Fondere, confondere, rifondere
infine rifondare
l'alfabeto della vita
sulle pietre di miele
della bellezza
(“Analfabetizzazione”)
Tra i protagonisti della stagione d’oro del cantautorato italiano, Claudio Lolli è quello che ha dovuto attendere di più per ottenere la piena legittimazione. Non è un caso che il primo (e unico) premio Tenco per lui sia arrivato proprio in occasione del suo testamento musicale (Il grande freddo, 2017) pubblicato pochi mesi prima della morte. Personaggio "per niente facile e così poco allineato" - per dirla con Fossati - eppure paradossalmente vittima proprio di quelle etichette che da sempre infestano la scena italiana - prima "depresso", poi "comunista" e persino "fiancheggiatore delle Br" (quest'ultima ce l'ha rivelata lui stesso) - Lolli ha camminato sempre controvento, da fiero nomade delle idee e dei versi, impolverandosi le scarpe e infischiandosene degli applausi. Con una coerenza quasi unica nel panorama nazionale, che gli è valsa, se non altro, la stima sempiterna di una ristretta ma fedelissima cerchia di fan.
Ma se nei confronti della superficialità di certi sguardi non ci sarà mai niente da fare, non sarà mai troppo tardi per riscoprire l'opera di questo geniale outsider bolognese, capace di contrapporre ai furori dogmatici dell’ideologia le contraddizioni dei versi. Uno che si può annoverare davvero tra quei poeti che "fanno paura" - per citare proprio la sua celebre “Ho visto anche degli zingari felici” - perché "aprono sempre la loro finestra, anche se noi diciamo che è una finestra sbagliata". Uno che dalla parte degli ultimi c’è stato per davvero e non per posa. Al punto da dedicare una canzone all’agonia del più piccolo e ripugnante degli animali: la mosca, simbolo dei più deboli che “si schiacciano dentro due dita” e ai quali è precluso perfino il concetto di morte (“La morte appartiene ai potenti… alle mosche rimane la merda”). Il tutto senza mai scomporsi, con una mitezza garbata che confligge spesso con il vigore lirico dei suoi versi. Perché come scrive Rosella Postorino (“Tempo e corpo”), “Lolli usa parole pacate, in sordina, che devi tenerti in bocca a lungo perché sprigionino la loro potenza. Non è una lingua aggressiva, la sua, non ti si scaglia addosso; è sommessa, e per questo ancor più penetrante, come quella di Pavese, del quale non a caso musicò una poesia, 'Verrà la morte e avrà i tuoi occhi'”.
All’Osteria delle Dame
Claudio Lolli nasce a Bologna, il 28 marzo 1950 in una famiglia piccolo borghese che avrà modo di criticare apertamente in alcune canzoni, come “Borghesia” ("Di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista, oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista... Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia") o in “Quando la morte avrà”, dedicata al padre, descritto come ottuso, severo e indisponente, benché ricordato sempre con grande rimpianto. “Ero un adolescente abbastanza solitario, vizio che per fortuna ho abbandonato – racconterà - Ascoltare e scrivere mi piaceva molto, mi sembrava dessero un minimo di senso alla mia vita”.
Il giovane Lolli divora i testi sacri della Beat Generation (Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti, Gregory Corso), ma le sue prime passioni non sono le canzoni di protesta del folk americano, bensì le hit pop dei Beatles dai quali apprenderà l’arte della melodia e della dolcezza, cifre caratteristiche del suo cantautorato, spesso impropriamente accostato a quello ben più aspro e scorbutico di Francesco Guccini. Ma sarà il proprio il Maestrone a spianargli la strada verso una carriera da cantautore. Lolli conosce il fratello Piero fin dai tempi del liceo e, attraverso questo prezioso contatto, gli fa pervenire le sue prime canzoni. È però al tavolo dell'Osteria delle Dame, nei primi anni Settanta, che si cementa il legame con il suo mentore. Tra un fiasco di vino e una chitarra da strimpellare, prendono forma quelle prime composizioni stralunate, spesso forgiate con la tecnica del fingerpicking, che illuminano squarci di vita quotidiana con lampi di poesia. Guccini ne resta stregato, nonostante quella “voce da regno dei più o da festival del sottosuolo... così piena di granchi, di ragni, di rane e di altre cose un po' strane”, come lo stesso Lolli la definirà impietosamente in un suo brano (“Autobiografia industriale”, 1977). Il cantautore di “Radici” lo porta alla Emi, e il provino funziona: Lolli torna a casa con un contratto con l'etichetta discografica che gli pubblicherà suoi primi quattro album, dal 1972 al 1976.
Godot e l’amico francese
Per il suo debutto su Lp, Aspettando Godot (1972), Lolli si sostituisce in copertina a Cristoforo Colombo sulla banconota da cinquemila lire. Sguardo pensoso, baffi e capelli con l’onda, il nostro poeta d’osteria si presenta già per quello che è: un outsider poco fotogenico, incurante delle mode e del look, ma carico di idee e di pensieri, in simbiosi con tanti giovani che in quegli anni si identificano nella sua “Angoscia metropolitana”, nel suo disagio esistenziale fatto di una pioggia di pensieri sottili e penetranti.
Lolli lo esprime in punta di voce con quei riccioli di chitarra acustica che fuoriescono copiosi dai suoi scarni spartiti. Ne è già il manifesto ideale la title track, dove l’opera teatrale di Samuel Beckett si traduce in un’agre riflessione sulle vite lasciate scorrere nell’attesa snervante di qualcosa che non arriverà mai, dilapidando sogni e ambizioni fino a quando sarà troppo tardi per recuperare: “Non ho mai agito aspettando Godot/ Per tutti i miei giorni aspettando Godot /E ho incominciato a vivere forte/ Proprio andando incontro alla morte”. Un’epifania finale in cui Lolli “tradisce” l’originale di Beckett, quasi a voler riscattare le mancanze, la viltà e l’ignavia di una vita intera.
L’amara consapevolezza di un’esistenza priva di senso ricorre anche nella desolazione urbana di “L’isola verde” (“Ditemi come si fa/ A vivere tutta la vita in questa città/ Di giorno sudore ed attrezzi/ Di notte cercar nelle strade le donne coi prezzi”) e nella cupissima “Il tempo dell’illusione”, che non fa prigionieri: “Quando i vetri di una stanza resteranno le tue sole passeggiate/ E i figli e i nipoti rideranno delle tue guance scavate/ E per scherzo giurerai di sentirti proprio forte/ Sarà giunto anche per te il tempo della morte”.
