutto tenendo presente quello che tu avresti voluto, preferito o scelto e cantato. Il buffo è che avevo la sensazione che avresti cantato benissimo anche tu. (...) Non vedevo il momento che arrivasse la mattina per cominciare a lavorare e cantare a tradurti e a tradurre in suoni sentimenti grida e anche battiti ritmici di cuore le tue idee”.
Ma anche il lavoro di Roversi era maniacalmente meticoloso: utilizzava infatti per i testi musicali lo stesso modo cui era abituato per quelli poetici, operando cioè una continua riscrittura delle sue stesse parole, come si evince dai vari manoscritti inclusi nel cofanetto succitato. E una volta compiuti, i testi erano assolutamente intoccabili. “A volte ero costretto a tornare a Roma perché nel cantato non si coglieva il punto interrogativo che chiudeva una frase. Io gli spiegavo che era molto difficile: non si può cantare ‘ma mi vuoi beeeneee’ facendo sentire che è una domanda, come fai? Però Roversi è stato la mia guida, la mia formazione, il mio guru (anche se a lui questa parola dà fastidio)”, racconterà Dalla. Con la sua attitudine teatrale e la sua poliedricità interpretativa, del resto, il cantante di “4 marzo 1943” era il veicolo perfetto per trasformare quei versi in una “canzone totale”, come la definirà Giovanna Marini sottolineando che Dalla “non è mai in cerca di virtuosismi gratuiti, di stravaganze non necessarie. La sua musica è melodica e consonante per quanto riguarda l’impianto strumentale, dissonante e dissacrante nell’uso della voce”.
Dieci canzoni, dunque. Tutte composte assieme a Roversi, ad eccezione della strumentale (e geniale) “Pezzo zero”, spiazzante miscuglio di fonemi in cui le parole, così disaggregate, perdono ogni senso secondo i tradizionali codici linguistici, acquistando però un'istintiva musicalità, quasi a simboleggiare il ritorno a un primitivismo che scardini l'umanità dalle convenzioni.
Hanno invece un senso preciso e netto le parole dell’iniziale “Un’ auto targata TO”, che i due sodali, in uno slancio di ottimismo, proposero finanche a Sanremo, finendo inevitabilmente respinti. Del resto, lo stesso Dalla la definirà “la canzone più sbilanciata dal punto di vista dell’equilibrio lingua/ideologia”. È un tagliente atto d’accusa contro “l’Italia sventrata dalle ruspe che l’hanno divorata”. Archi e rintocchi di campane a celare uno spicchio agro d'immigrazione (da Scilla a Torino) e di speculazione edilizia, nell’illusorio eldorado del Nord:
Questo luogo del cielo è chiamato Torino
Lunghi e grandi viali, splendidi monti di neve
Sul cristallo verde del Valentino
Illuminate tutte le sponde del Po
Mattoni su mattoni
Sono condannati i terroni
A costruire per gli altri
Appartamenti da cinquanta milioni
Dalla e Roversi narrano un'umanità alienata nei meccanismi automatizzati dell'industria ("L'operaio Gerolamo") o nei rituali ripetitivi della quotidianità ("Alla fermata del tram"). Il protagonista della prima – composta, secondo la testimonianza di Dalla, “con tutto il Meridione che mi alitava addosso” - è un simbolo, di tutti gli operai, di tutti i lavoratori costretti a svolgere attività ossessive e disumanizzanti, di tutti gli immigrati giunti a Torino con valigia di cartone al seguito. Gerolamo è un semplice numero, imprigionato negli ingranaggi spietati della catena di montaggio e destinato a essere sotterrato e rimpiazzato in un ciclo di produzione che non potrà mai avere fine, metaforicamente rappresentato dai continui, spettrali ululati di Moog:
S’alza il sole sui monti
E sono ferito a morte, ferito al petto e condannato
Povero operaio, povero pastore, povero contadino
S’alza il sole sui monti
E un altro al posto mio è già arrivato
Ma non è solo il ritmo inesorabile del lavoro a schiacciare l’uomo. Anche in una routine apparentemente tranquilla, può celarsi l’ombra di un’oppressione. “A una fermata del tram” è uno straordinario apologo sulle dittature. Come quella che opprimeva all’epoca Berlino Est, dove i dissidenti, temendo di essere spiati, si parlavano alle fermate dei tram per essere coperti dal rumore di ferraglia ed evitare che le loro conversazioni potessero essere registrate. Un dialogo disperato e allucinato su sfondo invernale, che svela l’inganno di una vita “normale” in cui le stagioni si susseguono con il lavoro, l’amore, le cose di sempre, fino a quando una mattina i tram non passano più e una mano di ferro ci tocca sulla spalla (“Sembra che tutto proceda a dovere/ Che dietro a ogni autunno vada in orario l'inverno… Ma è solo perché camminano i tram… Quando è probabile ad ogni momento/ Una tempesta di vento/ O che una mano di ferro ci tocchi la spalla”).
Può essere un dettaglio, dunque, ad aprire orizzonti imprevedibili. Come ai due innamorati catturati un’afosa giornata d’agosto ne “Il grippaggio”, piccola suite in cinque movimenti che racconta come basti esser lasciati a piedi dall’auto “ingrippata” e dover abbandonare i tranquilli binari dell’autostrada per dover fare i conti con la desolazione che vi è tutt’intorno, con la folla di “zombie” lasciati ai margini della società occidentale: un’umanità diseredata e sotterranea, che cerca rifugio in baracche fatiscenti:
La macchina è ingrippata
Io e te camminiamo
tenendoci per mano
a cercare un meccanico
là verso il paese nascosto
da un grande verde di bosco
Sciabola fitta l’aria d’agosto
su questa strada abbandonata
Ma non è abbandonata
Sull’argine in fila
diecimila baracche
e caverne di fuggitivi
Occhi di ragazze e mani
di uomini vivi
escono dalla terra, con crani,
fucili. Una dura giornata
Tra scarti ritmici violenti e cambi imprevedibili tra acustico ed elettrico, emergono temi destinati a diventare centrali nel canzoniere di Dalla, come la tensione aperta del sentimento, quasi un vento d'avventura a bruciare la memoria in quella “Canzone di Orlando” che oltre al verso galeotto da cui nacque tutto (“nevica sulla mia mano”), contiene riferimenti alle mirabili gesta medievali del cavaliere di Ariosto ma soprattutto all’Orlando di Virginia Woolf, il quale muore pronunciando le parole “È l’oca! È l’oca selvatica!”, che rimanderebbero all’Anser Anser del testo di Roversi.