Arrangiato da Marcello Minerbi, ex-leader dei Los Marcellos Ferial, l’album mostra più di un legame con lo stesso Guccini e con Fabrizio De André nonché, in alcuni episodi (“Quello che mi resta”, “Quanto amore”), con i cantautori francesi degli anni Cinquanta. Ma il vero protagonista è l’atipico songwriting di Lolli, capace di avvolgere in fatati ricami di chitarra la più feroce delle invettive. Come quella che gli affiora tra le corde della sua chitarra mentre strimpella un giro di George Brassens. La chiama “Borghesia” e diventa il suo primo inno politico. Un manifesto ironico e feroce contro l’ipocrisia, il perbenismo e lo squallore della classe sociale cui lui stesso dichiara di appartenere:
Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia
Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia
Sei contenta se un ladro muore o se si arresta una puttana…
Godi quando gli anormali sono trattati da criminali
chiuderesti in manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali
ami ordine e disciplina, adori la tua polizia
tranne quando deve indagare su un bilancio fallimentare…
Sempre pronta a pestare le mani a chi arranca dentro a una fossa
sempre pronta a leccar le ossa del più ricco e dei suoi cani
Lo spietato j’accuse si chiude con una lapidaria conclusione (“Il vento un giorno ti spazzerà via”), nella quale Lolli, quasi trent’anni dopo, inserirà con ironico disincanto l'avverbio “forse”. Non è un ribellismo protestatario post-liceale, il suo, ma la consapevolezza matura di un ventiduenne atipico, di quelli “che son venuti su un po' strani e hanno avuto sempre poche donne per le mani” – come confessa nella struggente “Quelli come noi”, che condensa l’utopia di una generazione intera in un malinconico ritratto autobiografico (“Quelli come noi/ così timidi e ambiziosi/ piuttosto silenziosi /e sempre con la testa piena/ di musica di arte e grandi amori… e basterà che un giorno/ trovino un po' di forza/ e aiuteranno gli altri a dare un calcio al mondo”).
Se De André e Guccini si rifugiano spesso nel sarcasmo dei versi, Gaber e Jannacci nelle fulminazioni del nonsense, De Gregori in un lirismo forbito e metaforico, Lolli non ha alcun pudore nel mettere a nudo i suoi sentimenti più intimi, a piangere calde lacrime rievocando ricordi di un’adolescenza perduta e mitizzata, come nella splendida e tenerissima “Michel”, dedicata a un suo giovane amico francese, il cui ascolto è caldamente raccomandato a tutti coloro che identificano il bolognese soltanto come un “cantautore politico”:
Ti ricordi, Michel, dei nostri soldatini morti, nella difesa eroica dei bastioni e seppelliti in una siepe con onori militari inventati lì per lì
Ti ricordi, Michel, del banco nero in terza fila, che ascoltò tutte le risate, di due bambini che vivevano in un sogno che non si ripeterà
Ti ricordi, Michel, che a me piaceva Garibaldi, ma tu dicevi che era un buffone e che senz'altro non poteva sostenere il confronto con il tuo Napoleone…
Ti ricordi, Michel, di come era esclusiva la tenerezza che ci univa, e accompagnò la nostra infanzia fino ai giorni della nuova realtà
Ti ricordi, Michel, il giorno che morì tua madre, che tu piangevi tanto che anche il cane che ti voleva così bene non aveva il coraggio di avvicinarsi un po'
Ti ricordi, Michel, che tristi erano quei giorni, io non sapevo proprio cosa dirti e che confusione avevo in testa e che stupore sul tuo viso e che voglia di partir
Ti ricordi, Michel, quei due saluti alla stazione e i lacrimoni venir giù, quando la macchina comincia a far pressione tu dovesti salir su
Incorniciata dai ricami della chitarra acustica e da sparute note di flauto, “Michel” è una ballata da brividi (e lacrime puntuali, almeno quelle di chi scrive). Un piccolo romanzo di formazione che testimonia tutta la sensibilità del Lolli debuttante, capace di schiudere un mondo intero di angosce e speranze in tre righe di versi. Un artista che possiede l'arma della tenerezza disarmante, quella che commuove senza un filo di retorica, con la sola forza del suo candore. Forbito e semplice allo stesso tempo, poetico senza mai risultare narcisista o eccessivamente letterario. Vicino, in questo, a un suo illustre, seppur diversissimo, concittadino: Lucio Dalla.
Assecondato da una struttura musicale scarna, con fingerpicking, una sezione ritmica molto leggera e un violino a dare un po’ di spessore ai brani, Lolli tratteggia testi densi e suggestivi, in cui oltre al disagio esistenziale (tangibile anche in “L'isola verde” o in “Quanto amore”) denuncia l’ottusità familiare (“Quando la morte avrà”, dedicata al padre, con un sentimento dicotomico di odio/amore) e la cappa di una società rapace e opprimente, dove “il rumore delle auto ha già asfissiato ogni rimorso” e “giace morto sul selciato un bimbo che faceva il muratore” (“Angoscia metropolitana”, con preziosi ricami d’archi ad assecondare gli arpeggi di chitarra). Ricorre anche lo spettro della morte, citata per ben dodici volte nel disco. Ma fermarsi a questo per liquidare come “depresso” il suo approccio significa non riuscire a penetrarne la scorza, limitarsi a una visione superficiale e semplicistica.
Il Lolli che aspetta Godot è un giovane poeta adulto e riflessivo, con il cuore che trabocca di sogni e speranze, pronto ad abbracciare gli ideali del Movimento e a “rotolarsi per terra” nelle notti insonni in Piazza Maggiore, proprio come quegli Zingari Felici che avrebbe cantato qualche anno dopo e che altro non erano che i compagni della sua generazione, nomadi utopisti e outsider in servizio permanente effettivo.
Il debutto su Lp, dunque, mette già in luce lo stile unico di Claudio Lolli, quasi un Nick Drake italiano con il suo arpeggio minimalista e il suo cantato ingentilito e ombroso in filigrana. Le sue canzoni vengono trasmesse in radio nel corso di trasmissioni dedicate alle nuove proposte, tra le quali “Per voi giovani”, ideata da Renzo Arbore e condotta da Carlo Massarini. I suoi set voce e chitarra aprono i concerti degli Area del cantante Demetrio Stratos e di Ares Tavolazzi, il bassista, che aveva anche partecipato ad Aspettando Godot, seppur non accreditato.
La guerra (non) è finita
Un anno dopo esce Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973), disco che ripercorre le orme del predecessore, accentuando però la vena più grave e pessimista in un pugno di ballate nobili e polverose. “Fa capolino un po' di tristezza/ Fa capolino un poco di rabbia/ Fa capolino una vita schifosa”, canta senza mezzi termini in “La guerra è finita”, straziata ode alla vita grama del dopoguerra. E lo spaccato di disagio seppiato della copertina non contribuisce certo ad accrescere l’allegria... Forse è proprio questo il Lolli al quale si può imputare un eccesso di mestizia, anche perché stavolta non sempre l’istinto pop gli viene in soccorso e così a volte i brani si trascinano un po’ stancamente attorno ai suoi arpeggi sconsolati.
Musicalmente il canovaccio è sostanzialmente lo stesso del debutto, con la partecipazione di un interessante manipolo di collaboratori: Andrea Carpi, Piero Guccini (fratello di Francesco) e Stefan Grossman alle chitarre, più i due fratelli Enzo ed Elio Volpini (rispettivamente a piano e fisarmonica e basso), membri del gruppo prog L'Uovo di Colombo, Icaro Fornado (flauto, percussioni) e l'allora violinista di Alan Sorrenti, la statunitense Talia Toni Marcus, che anni dopo sarebbe approdata alla corte di Van Morrison.
Tra gli episodi migliori, indubbiamente l’iniziale “Io ti racconto”, che diverrà uno dei suoi classici e sarà anche reinciso nel disco Nove pezzi facili: una carrellata di flash esistenziali scandita in modo rapido e paranoico, tra “gente che non sa più far l'amore” e “amici reclutati in pizzeria”, quotidianamente immersi nella “nevrosi di vivere con gli occhi chiusi, alla ricerca di una compagnia”.
Dopo questo prologo introduttivo, l’album si suddivide in due parti, corrispondenti grosso modo alle due facciate del disco: le tre "Canzoni di morte" del lato A sono una scorata cronistoria di esistenze al margine, tra risvolti personali (la succitata "La guerra è finita" e "Morire di leva", dedicata a un amico siciliano e incentrata sulla piaga dei suicidi dei soldati nelle caserme) e sociali, come in "Hai mai visto una città", un’altra istantanea in grigio di quella “Angoscia metropolitana” densa di alienazione e solitudine narrata nell’esordio: introdotta da un arpeggio iniziale di Grossman, la canzone è supportata poi dal violino di Marcus che riproduce una sorta di "lamento" perpetuo.
Più ottimista (si fa per dire) il lato B, sebbene si apra con "Un uomo in crisi", che a dispetto del titolo si rivela tra gli episodi più briosi del disco, con il fingerpicking incalzante di Grossman puntellato sul finale dal violino della Marcus. C’è poi spazio per tre "Canzoni di vita", alla ricerca di un’uscita dal tunnel imboccato fino a quel momento: la soluzione – sostiene Lolli - può risiedere nella ricerca della parte più profonda di noi stessi ("Un uomo nascosto", quasi coheniana nella sua dolcezza acustica, tra rintocchi di piano e inserti di violino), nell'impegno politico ("Quello lì", che narra le vicende di Antonio Gramsci ancora studente a Torino viste con gli occhi di un suo vicino di casa) e nel coraggio di prendere fra le mani la propria vita per cambiarla ("La giacca", ancora con il piano di Volpini sugli scudi). In chiaroscuro il finale di "Un bel mattino", dove al ritorno di fiamma del nichilismo del Lato A si contrappone l’apertura di credito del verso conclusivo: "Ma oggi amore dobbiamo andare, giù nella strada, dobbiamo lottare".
Con i suoi oltre 50 minuti di durata, Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita risulterà uno degli Lp italiani più lunghi del periodo. A difettargli, però, saranno i ritornelli a presa rapida, gli hook, le canzoni-slogan. Resterà così soprattutto un feticcio per i fan del cantautore bolognese, finendo rapidamente nel dimenticatoio per (quasi) tutti gli altri. Al disco è legata anche la leggenda di un presunto comunicato della Emi che ritraeva un “Lolli che non sorride mai, ingoiato da un mondo senza speranze, carico di pessimismo (…) che dà scarso posto ai sentimenti, tutto teso com’è a soffrire di un’alienazione universale che preclude qualsiasi speranza futura”. Uno scritto che – come ricorda Jonathan Giustini su “La terra, la luna e l'abbondanza” – nessuno ha mai visto, ma che per lungo tempo ha inchiodato Lolli allo stereotipo del cantautore triste e malinconico. Un danno non da poco, a ben vedere.
Per il successivo Canzoni di rabbia (1975) il cantautore emiliano avverte la necessità di un cambiamento di rotta musicale. Per gli arrangiamenti ingaggia così Ettore De Carolis, musicista e musicologo, già noto negli anni Sessanta come membro del gruppo psichedelico Chetro & Co e in seguito collaboratore di Guccini, Alunni del Sole e Alan Sorrenti. La novità principale è soprattutto l’aggiunta delle percussioni di Giorgio Battistelli alle chitarre di Roberto Picchi e dello stesso Lolli, ma subentrano anche strumenti inusuali come il flicorno, lo xilofono, l'ottavino o il saz (una sorta di bouzouki di origine araba), o ancora la violaccia, uno strumento inventato dallo stesso De Carolis a 6 e a 10 corde, da un corpo preesistente di violoncello. Al disco partecipa in veste di corista anche la moglie di De Carolis, Donatina Furlone.
Dal punto di vista lirico, invece, tornano le tematiche dei due lavori precedenti. Ecco allora “Viaggio”, che parte con inusuali accordi maggiori e si consuma in un lacerante contrasto tra voglia di vivere e di partire e la nostalgia di un passato perduto, chiudendosi poi con la reprise di “Viaggio di ritorno”, tra la nebbia "morbida e veloce" che avvolge Torino. E poi ancora l’anticlericalismo di “Prima comunione”, aspro sfogo contro il bigottismo asfissiante degli anni Cinquanta (“E quello grigio e stonato ero io, nel giorno triste in cui cominciò a sanguinare il mio conto col dio, nel giorno triste che non scorderò”).
Ricompaiono anche il disagio della solitudine, inclusa quella dei “Vent'anni”, che sono “rabbia, sete e acqua salata” - come canta sulle corde di una chitarra arpeggiata - e un pacifismo deandreiano stile-“La ballata dell’eroe” in “Al milite ignoto”, storia di un caduto in guerra il cui corpo, non riconosciuto, viene scelto per essere sepolto nel monumento al milite ignoto. Tra i primi brani italiani sull’argomento, l’etno-folk di “Dalle capre”, affronta invece il tema spinoso della vita nelle carceri, attraverso la parabola di un pastore che viene dalle capre per far la guardia "ad un compare per un po' di vino e pane", suggellando una delle prodezze del disco.
Ma c’è spazio anche per una canzone d’amore intonata alla “Donna di fiume”, mitica fanciulla “negata ai beati”, che ti trascina con le sue correnti e ti porta a fondo nelle profondità dell'amore, rischiarando il buio della solitudine (“la dolcezza preziosa che nascondi tra i denti è la ridicola e meravigliosa discesa, di un uomo che impara a non morire da solo”). È solo la prima di tante struggenti ballate sentimentali che verranno, come “Io ti faccio del male”, “Dita”, “Tutte le lingue del mondo”, “Come ho fatto a stare tanto senza te”, “L’amore è una metamorfosi”. Alla faccia del cantautore incapace di dare spazio ai sentimenti dipinto in quella maldestra bozza della Emi.
A chiudere le Canzoni di rabbia, uno sfogo personale duro, ma contraddittorio, che si strozza in gola, racchiuso tra i versi di “Compagni a venire”: “Potrò mai perdonare al vostro amore stanco il piacere segreto di una notte lontana, che mi ha sbattuto in un mondo extravaginale senza nemmeno chiedersi se preferissi nascere o la morte gloriosa di un aborto illegale” – si chiede Lolli, mettendo nel mirino anche i suoi amici e le sue poche donne, e "il Dio che non esiste" e infine se stesso e la sua rabbia, “crudele come un mare che travolga le navi e affoghi i pescatori”, ma chiudendo quasi con un ravvedimento: il ringraziamento ai “compagni sconosciuti, disponibili sempre ad offrire amore e vino” seppur “sperduti in questo mondo, non a grandezza d'uomo e nemmeno di donna e neanche di bambino”. È il congedo dolceamaro di un disco tagliente, incompromissorio, per certi versi estremo, che chiude la prima fase della carriera di Lolli, quella segnata da un folk spoglio ed essenziale.