Nevica sulla mia mano
e il mio cavallo è ormai lontano
notte e nebbia negli occhi
il ferro sui tuoi ginocchi
arco e frecce non scocchi
Anser Anser che va
Ricorrente allo stesso modo, in Dalla, è il raffronto tra passato e presente. In questo caso, con il tributo di sangue innocente che si porta dietro, descritto nel rockabilly mutante di “Passato e presente”:
Il passato di tanti anni fa
alla fine del quarantanove
è il massacro del feudo Fragalà
sulle terre del Barone Breviglieri
Tre braccianti stroncati
col fuoco di moschetto
in difesa della proprietà (…)
Il presente è un aratro che
scava dentro al cuore in fretta (…)
Il presente è stanze strette è autostrade infinite
Il presente è una macchia di sangue da 50 Km
Il presente è un fiume di sole con giovani vite
La Storia in primo piano, dunque, con il chiaro riferimento alla strage di Melissa del 1949, in cui, durante l’occupazione di alcune terre incolte nella contrada Fragalà, trovarono la morte tre braccianti. Ma anche il ritratto feroce del passaggio dall’età contadina a quella urbana e operaia descritta nella seconda parte del testo, riferita al presente, in cui il figlio di ex-braccianti si ritrova in fabbrica ad attendere che il suono della sirena segni la fine della giornata lavorativa. Così come il testo, anche la musica è divisa in due parti, con il tema del passato di marca rhythm'n'blues (genere vicino a Dalla e alla sua esperienza con Chet Baker) e il presente, introdotto da un prologo progressive, che si tramuta in swing fino all’ultima strofa, quando solo due accordi di piano assecondano la descrizione desolata del mondo attuale, fino alla chiusura straziante: un susseguirsi di lamenti e grida a simboleggiare, ancora una volta, il senso di prigionia e oppressione.
Dalla non si limita a musicare le liriche di Roversi, ma se ne fa strumento di comunicazione, autonoma sostanza creativa. Improvvisandosi perfino speaker, per interrompere le trasmissioni durante la notte di Natale, annunciando il rinvenimento di un cadavere. “È lì” è una sorta di straniante spoken word ante-litteram che tratteggia con toni ironici una fiaba noir (“Erano vent'anni che in questo nostro bel mondo, nostro, non moriva un uomo, e non veniva trovato”), finché lo struggente accompagnamento musicale introdotto nella seconda strofa marca un salto brusco dall’intervista al testimone fino alla canzone, svelando, tra dolci rintocchi pianistici, il prodigio di quel cadavere “coperto di rami, coperto di sassi, coperto di terra”, la cui mano “viveva”, “splendeva” e “cantava”, stringendo “un calcio infangato”. Quasi come fosse il Piero sepolto tra i papaveri rossi di De André.
Ma anche in un contesto così oscuro e apocalittico filtrano squarci di luce e speranza. Quantomeno nelle divagazioni oniriche e fiabesche de “Il Coyote” e de “La Bambina”. La prima, con la sua rivalsa della fantasia sulla ragione e sulla morale comune (“se la stella con la coda tante storie raccontava, la fantasia del coyote col suo fuoco la bruciava”); la seconda, griffata da un assolo di sax di Lucio, con il ritorno all’innocenza e a un anelito naturalista come unico antidoto ai ritmi disumanizzanti della società industriale (“La bambina la puoi incontrare/ Alle 12 e mezzo in mezzo alla strada/ Quando l'afa ti fa star male/ E la caligine fa l'aria opaca”).
Solcato da geniali intuizioni liriche e da sprazzi di prog sinfonico, tra inserti di synth e spiazzanti cambi di tempo e di ritmo, “Il giorno aveva cinque teste” ci appare oggi un po’ acerbo rispetto ai successivi due capitoli. Ma è la prova generale che getta le fondamenta per questa opera in tre atti incredibilmente ambiziosa, destinata a ribaltare le carte alla canzone italiana, raccontando l’alienazione di un paese post-contadino, industrializzato ma già in crisi profonda.
Anidride solforosa (1975)
Mi sono accorto della sua capacità eccezionale di cantare anche, come si diceva tra noi, l’elenco del telefono: infatti ha cantato la quotazione della Borsa Valori di Milano che io avevo solo un poco manipolata
(Roberto Roversi)
Nonostante i suoi tratti ermetici e sperimentali, “Il giorno aveva cinque teste” ottiene un buon riscontro di pubblico, quantomeno nei numerosi concerti tenuti in tutta Italia. Poi, però tutto sembra precipitare.
Dalla racconta: “Mi ammalai (di una grave ulcera duodenale, ndr), stavo per morire. Mi avevano dato per spacciato. Uscire fuori dalla malattia fu difficile. Avendo incontrato la morte direttamente, sentivo il bisogno di rinascere e di guarire in tanti sensi. Misi quindi in discussione tutto. Plagiato da parte della Rca, ma soprattutto desideroso di cambiare ambiente, decisi di cominciare tutto da capo un'altra volta. Io e Roversi avemmo uno scontro violentissimo nella sua libreria. Ebbi uno scontro gravissimo anche con Cremonini. In pratica litigammo. Mi sentii abbandonato, tradito”.
Ma mentre inizia a lavorare a un nuovo album, il cantautore bolognese fa una scoperta drammatica: “Non potevo cantare nessun altro testo”. Così, Lucio viene di nuovo a patti con Roversi: “Mi diede un suo testo e da lì ricominciò tutta l'operazione”.
Roversi, però, non ha nemmeno un mangiacassette. Dalla, allora, se lo porta con sé in macchina, in giro per i colli bolognesi ad ascoltare i suoi lavori dalla sua autoradio. E un po’ come Nuvolari e il ramarro, anche l’intesa tra i due rinasce miracolosamente. “Ho capito che anche con una sola canzone si può infliggere al mondo una coltellata nel fianco - rivela Dalla - Non me la sento di prendere in giro la gente con motivetti facili senza niente dentro. Il cantante che gira inconcludente sul piatto di un giradischi e basta è un personaggio anacronistico, destinato a scomparire. Ma posso mettere in musica anche l'elenco del telefono, se lo scrive Roversi”. Che lo prenderà in parola e gli farà cantare le quotazioni della Borsa Valori di Milano.
Il secondo album targato Dalla-Roversi si doveva intitolare “L’anno è un fuoco”. Ed è lo stesso poeta bolognese a spiegare il perché nel dattiloscritto che presenta l’opera: “Esso sta a significare l’ossessione di questo tempo, i vari inganni, magari una residua tenerezza che va scovata; ma soprattutto la sua inarrestabile violenza. Così, proprio il modo e il suono della violenza – la violenza che si vede e si conta però non si tocca, e la violenza nascosta che taglia - è il tema che unisce, lega, trattiene insieme queste canzoni. […] La violenza del mondo non è soltanto la guerra, l’urlo delle città, il coltello pronto nella mano, la sagoma dell’ombra; ma è la nostra violenza, la nostra giovinezza, la nostra solitudine, l’incertezza, l’abitudine al sospetto, il nostro cuore di mercanti o di piccoli e frastornati (disperati) giocatori”.