La terra, la luna e l’abbondanza
Quando il 7 aprile del 1976 pubblica l'album Ho visto anche degli zingari felici, Lolli non è più il ragazzino irriverente che strimpellava inni all'azione ("Aspettando Godot") e alla lotta di classe ("Borghesia"), o si struggeva malinconico nei ricordi d'infanzia ("Michel"). È un uomo di ventisei anni che nel mezzo degli anni di piombo, in cui era facile "ritrovarsi soltanto a dei funerali" ("Piazza, bella piazza") e in cui Montanelli invitava a "turarsi il naso e votare Dc", riesce a interpretare lucidamente l'angoscia del paese dove "si muore di bombe, si muore di stragi", ultima quella dell'Italicus che ancora "brucia nel sangue" ("Agosto"), senza smarrire, però, la voglia di volare, di assaporare la felicità infantile di quegli zingari che si rotolavano per terra in Piazza Maggiore, di riappropriarsi di "quella dolcezza a cui tutti abbiamo diritto" (come cantava De Gregori su "La campana", altro brano-manifesto di quegli anni). Perché, a differenza di altri cantautori "politici" del periodo, Lolli sa toccare le corde di una emozionalità palpitante e candida. Quella che ti sussurra all'orecchio: "Riprendiamoci la vita, la terra, la luna e l'abbondanza". In fondo, sta tutto qui.
L’opera nasce, di fatto, come un concept-album, o addirittura un'unica ballata lunga, articolata in sette diversi capitoli più la ripresa finale del primo, legati dall'idea della piazza come l'antica agorà, luogo di incontri di ogni tipo e cartina al tornasole dell'Italia di quegli anni. Nello specifico, la bolognese Piazza Maggiore, crocevia di idee e amori, assemblee e manifestazioni, ma anche teatro di funerali drammatici come quello per le vittime dell'Italicus, appare a Lolli "uno spazio aperto, una potente spinta al concreto operare politico, un nuovo ritrovarsi insieme in modo non artificioso né frustrante". E questo senso di libertà si traduce anche musicalmente in uno spartito molto più anarchico e complesso, che non si risparmia arrangiamenti ariosi in odor di progressive e incursioni nel jazz, con frequenti solo di sassofono tenore e contralto (entrambi a cura di Danilo Tomasetta). Un progetto ambizioso, concepito "come un puzzle", insieme al Collettivo Autonomo Musicisti di Bologna dopo sei mesi di concerti. Ma, certo, un progetto politico, inclusa la scelta, per l'epoca rivoluzionaria, di imporre alla Emi un prezzo più basso (3.500 lire invece delle abituali 5.000).
È un sax struggente a dare l'abbrivio alla "Introduzione" più bella della canzone italiana: i quasi sette minuti di "Ho visto anche degli zingari felici", citazione di un vecchio film jugoslavo ("Skupljači perja") "che Fantozzi avrebbe trattato molto peggio della 'Corazzata Potëmkin'", come ironizza lo stesso Lolli nelle note di copertina dell'edizione rimasterizzata su cd del 2006. Al testo da brividi si sposano melodie rapinose, che fanno tornare alla mente la passione di Lolli per i Beatles, e arrangiamenti altrettanto suggestivi, in cui al delicato fingerpicking si alternano raffinati inserti di fiati e perfino un robusto assolo di chitarra elettrica. E poi c'è quella voce, calda ed emozionata, che ci mette a nudo con le sue verità:
È vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce...
È vero che non vogliamo cambiare/ il nostro inverno in estate...
È vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli
L'umanesimo di Lolli non è astratto lirismo. È un canto di speranza rivolto a tutti quegli "zingari felici", liberi e anticonformisti, che non volevano pagare “la colpa di non avere colpe”, se non quella di voler cambiare il mondo: la meglio gioventù degli anni 70, ardente di passione rivoluzionaria e pronta a far sua l'esortazione delle ultime quattro strofe della ripresa finale ("Conclusione"), liberamente rielaborate da "Cantata del fantoccio lusitano" di Peter Weiss: "Siamo noi a far ricca la terra/ noi che sopportiamo/ la malattia del sonno e la malaria... Ma riprendiamola in mano, riprendiamola intera/ riprendiamoci la vita/ la terra, la luna e l'abbondanza". Un testo che denunciava il colonialismo portoghese in Angola e che Lolli mutua in inno universale alla liberazione e alla fratellanza.
Speranza, dunque, ma anche indignazione: 4 agosto del 1974, Lolli è in vacanza con la fidanzata quando salta in aria il treno Italicus. Dodici morti e cinquanta feriti per una strage destinata ad approdare nel porto delle nebbie dei misteri d'Italia. "Agosto" è la rievocazione di quel "pugno di rabbia che ha il suono tremendo di un vecchio boato". Un testo lucido e durissimo ("Si muore di stragi/ più o meno di Stato"), frettolosamente archiviato, proprio come il caso della morte dell'anarchico Pinelli a Milano ("niente è cambiato/ da quel quarto piano in questura/ da quella finestra"). E non meno drammatica, nonostante lo spunto fiabesco ispirato da una filastrocca popolare toscana, è "Piazza, bella piazza": le bare di dieci vittime dell'Italicus in fila sul sagrato di San Petronio, davanti ai profili impettiti del sindaco di Bologna Renato Zangheri, del Presidente della Repubblica Giovanni Leone e del segretario della Dc Amintore Fanfani. E in Piazza Maggiore monta l'indignazione: "Di Leone avrei fatto senza/ si sentiva qualcuno urlare/ solo fischi per quei maiali/ siamo stanchi di ritrovarci/ solamente a dei funerali", canta Lolli, "pugni in tasca" e parole di fuoco nella fondina, contro quelle "teste calve, politicanti/ un metro e mezzo senza le ali". I moti del '77 erano alle porte.
Ma il primo conflitto da gestire, in quegli anni turbolenti, era tra le mura domestiche: "Primo maggio di festa oggi nel Viet-Nam/ e forse in tutto il mondo/ primo maggio di morte oggi a casa mia/ ma forse mi confondo". Saigon liberata ha il "sapore del sole" ma anche un retrogusto amaro d'incomprensioni familiari ("forse è mio padre, mi confondo") tra i ghirigori di sax di "Primo maggio di festa". E la mente corre agli "ingrati del benessere francese" di un altro Maggio, quello cantato da Fabrizio De André in "Storia di un impiegato" di tre anni prima. Anche il giovane Lolli canta il disordine dei sogni, ma sa fare a meno degli slogan: il suo lessico vive di lepri pazze e mais sull'altopiano, di odori di brace e mosche agonizzanti, di sangue negli occhi e dentifricio che fa a pugni con il vino. E di figure leggendarie come "Anna di Francia" che "dà un bacio alla piazza e poi se ne va" e "brinda alla sua anarchia", un'incursione sentimentale di struggente dolcezza e nobiltà femminista, nella quale Lolli si spinge a promettere:
Non sarò per te un orologio
il lampadario che ti toglie il reggiseno
quando è tardi, è notte e tu sei stanca
e la tua voglia come il tempo manca
Non sarò per te un esattore
di una lacrima ventuno volte al mese
non conterò i giorni alle tue lune
per far l'amore senza rimborso spese
E in mezzo a versi così intimi, non manca anche un affondo sui conflitti culturali della sinistra ("e Luigi Nono è un coglione/ l'alternativa nella cultura/ non è solo ideologia/ l'alternativa è organizzazione"). "Più bella che pazza", Anna di Francia è la pasionaria dei sogni di quella generazione e forse di tutti noi: la sublimazione della libertà e inafferrabilità femminile.
Ma non sono solo parole: la forza di Ho visto anche degli zingari felici sta anche in un turbine di intuizioni musicali senza soluzione di continuità, con i temi che tornano ad avvicendarsi ciclicamente, come da tradizione dei concept. Così è ancora un sax languido a introdurre l'epitaffio di "La morte della mosca", in cui Lolli sceglie una delle più piccole e sgradevoli creature dell'universo come metafora delle ingiustizie sociali: "Le mosche procurano noia/ se volano a schiera unita/ da sole non danno fastidio/ si schiacciano dentro due dita", chiosando con un verso più forte di mille slogan:
Alle mosche rimane la merda
il cielo appartiene ai potenti
Il segreto di Lolli è proprio questo: sparare dritto al cuore, svestire l'ideologia della sua coltre polverosa e renderla carne viva e palpitante, ricorrendo a immagini semplici eppure toccanti, come quell'Albana, vino bianco di Romagna che "non si beveva dal '68", in grado di unire "la sinistra vecchia e quella nuova", rassicurando l'anziano compagno che "gira con un fazzoletto rosso e una foto di Togliatti" ("Albana per Togliatti", parabola del confronto generazionale e delle eterne lacerazioni a sinistra).
Ricordi, sogni, ansie, disperazione, idealismo, passione: tutto confluisce nei versi di questo arioso anti-kolossal della canzone, che resta il massimo successo commerciale del suo autore (oltre centomila copie vendute in un battibaleno) ma forse solo di recente sta iniziando a ottenere la considerazione che merita, anche grazie all'omaggio di nuove generazioni di artisti. Nel 2003 è stato tradotto in un live con nuovi arrangiamenti curati da Il Parto delle Nuvole Pesanti. Nel 2009 Luca Carboni e Riccardo Sinigallia hanno inciso una cover della seconda parte di "Ho visto anche degli zingari felici" (nel cd "Musiche ribelli"). E Rolling Stone Italia ha inserito l'album al n. 67 nella classifica dei 100 dischi italiani più belli di sempre.
All’epoca, però, non va oltre qualche passaggio nelle nascenti radio libere, divenendo soprattutto una bandiera per l’arcipelago del Movimento Studentesco e per i gruppi della sinistra extraparlamentare, dei quali Lolli è ormai il cantore. Un piccolo successo che spinge comunque il cantautore emiliano a effettuare un lungo tour con gli stessi musicisti del disco.
A questo punto, però, qualcosa si rompe: Lolli decide di non rinnovare il contratto con la Emi e di passare alla Ultima Spiaggia, casa discografica alternativa fondata due anni prima da Nanni Ricordi e Ricky Gianco, con un catalogo che unisce giovani promesse come Ivan Cattaneo a cantautori eterodossi come Gianfranco Manfredi ed Enzo Jannacci. “Il contratto con la Emi era scaduto – racconterà Lolli - E io avevo la curiosità di cambiare ambiente. Volevo trovare una maggiore partecipazione, una maggiore consonanza tra le mie idee e quelle del discografico. Cercavo un ambiente più simpatico, più vicino a me, volevo essere più dentro al tutto”.
Addio al ‘77
Il frutto del nuovo sodalizio è Disoccupate le strade dai sogni (1977) in cui Lolli mantiene l’impianto policromo del predecessore, lasciando grande libertà d’azione ai suoi musicisti, quelli della cooperativa bolognese “La Cicala”: Piergiorgio Bonafè ai fiati, Marcello Castellana alle tastiere, Roberto Costa a basso e trombone, Bruno Mariani alle chitarre, Adriano Pedini alla batteria (alcuni di loro prenderanno parte poi anche al progetto prog-rock Orchestra Njervudarov).
In pieno clima-’77, in un miscuglio di caos, euforia e terrore, Lolli sceglie un formato musicale anarchico, dove il lessico cantautorale si sposa a sonorità più ardite e sperimentali, con innesti prog e free-jazz: “Tutto era così agitato che abbiamo scelto una musica anch’essa agitata, non canonica – spiegherà - La prima facciata è una specie di suite, mi piaceva molto questa idea di andare oltre la forma canzone”.
Ma se il disco degli Zingari suonava vitale e straripante, Disoccupate le strade dai sogni appare grigio e apocalittico, come il cielo di Bologna in quei giorni del 1977. Una città sconvolta dai fatti dell’11 marzo, quando all’Università, nei disordini scaturiti durante una manifestazione studentesca, un carabiniere uccide con un colpo d'arma da fuoco Francesco Lorusso, 24 anni, iscritto a Medicina, militante di Lotta Continua. La tragedia innesca gravi scontri di piazza e saccheggi, che spingono il ministro dell’Interno Cossiga a inviare i blindati. Il clima, insomma, è plumbeo e si riflette nell’album, anche se gran parte dei brani è stata composta prima del marzo 1977 (due di essi -“Autobiografia industriale” e “Canzone scritta su un muro” – risalgono alle session degli Zingari).
Lolli ne trae una profetica conclusione: la fine dei sogni, la sconfitta di una generazione intera. Evocata implicitamente nell’iniziale “Alba meccanica” – con la sua sequenza di bassi e la sua veste pianistica jazzata a convergere nell’alienazione del testo - prorompe in tutta la sua disillusione in “Incubo numero zero”, uno snervante recitativo, associato al ritmo più che alla melodia, con una lunga sequenza di accordi che crescono di un semitono:
Disoccupate le strade dai sogni
Sono ingombranti, inutili, vivi
E i topi e i rifiuti siano tratti in arresto
Decentreremo il formaggio e gli archivi
Disoccupate le strade dai sogni
Per contenerli in un modo migliore
Possiamo fornirvi fotocopie d'assegno
Un falso diploma, un portamonete, una ventiquattrore
Il realignment, la restaurazione, non fa sconti, soffocando ogni istinto, incluso quello sessuale (“Da oggi è vietata la masturbazione/ Lambro e lambrusco vestiti di nero… Che non vi si scopra nascosti a fare l'amore”). Accompagnato da stranianti improvvisazioni psych-jazz per fiati e chitarre, Lolli percorre un’inquietante galleria degli orrori, in cui trova posto anche la giornalista e terrorista tedesca Ulrike Meinhof, “suicidata” nel carcere di Stoccarda nel 1976. Di fronte alla prospettiva del “paradiso pulito operoso della nostra nuova (social)democrazia”, al poeta confuso non resta che concludere: “È vero che il giorno sapeva di sporco”. Parole che oggi fanno un po’ tenerezza, in tempo di sovranismi ben più aggressivi e pericolosi, ma per la sinistra extraparlamentare dell’epoca lo spauracchio era proprio quella presunta normalizzazione, ribadita nella marcetta sarcastica di “La socialdemocrazia”, un “mostro senza testa” solo apparentemente rassicurante, perché alla fine è “quel nano che ti arresta”. Non resta allora che ripartire dal significato delle parole (il jazz-fusion alla Weather Report di “Analfabetizzazione”) per svincolarsi dalle radici (“La mia madre l'ho chiamata sasso/ perché fosse duratura sì/ ma non viva”) e riprendere il viaggio verso la libertà (“I miei amici li ho chiamati piedi/ perché ero felice solo/ quando si partiva”), senza farsi condizionare dai dogmi precostituiti:
Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile
le pagine le giravo sempre con il fuoco
Nessun maestro è stato mai talmente bravo
da respirarsi il mio ossigeno ed il mio gioco…
Fondere, confondere, rifondere
infine rifondare
l'alfabeto della vita
sulle pietre di miele
della bellezza
Pura sovversione poetica, di un Lolli che sogna di rifondare l’alfabeto della vita giocando con le parole, volando oltre gli steccati ideologici. Perché, come ricorda ancora Postorino, “era la poesia, prima della politica, era la capacità di fotografare la condizione umana, eterna e universale, fatta di sopruso e tradimento e ingiustizia, e però di insospettati lampi di candore, prima ancora che lo sguardo sulla Storia nella sua contingenza”. Così anche il lungimirante appello rivolto ai “compagni” del Movimento in “Attenzione” si tinge di visionarie coloriture poetiche: “Attenzione che non ci ritroviamo con la testa di un serpente incapace di strisciare/ tra i fori ancora aperti di un'idea… Attenzione che non ci troviamo una mattina per le strade/ a raccontarci le nostre storie di bambini nati morti”. Un’incertezza che si riflette anche sul piano sentimentale nella struggente “Canzone dell’amore o della precarietà”, che chiude la prima facciata fotografando la fragilità di un amore appeso al “girotondo del respiro strano di questa vita distratta ed interrotta”.