La violenza, dunque, percepita e implicita, come comun denominatore di una nuova decina di canzoni in cui immedesimarsi con piena convinzione, perché – scrive ancora Roversi – “la qualità grigia del tempo, che è ruggine di ferro, ci impone di essere fino in fondo sinceri in ogni risvolto, quindi anche cantando; e di guardare e guardarci dentro gli occhi”.
Poi, però, si decide per un cambio di titolo, scegliendo quello di un brano che fa ripiombare inesorabilmente nella dimensione più alienante della società industriale. Surrogato nocivo dell'aria da respirare, l’Anidride Solforosa simboleggia l'annebbiamento dell'individuo, la nube tossica che fa “vedere a malapena” le città, in un mondo caliginoso, sempre più inquinato e robotizzato, in cui “sapremo quante volte fare l'amore e quante volte i fiumi in Italia traboccano”. Fin dalla splendida e quasi operistica title track iniziale – storia di una ragazza che lascia la provincia per ritrovarsi nello smog di una grande città - la coppia si mostra – a dispetto delle liti - ancor più affiatata: la scrittura di Roversi si cala meglio nel formato-canzone e Dalla canta con debordante verve, al punto da fare persino il verso a un’eccentrica donna emiliana su un fondale metallico di proto-computer, prima di sciogliersi nella struggente melodia del ritornello:
Ieri la città si vedeva a malapena
Oggi la città si vede tutta intera
Ieri il mare si scuoteva da fare pena
Oggi il mare ha la barba tutta nera
Gli elaboratori hanno per sorte
Di aiutare l'uomo a vincere la morte
Infatti se il vento dell'inquinamento
Tende a salire, l'aiutano a morire
E aiutano anche l'amministrazione
Patrimonio forestale in distruzione
Gli scarti dai toni operistici dettati dal piano e quelli più futuristici suggeriti dalle tastiere riflettono la contraddizione del brano. In generale, comunque, il lato musicale dell’operazione si fa più consistente, tra cori stranianti, vocalizzi strozzati, archi impazziti, cambi improvvisi di ritmo e orchestrazioni para-jazz, che si susseguono in una narrazione incalzante, senza pause, come una sorta di ipotetico musical sull’evo industriale. E nel mirino finiscono sempre lo strapotere economico dei colossi dell’industria e tutte le sopraffazioni che compromettono la naturale genuinità dell’uomo e la sua predisposizione a relazionarsi con gli altri.
Ma non c’è spazio per una bolsa retorica ideologica: il lessico è sempre ironico, dissacrante, fino a tramutarsi in nonsense nello sproloquio dei titoli azionari di “La borsa valori”, affidato all’irresistibile scat di Lucio e ispirato da una simile composizione dell’anarchico Franco Nebbia, “Borsa cha cha cha” (con tanto di base funk e citazioni dell'orchestra d'archi per “Raindrops Keeps Falling On My Head” di Burt Bacharach e “Singin' In The Rain”):
Vendo le Bastogi
compro Comit o Ras
vendo Richard Ginori
compro Buton e Sip
Coge do via in un amen
compro Sifa e Fisac
butto la Snia Viscosa
prendo Smeriglio e CIR
Se Liquigas o Enel
Dalmine Falck IFIL
stamattina non crescono…
capsula dottor Knapp
L’ermetismo del primo capitolo torna ad affacciarsi tra i versi della maestosa “Ulisse coperto di sale” (il brano che costrinse Dalla a tornare a Roma per rimissare il pezzo a causa della banale imprecisione nel finale segnalata da Roversi). La rievocazione del mito guerriero dell’Odissea è lo spunto per una riflessione sul tema dell’eterno ritorno, in cui però “tutto è scomparso, tutto cambiato”:
Una mano di calce bianca
Sulle pareti della mia stanza
Cielo giallo di garbino
Occhio caldo di bambino
Tiro il sole fin dentro la stanza
Carro di fuoco che corre sul cuore
Perché ogni giorno è sabbia e furore
E sempre uguali non sono le ore
Un testo che – scandito da solenni arrangiamenti orchestrali e secchi cambi di ritmo - lascia un senso di desolazione e amarezza, così come “Un mazzo di fiori”, il brano sulla triste vicenda di cronaca di Emilia Villesi che, persa tra “la miseria e la fame più nera”, decise di farla finita gettandosi nel Po, lasciando la bicicletta per terra e stringendo i fiori nel pugno. Un’altra storia minimale narrata con rispetto e commozione, su un tappeto musicale asciutto, finemente ricamato dai fiati.
Alla questione minorile sono dedicati invece due brani: “Mela di scarto” e “Carmen Colon”. Da un lato, dunque, il dramma delle carceri minorili che, lungi dal favorire una redenzione, aggravano il curriculum di un giovane criminale, recluso all’istituto Ferrante Aporti di Torino (“Cantina senza vino, Siberia del destino”) dove deve pagare il “furto di gomme e di motociclette/ perché tutti hanno fretta di scappare/ da questo posto che non cambia mai/ e di fuggire/ da questa tampa che ci fa morire”. Un brano che spazia dal jazz-rock al folk, in cui l’interpretazione alienante di Dalla è assecondata dal coro femminile della Baba Yaga.
Dall’altro, c’è il terribile caso di cronaca di Churchville del 1971, che coinvolge una bambina di 10 anni, vittima del cosiddetto “Alphabet killer”, come i media americani ribattezzarono l’assassino seriale che sceglieva vittime il cui cognome presentava la stessa iniziale del nome. La suadente musicalità country degli arrangiamenti e l’intenso vibrato di Dalla accompagnano la straziante descrizione degli ultimi istanti di vita della ragazzina, con la martellante anafora “Carmen Colon” ripetuta in modo ossessivo, restituendo tutto il senso del dolore causato da una morte così precoce e violenta. Roversi immagina la piccola gitana abbandonata come un rifiuto sul ciglio della strada (il cadavere fu ritrovato in un canale vicino la Interstate 490) nell’indifferenza delle automobili che sfrecciano verso il mare, salvo poi essere usata dai media per scatenare un’ondata di commozione collettiva:
Oh Carmen Colon
questa ragazzina e la morte
commuovono la tivù.
Grandi i titoli sopra i giornali
Carmen Colon
è la vittima ventesima
fra i bidoni viola dell’agosto
il suo corpo sotto un lenzuolo è nascosto
Carmen Colon
nessuno per lei si è fermato
né un aiuto o una mano le hanno dato
filavano via verso il mare
Roversi, che dalla cronaca traeva spesso ispirazione per le sue poesie, fu addirittura convocato a Roma dall’Interpol per un interrogatorio sui fatti, poiché alcuni dettagli delle descrizioni presenti nel testo sarebbero stati nascosti dagli investigatori al pubblico. Ma il poeta chiarì l’enigma mostrando agli inquirenti i ritagli di giornale sui quali si era basato per scrivere il testo.
Nel disco si affastellano ricordi d'infanzia, dagli amici quasi irriconoscibili (“Non era più lui”) alle nostalgie irrisolte, come nella struggente “Tu parlavi una lingua meravigliosa”, più lieve e metricamente composta rispetto agli altri episodi, con versi lunghi che offrono a Dalla l’assist per giocare con più libertà sulla melodia fino ad arrivare alla creazione di una delicata ballad (“Vorrei chiamarla, dirle, le volpi con le code incendiate/ Non parlano, ma gridano pazze fra gli alberi per il dolore/ Sediamoci per terra oppure là, sopra panchine imbiancate/ Sediamoci sopra un letto di foglie secche e ascoltiamo il nostro cuore”).
E se “Merlino e l’ombra” gioca ancora con le cromie pastello della fiaba per un’altra storia appartata e intimista, il rompicapo della conclusiva “Le parole incrociate” trasforma il gioco enigmistico in una galoppata a ritroso nella storia, arroventata da una fisarmonica, dal ritmo tambureggiante e dall’interpretazione frenetica di Dalla. Nel manoscritto della prima stesura, Roversi inserisce le coordinate orizzontali e verticali come nei cruciverba prima di ogni strofa. Questo elemento si perde nella versione definitiva pubblicata nell’album, ma resta il senso del gioco di parole che si incrociano - quelle di Roversi e quelle della storia italiana, contrassegnata da sangue, stragi e morti, dai massacri di Bava Beccaris alle stragi di Stato degli anni 70:
Chi era Bava il beccaio? Bombardava Milano
Correva il '98, oggi è un anno lontano
I cavalli alla Scala, gli alpini in piazza Dom
Attenzione, cavalleria piemontese, gli alpini di Val di Non
Chi era Humbert le Roi? Comandava da Roma
Folgore della guerra, con al vento la chioma
La fanteria stava a Mantova, i bersaglieri sul Po
Attenzione, fanteria calabrese, i bersaglieri di Rho (…)
Sei le colonne in fila, il gioco è terminato
Nel bel prato d'Italia c'è odore di bruciato
Un filo rosso lega tutte, tutte queste vicende
Attenzione, dentro ci siamo tutti, è il potere che offende
Una canzone passata quasi sottotraccia rispetto ad altre della trilogia, ma in cui si annida la pura vocazione rivoluzionaria che animava l’intero progetto. Una canzone forse fin troppo ambiziosa nel suo volo anarchico attraverso i secoli della storia italiana, tenuti insieme dal “filo rosso” dell’oppressione del potere, che fosse quello monarchico o quello attuale travestito da democrazia.
Nonostante le perplessità iniziali di Lucio sul progetto (“Erano dei testi già fatti ed è un’operazione che io non ho mai amato fino in fondo, anche se ci sono delle cose molto belle”), “Anidride solforosa” supera ogni difficoltà di gestazione imponendosi come un traguardo ancor più maturo e avanzato del sodalizio Dalla-Roversi. In attesa di un epilogo che sarebbe stato, al tempo stesso, esaltante e lacerante, al punto da portare a una rottura irreversibile della collaborazione.
Automobili (1976)
Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi
simili a serpenti dall’alito esplosivo…
un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia
è più bello della Vittoria di Samotracia
(Filippo Tommaso Marinetti, Manifesto del futurismo, su “Le Figaro”, 20 febbraio 1909)
Stavolta la lite tra i due protagonisti si consuma fino in fondo, e in modo irreparabile. Tutta colpa di una banale questione di censura, che si frappone tra lo spettacolo teatrale “Il futuro dell'automobile” (trasmesso anche dalla Rai in sei puntate) e la sua successiva trasposizione discografica, “Automobili”, epurata sia di parte del titolo sia delle cinque canzoni più politiche (“I muri del '21”, “Statale adriatica Km 220”, “La signora di Bologna”, “Rodeo” e “Assemblaggio”), nonché di due strofe incluse nel brano “Intervista all'Avvocato”.
Dalla si spende fino in fondo per salvare l’integrità del progetto, ma di fronte all’intransigenza della Rca è costretto a capitolare. Roversi non gliela perdona. Rifiuta di far apparire il suo nome sul disco, celandosi sdegnosamente dietro lo pseudonimo di Norisso (conte veronese del Settecento, socio dell’Accademia dell’Arcadia a Roma). Si sente tradito dal compagno di trincea, con il quale intrattiene anche un velenoso carteggio, emerso di recente dai cassetti degli Archivi Roversi: “I testi del sottoscritto per lo più al cantante erano graditi come olio di ricino – si sfoga il poeta - Mai li ha imparati a mente. Li ha sempre storpiati un poco, con la piccola rabbia dell'indifferenza (…) Tutto riusciva approssimativo e smozzicato. Senza amore. (...) Tutte le canzoni composte le ha poi cantate come un dovere doloroso. Senza felicità, senza un piacere autentico, senza condividerne la verità”. Roversi accuserà poi Dalla di essersi mercificato a vantaggio di un pubblico “indifferente a ciò che ascolta” e che riempie gli stadi per tutti i motivi possibili “tranne che per pensare o per mettere in discussione l'ordine esistente”.
Dalla è amareggiato. Gli replica recapitandogli una fotografia di un suo concerto con sul retro vergato il seguente messaggio: “La mia voglia di vederti è pari alla rabbia che mi prende ogni volta che ti leggo come articolante, saggista, interprete, traduttore, poeta. Vorrei che tu assistessi ai concerti dei quali tu parli e scrivi. Vorrei che una volta tanto la tua paura di vedere fosse sconfitta dal tuo desiderio di esserci”.
È l’emergere del dissidio naturale tra il rigore dell’intellettuale marxista, chiuso nella sua torre d’avorio, e la vocazione popolare del cantante, deciso a mischiarsi tra la gente per condividerne umori e passioni. Un'incompatibilità che solo l’euforia per la straordinaria qualità artistica del progetto era riuscita ad arginare fino a quel momento.