Meno organico, il lato B svela però ottimi brani, come la malinconica “Canzone scritta sul muro”, che ai fatui divertimenti sociali (“il carnevale di una città sotto il peso di una tremenda felicità”) antepone “povere scarne parole, ma libere come ragazze sole”, o come la sarcastica “Autobiografia Industriale” che mette alla berlina l’aridità delle grandi case discografiche, ricordando i primi passi negli studi della Emi su un’incalzante base sonora scandita da piano e percussioni: “Viva le tette dell'industria culturale/ tette opulente e dissetanti/ ma in definitiva un po' troppo pesanti”. È uno dei suoi testi più spassosi, in cui non mancano momenti di pungente autoironia, dalla faccenda della voce “piena di ragni di granchi e di rane” alla descrizione di quel giovane cantautore un po’ velleitario (“Io a quel tempo stavo ancora aspettando Godot, cioè aspettavo la morte per poter dire rinascerò… ma Godot non è mai arrivato, si fa le cose sue, ed è meglio così, certo per tutti e due”) e probabilmente fuori posto (“di tutti il più scemo ero io, l'unico che si prendeva sul serio e restava anche male”).
E se “Da zero e dintorni” è dedicata a un’amica sull’orlo del baratro, la conclusiva “I giornali di marzo” – unica traccia composta dopo la morte di Lorusso – riannoda il filo di quella tragica vicenda attraverso un pastiche tragicomico degli articoli del Resto del Carlino e della Repubblica usciti l’11 e il 12 marzo 1977: proprio in quest’ultima giornata, la polizia spegnerà Radio Alice, l’emittente libera del Movimento, suggellando la feroce repressione di quei giorni plumbei.
Le reazioni al disco furono contraddittorie, come ricorda lo stesso Lolli: “Diede un po’ di spaesamento. Venne giudicato difficile, oscuro, troppo intellettualistico, strano. È stato recuperato dal tempo. Oggi lo vedo come un disco abitato dalla malinconia dei timidi. Ci sento dentro qualcosa di tragico (come può essere tragico assistere da un angolo di strada alla fine di qualcosa che ami), ma di una tragicità che ha ancora una sua appartenenza, una sua tenerezza, una sua insolenza, quasi d’amore”.
Inevitabilmente datato e immancabilmente frainteso, Disoccupate le strade dai sogni alienerà a Lolli molte simpatie – anche a sinistra – e gli attirerà altrettante ingiuste etichette. Da quella di “rinnegato” a quella di “falciatore del sogno” del ’77. Ma in fondo era solo la testimonianza dell’eterna lacerazione suicida della sinistra, un destino che si perpetua da decenni, in barba ai mutamenti politici e sociali. Dopo quell’icastico de profundis, griffato in copertina da un “Cristo pagliaccio” personificato da Roberto Manfredi con falce tra le mani, sarà anche lo stesso cantautore bolognese ad allontanarsi progressivamente dal Movimento. Come racconterà lui stesso a proposito del “Convegno sulla repressione”, organizzato a Bologna nel settembre del 1977, “una sera suonò un gruppo che si chiamava Centro d’Urlo Metropolitano, da dove, se non sbaglio, sono venuti fuori gli Skiantos e i Gaznevada. Una situazione emblematica: ci siamo ritrovati a suonare con il referente comune di appartenere al movimento, ma io – come espressione musicale – rappresentavo il passato, loro il futuro”.
Nel frattempo, Lolli pensa alla realizzazione di un live, ma la Ultima Spiaggia (nomen omen!) fallisce e il progetto viene accantonato.
Viva le tette dell'industria culturale: ritorno alla Emi
Così, pur consapevole che “come prodotto, non sono riuscito un granché, vendono certo molto più Jagermeister di me” (“Autobiografia industriale”), Lolli depone l’ascia di guerra con i discografici e torna sotto le insegne della Emi, per la quale nell'aprile 1980 pubblica Extranei. Titolo per nulla casuale: “Non ci conoscevamo più e quando ci incontravamo ci chiedevamo: ‘Di che gruppo eri?’. Insomma, usavamo l’imperfetto, perché il movimento non c’era più”. A chiudere un’epoca, la tragedia del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro: “Cercavamo una terra di nessuno”, ammetterà il cantautore bolognese.
Più sganciato dall’attualità, con un mood più pacato e riflessivo dei due predecessori, l’album si avvale ancora del contributo di marca prog della Orchestra Njervudarov, anche se presenta arrangiamenti più essenziali, curati da Bruno Mariani e Danilo Tomasetta (tranne “Il ponte”, arrangiato da Roberto Costa).
A trascinarlo è soprattutto "Come un dio americano", sicuramente l’episodio più accattivante del lotto, con fiati sinuosi ad avvolgere una tenera poesia metropolitana. Lo stile dello Zingaro felice di Bologna è sempre inconfondibile, ma per la prima volta si apre a qualche altra influenza cantautorale: “I musicisti”, ad esempio, occhieggia ai night-club jazzati di Paolo Conte, "Der Blaue Angel" riporta alla mente la "Settima Luna" di Lucio Dalla con la sua andatura incalzante e la sua ripartizione in 8 capitoli.
Ma altrove i suoi giochi linguistici anarchici (persino fuori metrica nella fiaba grottesca "La canzone del principe rospo"), le sue cronistorie di tormenti familiari (il sofferto rapporto padre-figlio ripreso su “Double Face”), il suo estro letterario e le sue inflessioni free jazz (“Il muto”, “Il ponte”) testimoniano ancora una volta l’unicità di un percorso cantautorale peculiare e irriducibile, seppur mitigato da un clima meno caotico e plumbeo rispetto ai tumultuosi anni 70 (basti ascoltare un episodio come "Non aprire mai" per cogliere il cambio di decennio).
Prosciugando la verbosità del Lolli settantiano in soli 37 minuti di sfumature jazzate e invenzioni letterarie, Extranei riesce a intrattenere piacevolmente, ma senza graffiare quasi mai come i predecessori.