Quando esce “Automobili”, insomma, il sodalizio Dalla-Roversi è già in frantumi. Eppure, da questa travagliata gestazione scaturisce quello che è riconosciuto universalmente come il capitolo più interessante e omogeneo della trilogia, sia dal punto di vista testuale sia da quello degli arrangiamenti, interamente curati da Dalla con il contributo, per la prima volta, di 4 musicisti che, anni dopo, daranno vita agli Stadio (Giovanni Pezzoli, Marco Nanni, Ricky Portera e Gaetano Curreri). È anche quello che contiene i brani più lunghi, vere e proprie suite, che portano a compimento le intuizioni più brillanti di marca progressive, jazz e folk contenute nei primi due capitoli.
A ispirare profondamente i due autori è proprio il tema forte del disco: una sorta di concept-album sull’automobile, vista come simbolo di una modernità senza freni, che avanza modificando il paesaggio attraverso il bitume, le autostrade, i viadotti, decretando la morte della civiltà contadina. Un'ottica in cui anche la creazione di un eroe-campione come Nuvolari e del mito della Mille Miglia aveva finalità di propaganda fideistica post-bellica a favore di quel modello industriale.
Dalla – a dispetto delle accuse di Roversi – è fin troppo convinto della natura politica del progetto, che presenta con parole che oggi possono suonare incredibilmente ideologizzate e oltranziste: “Senza l'automobile non avremmo avuto il fenomeno delle grandi masse che si muovono giornalmente verso la grande città dall'hinterland che le gravita attorno, non avremmo avuto l'accentramento della produttività e dei servizi sociali ma un decentramento che avrebbe permesso agli abitanti dei piccoli centri di sentirsi integrati nella vita della nazione allo stesso modo di chi vive nelle metropoli”. Da “mezzo di evasione dalla routine quotidiana”, secondo Dalla, l’automobile è divenuta “un tramite per esercitare la propria violenza individuale, per instaurare il proprio isolamento, per evitare il contatto umano non desiderato”.
Una demonizzazione in piena regola, al cui confronto suonano perfino più sfumate le parole dell’ideologo Roversi: “L'automobile non rappresenta che un pretesto per affrontare ben altre situazioni emblematiche. Alla base c’è un problema che mi sta molto a cuore: credo sia urgente ridisegnare la mappa dell'uomo, dei suoi sentimenti, al fine di ricollocarlo proprio nel momento attuale, in cui la crisi del modello capitalistico, di cui l'auto è simbolo e matrice di sviluppo, ci pone nella necessità di recuperare i nostri più profondi valori, violentati e spinti a forza nel dimenticatoio: la riscoperta dei sentimenti umani, della tenerezza”. Un approccio che può ricordare il De Gregori di due anni dopo (“La dolcezza cui tutti hanno diritto”, da “La campana”) e che per certi versi stride con il furore ideologico del progetto. Ma è proprio in queste contraddizioni, in questa complessa ibridazione di politica, sentimenti e vocazione popolare che “Automobili” trova la sua più autentica ragion d’essere, oltre che in un formidabile pastiche musicale in grado di oscillare con disinvoltura dall’avanguardia al pop.
Auto come simbolo di modernità, dunque, ma anche come mitologia, futuristica esaltazione di potenza e velocità. Un tema al quale, all’interno del disco, è dedicato una sorta di “poemetto epico” strutturato in tre capitoli: “Mille Miglia, Prima”, “Nuvolari”, “Mille miglia del ’47”. Nell’incisione finale, tuttavia, il primo e il terzo brano vennero accorpati, compromettendo così la consequenzialità voluta da Roversi, che intendeva partire dalla corsa del 1930 segnata dalla prima vittoria di Nuvolari per poi mettere a fuoco la figura di quest'ultimo nel brano omonimo e infine chiudere il cerchio con la leggendaria Mille Miglia del ’47. Nella nostra analisi, cercheremo allora di ripristinare la sequenza originaria, costruita in una sorta di crescendo che purtroppo su disco si è poi perduto.
Introdotta dalle percussioni "tarantellate" di Tony Esposito, la prima parte della suite "Mille miglia" si addentra nelle rovine dell'Italia contadina devastata dalla Grande Guerra, che vive col "cuore divorato" le imprese degli assi delle corse. In un'epopea di "spruzzi d'olio e sbruffi di terra", il "mantovano volante" domina con la sua vettura. Un brano dalla struttura circolare, quasi a voler ricalcare le caratteristiche del tracciato (a forma di 8) che collegava Brescia con Roma, coprendo uno spazio di 1.600 km circa. L’intensa descrizione della gara si snoda in dodici strofe di cui le prime due e le ultime due fungono rispettivamente da prologo ed esodo - e sono tra le più folgoranti dell’intera trilogia:
Partivano di notte, arrivavano di sera
Lungo mille chilometri di una fantastica carrera
Quando facevano ritorno
Il cielo scendeva basso
Colpiva la terra al cuore come un sasso
Poi il sole si spaccava contro il ferro dei gasometri
E dall'alto lasciava una riga rossa di sangue
Sulla strada per chilometri, mentre sul prato italiano
C'era la morte secca che falciava il grano (…)
Partono a notte fonda coi fari accesi sull'onda
E i pioppi in Lombardia te li strappano via
Sbuffi di polvere, zaffate d'olio
Puzzo di benzina per le strade di un'Italia contadina
L’immagine inquietante della morte “secca”, improvvisa, rappresentata attraverso la figura del mietitore che falcia il grano, allude sia al sangue versato dai braccianti agricoli nelle rivolte dei primi decenni del Novecento, sia al sacrificio dei piloti, disposti a rischiare la vita in pista. Agli altri versi è invece è affidato il compito di descrivere, come in una sorta di concitata radiocronaca, le varie fasi della corsa, che si chiude con il trionfo del “mantovano volante”. Con il momento centrale catturato da un’immagine di grande suggestione: “La polvere alza un lenzuolo dentro il vento/ E copre questo scontro furibondo” (cfr. Matteo Totaro - “Un dialogo tra autori: Roberto Roversi e Lucio Dalla” per “Automobili”, 1976).
Un testo che è un grande affresco impressionistico e che, nelle intenzioni dell’autore, prelude all’irresistibile ode dedicata al trionfatore della corsa:
Nuvolari è basso di statura, Nuvolari è al di sotto del normale
Nuvolari ha cinquanta chili d'ossa Nuvolari ha un corpo eccezionale
Nuvolari ha le mani come artigli
Nuvolari ha un talismano contro i mali
Il suo sguardo è di un falco per i figli
I suoi muscoli sono muscoli eccezionali!