In un decennio in cui il cantautorato tradizionale, quello degli anni 60-70, inizia a perdere qualche colpo, Lolli continua ostinatamente a proporre la sua ricetta fatta di riflessioni sociali e bozzetti intimisti, raggomitolati nel privato. Deve però fare i conti con nuovi suoni e atmosfere. Così su Antipatici antipodi (1983), con copertina griffata da Andrea Pazienza, fa capolino qualche synth, qualche arrangiamento elettronico, che cerca di irrobustire il suo sound.
Nel complesso, il suo approccio appare pacificato, più disteso e composto. Nascono così canzoni morbide, cesellate con cura, come il singolo “Notte americana” con il quale Lolli sfodera nuovi scampoli di poesia urbana e – udite udite – supera la sua idiosincrasia per la tv, presentandosi sul palco di Azzurro e riuscendo perfino a vincere quella stramba competizione, con la squadra “Farfalla”, assieme ad altri artisti della Emi (le due capitane, Alice e Nada, Franco Battiato, Lou Colombo, Garbo, Richie Havens, Giusto Pio e Peter Tosh).
Sulla stessa falsariga soft anche la title track, con pregevoli assoli di chitarra e sax, e una chiusa commovente:
Davanti a me una vecchia donna dolce mi offre un panino pieno d'insalata
io la ringrazio e poi mi fa un segno
c'è una ginestra sulla massicciata
La dolente “Torquato” è invece il primo ammonimento contro quel “cancro terribile dell'indifferenza” cui Lolli avrebbe dedicato il suo testamento musicale de Il grande freddo, con versi che sembrano già indirizzati a una nuova generazione: “La gioventù non è questione di anni/ Ma piuttosto di sassi nel cuore/ Se c'è una fionda si può sempre tirare/ E rompere i vetri, espropriando l'amore”.
Come Dalla (“Nuvolari”, “Ayrton”), anche Lolli si lascia suggestionare dalla mitologia dei piloti “per metà uomini e per metà macchine”, dedicando una struggente ode (con testo di Roberto Roversi, l’autore proprio di “Nuvolari”) alla tragica fine di “Villeneuve”, il ragazzo “venuto dal Canada” che “l’aria ha rivoltato come un animale nobile, arrivato al macello”.
Se “L’uomo a fumetti” indovina un ficcante riff di tastiera, altri innesti elettronici appaiono meno a fuoco (“Non voglio mettermi il pigiama”, “Romantic Ballad”), facendo apparire l’uomo che aspettava Godot un po’ a disagio nel decennio sintetico per eccellenza.
Il professore nella terra di nessuno tra l'angoscia e Gorbaciov
Nello stesso periodo (1983-’84) Lolli allestisce con Gian Piero Alloisio lo spettacolo “Dolci promesse di guerra”, prodotto da Giorgio Gaber, in cui i due cantautori eseguono i loro brani più celebri, scambiandosi alcuni pezzi e interpretando insieme “Come un dio americano”.
Lolli nel frattempo si è laureato in Lettere Moderne (con una tesi sul “Menabò” di Elio Vittorini) e inizia la sua “seconda vita”: quella di professore di liceo, accomunando così il suo percorso a quello dell’altro prof-cantautore, Roberto Vecchioni.
Nessuno spazio, invece, per la politica: quando nel 1990 il sindaco di Bologna Renzo Imbeni (Pci) gli proporrà di candidarsi alle elezioni comunali, Lolli accetterà ma a patto di non essere eletto, senza fare campagna elettorale, solo per dare un contributo alla causa. Tirerà un grosso sospiro di sollievo scoprendo di essere stato il primo dei non eletti. E conservando forse la consapevolezza di non essere più molto amato dalla sua città, lui, bolognese atipico, come ricorda Giustini, “senza i segni distintivi del carattere genetico: generalmente ridanciano, allegro, abbastanza in carne”. Insomma, uno molto diverso dai vari Guccini, Dalla, Carboni…
Nessuna rinuncia alla musica, invece. Scrive alcune canzoni per un disco tematico sul cinema che non vedrà mai la luce (un paio di queste – “Keaton” e “Ballando con una sconosciuta” - saranno poi incise da Guccini), quindi pubblica il nuovo album omonimo Claudio Lolli (1988) con note di presentazione a cura di Stefano Benni. Un lavoro in cui il suo songwriting torna a rifugiarsi soprattutto negli arpeggi della chitarra e negli spartiti sobri degli esordi, oltre che in qualche fugace ricamo di sax.
Liricamente, però, Lolli resta un asso. Basti prendere anche solo il bozzetto esistenzialista di “La fine del cinema muto”, in cui l’argomento del titolo diviene il pretesto per esprimere lo sconcerto di questi “vecchi attori poco fonogenici e dalle tante malinconie” per una società contemporanea che ha messo “Un idolo d'oro al posto del sole/ Un nuovo dio che non riusciamo a comprendere/ Né a descrivere con le parole/ Un dio moderno che tutti adorano/ E che regala vuoti di memoria/ Un dio impaziente e annoiato /Che sembra stanco della nostra storia”.
Lolli canta la confusione di una generazione disorientata, piombata nella “terra di nessuno tra l'angoscia e Gorbaciov” (“Aspirine”), dove l’unico obiettivo sembra stare “insieme almeno dieci settimane” (chiaro riferimento a uno dei film-culto più patinati del decennio, “Nove settimane e mezzo” di Adrian Lyne). Un malessere che si rispecchia nei rapporti di coppia, in cui “Tutte le lingue del mondo non ci servono per capirci e l'unica lingua che ho non mi basta per baciarti” (“Tutte le lingue del mondo”) o sul suo nuovo mondo della scuola, cui Lolli dedica una piccola, struggente perla di nome “Via col vento”, dove partendo da un sogno/incubo con protagonisti Ronald Reagan e Margaret Thatcher (“Stavo sognando Ronnie stamattina con Maggie in ‘Via col vento’ ad Hiroshima”) si interroga sul suo ruolo di docente al cospetto di una nuova generazione innocente e fragile:
Di cosa parleremo stamattina
di Marx oppure dell'ottava rima
o studieremo
nella nebbia sui vetri
le probabilità
di futuro per gli innocenti
innocenti come siete voi
santi volgari ed ignoranti eroi
di un mondo che non vuole e comprerà
la vostra libertà
“Tempo perso” (nomen omen…) è invece la dimostrazione di quanto Lolli possa risultare a disagio in ambientazioni artificiose e forzatamente uptempo.
Dopo una curiosa prova da autore, per la canzone “Segreteria telefonica” degli Stadio (inserita nell’Lp “Siamo tutti elefanti inventati” della band bolognese), Lolli pubblica Nove pezzi facili (1992), il suo primo album stampato solo su cd, di fatto un’antologia, con tre canzoni in versione originale, tre rivisitate e tre inediti: la dolente ballata per i ragazzi della rivolta cinese di “Tien An Men”, la delicata “Vite artificiali” (altro inno alla voglia di vivere, seppur sospesi “tra le vite artificiali e le morti naturali”) e la versione musicata della poesia di Cesare Pavese “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Il titolo dell'album, invece, si ispira al film “Cinque pezzi facili” di Bob Rafelson (1970), dal quale, all’interno del booklet, viene ripreso un dialogo tra Bobby (Jack Nicholson) e Catherine (Susan Anspach).