L’eroe della Mille Miglia non è dunque un guerriero della mitologia greca, ma un uomo in cui Dalla vede quasi la proiezione dei suoi stessi limiti fisici (è "basso di statura", "al di sotto del normale", "ha cinquanta chili d'ossa"). Limiti superati, però, da una forza sovrannaturale, perché "c'è sempre un numero in più nel destino quando corre Nuvolari" e così anche quando la sua monoposto esce di strada, in un inferno di "acqua, grandine e vento", lui "rinasce come rinasce il ramarro/ batte Varzi, Campari/ Borzacchini e Fagioli/ Brilli-Peri e Ascari".
Nuvolari, per Dalla, è un eroe sospeso tra passato e futuro: “Era uno che con la fantasia riusciva in ogni corsa a inventare qualcosa di nuovo – racconta il cantautore in un’intervista del 1976 - Come aggiustare una macchina, come uscire illeso da un pauroso incidente, come vincere tre corse consecutive in una giornata. Quando c'era Nuvolari, il successo era assicurato. Era un campione puro, un eroe per vocazione… Forse Nuvolari non sapeva di essere strumentalizzato, nel 1930 la macchina era una sconosciuta e lui era l'eroe buono che lottava per il progresso”. Al tempo stesso, però, Nuvolari era inconsapevolmente portatore di una minaccia:
Gli uccelli nell'aria perdono l'ali quando passa Nuvolari!
Quando corre Nuvolari mette paura
Perché il motore è feroce mentre taglia ruggendo la pianura
Ma nel complesso, la figura di Tazio Nuvolari affascina i suoi autori, come mito genuino di un’Italia popolare che per lui “arriva in mucchio e si stende sui prati”, aspettando il suo arrivo “per ore e ore” e poi “salta in piedi e lo saluta con la mano, gli grida parole d'amore”. Notevole anche la veste musicale del brano: uno swing leggero con coretti femminili retrò anni 30-40 in stile Trio Lescano, su cui Dalla imbastisce una delle sue interpretazioni più mimetiche e istrioniche.
Nuvolari è dunque una sfida alle possibilità umane, e anche alla morte. In seguito a un drammatico incidente, i giornali lo diedero per morto e in quell’occasione il mantovano pronunciò la celebre battuta: “Quando mi danno cadavere, aspettate sempre tre giorni prima di piangere. Non si sa mai”. Il pilota più temerario, che aveva rischiato la vita a ogni corsa e avuto innumerevoli incidenti, morirà a 61 anni nel proprio letto. Varzi, Campari, Borzacchini, Materassi, Brilli-Peri, Arcangeli e Bordino erano tutti morti in gara.
A seguire dunque, secondo la sequenza originaria, il climax finale della “Mille Miglia del ‘47”, dove anche il linguaggio si fa più teso e drammatico:
Una corsa epica fu sul cuore verde di Gesù
Sul suo costato sporco d'amore la Mille Miglia del '47
Corsa spaccacuore e dura come non mai
Vera crocefissione esecuzione d'orchestra
Un'avventura di pioggia e di paura autentico massacro
Antica festa, macerie e case una vera tempesta
E a dispetto dell’euforico ritornello ("Nuvola, Nuvolari, sei una nuvola nera!"), illuminato da un charleston alla Bixio, anche la descrizione della gara si fa più cupa, affondando la lama nelle ferite di un’Italia dal “cuore divorato”:
Nuvola Nuvolari sei una nuvola nera
Dentro a un cielo sereno sfascio di primavera
A cielo aperto quando sbatti il martello sulla sorte
Ma se cerchi la morte la tua morte non verrà
Mantovano volante, vetro di biacca e di cuore
Sulla CisItalia millecento se ne frega anche della vita
Ometto di Keaton che corre per la vittoria
Sbattevano gli alberi mentre la corsa passava
L'Italia aveva il cuore divorato quando i campioni per i rettifili
Erano un baleno e si vedevano appena
E mentre “Biondetti sporco come un cane” taglia per primo il traguardo, la lente di Roversi torna a ingigantire ancora una volta “le macerie della guerra” della “Italia occhi divorati in terra”, chiudendo nel modo più epico questa straordinaria epopea automobilistica in tre atti.
Da sottolineare anche quella “antropomorfizzazione” delle vetture compiuta da Roversi attraverso verbi e aggettivi appartenenti alla sfera dell’umano piuttosto che a quella del “meccanico”. In “Mille Miglia – prima” leggiamo “urlano le grosse cilindrate”, in “Nuvolari” “il motore è feroce”, in “Mille Miglia del ’47” “l’urlo dei motori”, oltre ai versi in cui l’autore si serve dell’immagine di un “delfinio arpionato” per descrivere lo stato pietoso in cui versa, in prossimità del traguardo, la vettura di Nuvolari, ridotta a “poche lamiere, il volante, le gomme” (cfr. Matteo Totaro - “Un dialogo tra autori: Roberto Roversi e Lucio Dalla” per “Automobili”, 1976).
La disarticolazione dei brani all’interno della scaletta, rispetto alla sequenza originaria, ne altera anche la struttura sostanzialmente tripartita di base. Il progetto, infatti, era costruito in tre fasi, relative al passato, al presente e al futuro dell’automobile. Dopo l’epos del passato, allora, la contemporaneità appare come un gigantesco “Ingorgo” con “centomila auto imbottigliate”, in cui “da dodici ore nessuno si muove”. Un’allucinazione collettiva costruita sulla successione di più pannelli, con una tecnica che sicuramente sarà d’aiuto al Dalla di “L’ultima luna” di tre anni dopo. Un brano che parte piano, con la voce distorta dall'eco e gli accordi solenni dell'organo, fino a prendere quota al ritmo degli sbuffi dei synth. Ispirato da un fatto di cronaca, “L’ingorgo” narra la drammatica situazione venutasi a creare sull’autostrada francese nei pressi di Parigi in seguito a uno dei primi casi di collasso della rete viaria, sottolineando il senso d’alienazione dell’uomo, prigioniero della sua stessa invenzione. Un senso di disumanità spezzato da uno di quei dettagli illuminanti che poi sempre, nel suo futuro di autore, Dalla saprà maneggiare con maestria:
Passa un giorno e arriva la sera
Passa la notte e il giorno fa ritorno
Alle nove arriva uno straniero
E chiede pane alla gente che ha intorno
La fisicità del gesto, la semplicità della richiesta si contrappongono alla mostruosità dell’ingorgo autostradale. Come se all’uomo, prigioniero dell’afa e di quell'inferno di lamiere, non restassero che pochi residui di una quotidianità ordinaria: “A mezzogiorno si sbriciola un biscotto/ L'ingegnere dorme nella Taurus/ Un muso di cane contro il vetro rotto”, “Dividono sul bordo della strada/ L'ultimo cracker, l'ultima bottiglia/ La Coca-Cola è razionata a gocce/ Due gocce solo per le labbra rotte”, finché “Verso sera qualcosa si muove/ Con uno strappo la fila si snoda/ Come un gatto che si morde la coda/ Le macchine procedono in pariglia”. Perfetta anche la cornice musicale: ogni fase del racconto è infatti scandita da un motivo melodico che ne esalta le particolarità, assecondando dapprima la stanchezza degli automobilisti con un arrangiamento ciondolante, quindi il loro senso di euforia e liberazione nel tema più ritmato e incalzante del finale.
Il secondo testo dedicato al presente, invece, è un’altra istantanea folgorante. “Due ragazzi” rinchiusi in un’auto in demolizione ai margini di un campo, che si amano, incuranti di tutto (“Baciarsi dieci volte senza paura in un minuto/ Parlare di oggi, parlare d'amore, parlare domani/ Toccarsi con le mani”). La metafora stavolta è in fin troppo scoperta: la ricerca dell’intimità e del sentimento come antidoto alla disumanizzazione generale, simboleggiata ancora una volta dall’auto, che qui però diviene “scalcinata” e si tramuta in una calda alcova, pronta ad accogliere l’amore universale dei due ragazzi definiti “senza tempo”, come se incarnassero idealmente tutti gli amanti di tutte le epoche. Con una proiezione illuminante su un futuro “verde, freddo, e profondo come il mare”. E che sia stato proprio questo verso a ispirare il capolavoro di Dalla di un anno dopo è più di un sospetto. Le struggenti aperture sinfoniche, invece, contribuiscono a innervare di pathos l’episodio più toccante del disco.
Ma se i “Due ragazzi” lasciano intravedere uno spiraglio di speranza, riequilibrando il rapporto inquietante col futuro dell’automobile attraverso il riutilizzo di quest’ultima con un fine diverso da quello per cui è stata progettata, la profezia solenne de “Il motore del Duemila” affonda in un lugubre sarcasmo, illustrando le mirabolanti caratteristiche di futuristici impianti pseudo-ecologici:
Il motore del 2000
Sarà bello e lucente
Sarà veloce e silenzioso
Sarà un motore delicato
Avrà lo scarico calibrato
E un odore che non inquina
Lo potrà respirare
Un bambino o una bambina
In mezzo a quest’atmosfera idilliaca e irreale, alimentata dagli arrangiamenti ariosi, si insinua tuttavia l’angoscia per un futuro dell’umanità assai meno rassicurante, con gli stacchi spettrali dei synth a introdurre il dilemma finale: sappiamo tutto sul motore, ma come funzionerà il cuore del ragazzo del Duemila? Perché – sottolinea Roversi - “la trasformazione in atto, che ha reso l’auto una sorta di soggetto antropomorfo, ora ha bisogno di umanità”.
Inizialmente concepito come brano di chiusura della raccolta, se si esclude l’episodio autonomo della “Intervista con l’Avvocato” collocato nella scaletta in ultima posizione, “Il motore del Duemila” – come ricorda Totaro nel suo saggio - rappresenta il momento di maggiore tensione dell’album, sintesi estrema delle idee che le altre canzoni sviluppano con un maggiore dispiegamento di mezzi linguistici. L’accompagnamento musicale contribuisce in maniera decisiva al funzionamento del testo, immergendo la narrazione in un clima tetro e glaciale, vicino alle atmosfere algide dipinte con maestria dal regista Fritz Lang nel suo capolavoro “Metropolis”. E va ancora sottolineata la nefasta scelta della Rca di invertire i brani stravolgendo l’intero messaggio del disco. “L’inserimento di ‘Due ragazzi’ in ultima posizione – scrive ancora Totaro - ha il potere di capovolgere radicalmente il triste presagio lasciato intendere da Roversi ne ‘Il motore del Duemila’: attraverso l’episodio, funzionante da happy-ending, dei due amanti che eleggono come nicchia della loro intimità una macchina in demolizione, fiero sberleffo alla civiltà dell’autovettura, l’album s’impregna inevitabilmente di un odore più rassicurante ma inevitabilmente meno intenso. Il finale è così edulcorato e la prospettiva pessimistica profetizzata dall’autore quasi ribaltata per buona pace della Rca”.
Ultimo episodio dell’album, fungibile sia come prologo (nella versione rimaneggiata su disco), sia come epilogo (nelle intenzioni del suo autore ne “Il futuro dell’automobile”) è la geniale “Intervista con l'Avvocato”. Se per Dalla e Roversi il futuro della società industriale è un immane buco nero, in cui tutti gli interrogativi rimangono senza risposta, anche l’informazione può soltanto produrre chiacchiere vuote. Ecco, allora, questa surreale “intervista” in cui Gianni Agnelli illustra a un cronista del Manchester Guardian il futuro del settore automobilistico. Dalla, accompagnandosi al piano con un’andatura sdrammatizzante, la interpreta da par suo in un impareggiabile numero di cabaret: fa recitare al padrone della Fiat un comico grammelot pseudo-inglese, canta in scat e si produce in un pazzesco “solo” vocale, chiudendo con una domanda che in realtà vuol essere una cupa profezia:
Da tutti ormai confermato
L'auto è in crisi profonda
L'auto non ha futuro
Stecco di legno sull'onda
Dopo l'assestamento
Le auto saranno più rare
E finiranno per scomparire
Come lampare sul mare
Non andrà esattamente così, ma nessuno nell’anno 1976 si sarebbe potuto permettere in Italia uno sberleffo del genere a uno degli uomini più potenti del paese. E chissà cosa sarebbe successo se dal testo non fossero state espunte, su richiesta della Rca, altre domande impertinenti di Roversi, come ad esempio:
Ha scritto un bambino
in una inchiesta recente
'Lager in una scuola italiana':
'Mio padre è povero e magro,
povero magro e basso'
Ma l’auto non avrebbe un futuro
se potesse portare a spasso
anche quel padre con quel bambino
cavandoli al loro destino?
Dal giacimento di Ekofisk
che butta greggio a mitraglia
lassù nel mare del Nord
c’è petrolio per l’Italia
Un’isola lunga un chilometro
con serbatoi di cemento e d’acciaio
Ma il fuoco anche di questo futuro
non brucia soltanto chi è in basso?
Sono versi tratti dal manoscritto originario che si può leggere all’interno del summenzionato cofanetto, assieme a tutte le varie annotazioni di Roversi, alcune delle quali disponibili anche sul sito del suo Archivio www.robertoroversi.it/.
Troppo scomoda e scottante per l’epoca, la “Intervista con l’Avvocato” sarà censurata dai media ancor più di quanto aveva fatto la Rca, condannandola a un precoce oblio. Resterà però la sua pungente impertinenza anche nell'Italia di oggi, dove i potentati economici non sono meno privilegiati e dove, nell'era delle macchine elettriche e dei dispositivi ecologici, il tema dell'inquinamento resta al centro del dibattito politico. E se il "ragazzo del Duemila" non sarà forse alienato dall'uso intensivo dell'automobile, saranno altri gli strumenti tecnologici in grado di metterne in pericolo le dinamiche sociali.
Nonostante la sua vena sperimentale e il suo rigore politico, il disco ottiene buoni riscontri di pubblico, supportato da buffi spettacoli, vicini al teatro di Giorgio Gaber e Dario Fo. Proprio quest’ultimo fornirà di Dalla uno dei ritratti più belli e calzanti: “Lui è uno dei più grandi cantori italiani – affermerà il futuro Premio Nobel - Non esegue una canzone ma la rappresenta; non recita un canto ma lo svolge, utilizzando – oltre la voce – tutta la propria dimensione fisica, corporale, gestuale. La pausa e il gesto, la mimica facciale e la smorfia, il liberare e occupare gli spazi: tutto ciò è, in Dalla, la chiave fondamentale dell’esecuzione”.
Ma dopo la travagliata vicenda di “Automobili”, è chiaro che non vi è più spazio per una ricomposizione nel duo bolognese. Roversi torna così alla sua attività di poeta, Dalla decide di compiere il grande passo: sarà lui stesso a scrivere i testi delle sue canzoni. A cominciare da un capolavoro di nome “Come è profondo il mare” (1977). Ma questa è decisamente un’altra storia.
Nel più volte citato box-set “Nevica sulla mia mano” è stato inserito un intero cd di inediti con quattordici canzoni, tra brani censurati su “Automobili” e altri scritti da Roversi per un eventuale quarto capitolo della collaborazione. Si tratta in gran parte di materiale legato ai temi della trilogia e, in particolare, del suo terzo atto. Tra questi “I muri del ’21” (sulla chiusura delle officine Fiat in seguito alle proteste degli operai contro i licenziamenti), “Statale adriatica chilometro 220”, “Rodeo” e “La signora di Bologna”, in cui la cartomante dagli occhi verdi come i prati dell’Italia passata si fa simbolo dell’avvento della civiltà industriale.
Sono incluse anche l’edizione non censurata di “Intervista con l’Avvocato”, in una versione addirittura diversa dal manoscritto pubblicato nella stessa raccolta, e le cinque canzoni scritte dal poeta bolognese per l’Enzo Re e interpretate da Dalla in tale occasione, oltre a un parlato da un concerto del 1973, in cui il cantante presenta il suo nuovo progetto artistico. Chiudono la raccolta i tre provini delle canzoni “Nuvolari”, “Carmen Colon” e “Le parole incrociate”.
Al di là della chicca del disco con gli inediti, la raccolta “Nevica sulla mia mano” è comunque un must per tutti gli appassionati del duo, con la sua miniera inesauribile di testimonianze, immagini e curiosità. Lo sapevate, ad esempio, chi scrisse la prima bozza della “Chiedi chi erano i Beatles?” che Lucio Dalla regalò agli Stadio, consegnandola alle classifiche? Eh, sì, proprio l’inflessibile Roberto Roversi.
Non sarà facile, comunque, ricomporre i cocci del rapporto tra i due. Nel 1982 Lucio Dalla, reduce da una straordinaria sequenza di successi da solista, arriverà a confessare in un'intervista: “Il periodo con Roversi per me non è stato bello, anzi, molto traumatico. È una persona pura e io diffido dei puri. Quelle erano canzoni un po' intellettualoidi. E poi io non amo la musica epica, mi dà fastidio anche fisicamente. Non mi piaceva urlarle quelle canzoni, come fossero cantate su un tavolo da chi aveva capito tutto ed era molto più avanti”. E infatti dal vivo non le canterà più, salvo “Nuvolari” e rarissime eccezioni.
Soltanto nel 1990 tornerà il sereno. Dalla infatti, in segno di pacificazione, inserirà nell’Lp “Cambio” un testo inviatogli da Roversi nel 1978, “Cambia la faccia di Dio”, che intitolerà “Comunista”. Il poeta ne resterà colpito e ricambierà coinvolgendolo nel suo spettacolo “Enzo Re”, una vecchia pièce teatrale che tornerà alla luce proprio con l’ausilio di cinque nuovi brani firmati da Dalla.
Da allora l’ascia di guerra sarà seppellita definitivamente. “Ad attrarmi di Lucio Dalla più che l'insofferenza umana e artistica è stata l’insofferenza rispetto agli standard normali – riconoscerà Roversi nel 2007 - Dalla è un uomo, oltre che un artista e un cantante, sempre un passo avanti al proprio corpo. Calpesta la propria ombra che gli è davanti e non dietro le spalle ed è quindi un miracoloso sperimentatore. Ha una voce straordinaria e una vitalità mentale e culturale direi scompaginata nel senso positivo: per lui tutto può entrare e tutto può essere sperimentato”. “Da Roversi ho imparato tutto - tornerà ad ammettere Lucio - a scrivere da solo le mie parole, ma sopra ogni altra cosa l'emozione pura”.
I due così proseguono ancora insieme un tratto di vita nella loro Bologna, fino a quando, nel 2012, la storia ce li porta via entrambi: Lucio a marzo e Roberto a settembre. Poco prima dell’improvvisa morte di Dalla, Roversi tornerà a omaggiarlo facendo autocritica: “Insieme abbiamo fatto 35-36 canzoni in tre album più qualcuna sparsa: qualcosa abbiamo dato alla canzone italiana. Le canzoni successive di Lucio hanno la sua personalità, sono testi suoi e sono eccellenti, limpidi, non concettosi come quelli che gli davo io. Mi ha insegnato molto, mi ha dato una lezione, forse sono cambiato io dopo l'incontro con lui”.
Anche se oggi possono apparire utopistiche, eccessivamente ideologizzate o semplicemente datate, le riflessioni contenute nella trilogia Dalla-Roversi hanno rappresentato un momento alto e irripetibile di incontro/scontro tra letteratura e canzone, quasi privo di seguito nella storia della musica italiana. Ma soprattutto quelle bizzarre e commoventi storie – musicalmente impreziosite dal talento compositivo di Dalla e dalle improvvisazioni di marca jazz dei suoi musicisti - hanno saputo dare voce a tutte le contraddizioni, le spinte ideali, gli enigmi irrisolti dell’Italia del dopoguerra. Un’Italia che, a rivederla bene, non sembra poi così lontana da quella di oggi.