L’acrobata della malinconia
Dal 1993 Lolli ricomincia a fare concerti col solo accompagnamento del maestro Paolo Capodacqua alla chitarra classico-elettrificata, in cui alterna i pezzi più celebri ad altri meno noti.
Il disco successivo, Intermittenze del cuore (1997), è aperto da un nuovo apologo politico, di nome “Curva Sud”, dove il tifo calcistico viene visto come il palliativo disperato (“i cori, bestemmie infelici, della curva Sud/ e i disperati stanno male, soli/ e lontani anche dalle parole...”) di un paese malato e confuso, che scivola verso nuovi fascismi (“Senti che aria di fasci stasera, stanotte… L’Italia è una macchina calda che va fuori strada, un processo alla moda, da un tempo lontano un saluto romano…”).
Ma nel complesso è un Lolli sempre più malinconico, che cerca rifugio in “una rima baciata” (“Dita”), nella dolcezza di una chitarra arpeggiata o di un rintocco di pianoforte, senza disdegnare sprazzi di ironia salace in formato spoken word, come quando chiede all’amico: “Ma dove vai a scopare, Ignazio/ Quando viene la sera/ Dopo la tua giornata morbida e pesante/ Come la crema pasticcera” (“Ignazio”), chiudendo con la consapevolezza che “è dura scopare, se non riusciamo a volerci bene, e non riusciamo a dimenticarci di questa guerra che viene”. Arrangiamenti da balera di paese nascondono un altro spicchio agro di una generazione bruciata, alla quale pare preclusa perfino la possibilità dell’amore.
Novello “Ulisse”, “navigatore solitario che discende in canoa le intermittenze del cuore”, Lolli osserva l'“Adriatico” dal finestrino del treno che corre verso Vasto, tramutandolo nella metafora minacciosa di un nemico che avanza (“Uno specchio lontano, statico/ E riflette il cielo poco sereno/ Di questi giorni da dimenticare/ Vissuti senza storia e il cuore/ Sotto il livello minimo del mare”) e si ferma a intonare provocatoriamente una “Canzone di bassa lega” (con spiazzante marcetta finale stile-Capossela ante litteram) e a ricordare “I musicisti di Ciampi”, che “non gli volevano bene e lo accompagnavano così, senza passione, e mentre lui cantava e moriva, loro facevano la loro professione”, incapaci di comprendere quella sua genialità “troppo strana e distruttiva”. E anche in uno dei suoi album meno incisivi, riesce ugualmente a commuoverci, con quell’immagine di una domenica col figlio in Piazza Maggiore, a cui ci invita a partecipare, se non riusciamo “davvero più a ridere, neanche all’ora del telegiornale” (“Il re dei piccioni”)
Venite con me una domenica in piazza
nella piazza più bella del mondo
dove io sono nato, e dove ancora resisto
nonostante il mio sonno profondo
e vedrete mio figlio, mio figlio pensate!
Una lisca di pesce con due occhi buoni
lo conoscono tutti ormai, perché lui lì è il re
lui è il Re dei piccioni
Trionfa ancora, insomma, la sua proverbiale malinconia, che però – come ricorda Alioscia Castronovo - “nasce da una continua ricerca esistenziale della felicità, dalla ricerca della comprensione dell’altro, della sua umanità, dall’empatia e dall’incontro con le inquietudini, le miserie, le frustrazioni e i desideri di diverse generazioni”.
Il decennio Novanta si chiude con Viaggio in Italia (1998), prodotto da Mimmo Locasciulli, in cui il cantautore bolognese propone alcuni rifacimenti di vecchi brani (da “Ho visto anche degli zingari felici” ad “Aspettando Godot”, da “Michel” a “L'isola verde”) e tre inediti (“L'amore ai tempi del fascismo”, quasi una profezia di una Italia sprofondata nel razzismo, nell’odio e nella paura del diverso, e poi “L'amore è una metamorfosi” e “Vorrei farti vedere la mia vita”) oltre a due canzoni (“Non conosco sorrisi” e “Come Fred Astaire”) scritte e cantate dal suo chitarrista, Paolo Capodacqua.
Ma la vera chicca è “Keaton”, nella versione originariamente scritta da Lolli, prima che venisse interpretata - e parzialmente modificata - da Guccini su “Signora Bovary” (1987): un altro saggio del suo songwriting sommesso e stralunato, dedicato a un bizzarro pianista che “non sorrideva mai”, tanto geniale nel suo mestiere quanto disastroso nella vita, insieme al quale Lolli sentiva di comporre una coppia di “acrobati della malinconia”. Ma la mente ovviamente corre all’altro Keaton, Buster, malinconicamente avviato verso il viale del tramonto, verso “la fine del cinema muto”. E, ancora una volta, tutto torna.
Nel 1998, finalmente, arriva per il cantautore bolognese anche il primo importante riconoscimento: il Premio Piero Ciampi alla carriera. Giusto in tempo, prima della fine di quel Novecento che ha saputo raccontare da par suo, dalla sua prospettiva defilata e di parte, ma sempre così umana e universale. E proprio alle apocalissi scampate del “secolo breve” dedicherà un monologo nell'album “Il ponte dei maniscalchi” di Luca Bonaffini (1999).
Brecht e i minimi del mondo
Lolli si ripresenta nel nuovo Millennio con il suo solito ghigno ostinatamente beffardo e controcorrente. Quello di uno che si sente sempre Dalla parte del torto (2000), come intitola il nuovo album, rifacendosi a una frase di Bertolt Brecht, citata nell'interno della copertina (“dato che tutti gli altri posti erano già occupati, ci siamo seduti dalla parte del torto”). In scaletta trovano posto alcuni classici riarrangiati (tra cui “Borghesia” insieme ai Gang, con quel “forse” ad apparire tra le parole "il vento" e "ti spazzerà via"), quattro inediti e, a far da spartiacque, un reading del poeta Gianni D'Elia a commento del vecchio album Ho visto anche degli zingari felici.
Passano i decenni e il professore bolognese resta lì, coerente e immutabile, sempre pronto a ingaggiare la sua donchisciottesca battaglia contro gli orrori e i soprusi del mondo. E pazienza se contro i mulini a vento c’è poco da fare: “Staremo sempre lì, seduti dalla parte del torto, con i minimi del nostro mondo, solo perché siamo fatti così e i minimi ci piacciono: i bambini, i vecchi, i poveri, i ladri, gli zingari, i drogati”, come spiega lo stesso Lolli accompagnando l’uscita.
Ma la bella notizia è soprattutto rivederlo volare agile e leggero tra le note soffuse della sua poesia-canzone, sempre più parlata e sussurrata, tra arrangiamenti raffinati e minimali: le chitarre di Capodacqua, con quel loro tintinnare liquido e onirico, sparuti tocchi di un'elettrica aggiunta, programmazione e tastiere di Diego Michelon e niente più. Ecco allora prendere vita la struggente “Nessun uomo è un uomo qualunque”, che rivendica la nobiltà di ogni vita ("Nessun uomo è un uomo qualunque/ il suo corpo può essere pieno/ di un amore cercato da tanto/di un amore pensato di corsa/di un amore che non perde il treno"), oppure l’altra ode nostalgica dedicata al leggendario “Folkstudio”, il tempio romano del cantautorato 70, dove “la gente alla fine vuol muovere i piedi/e scalare montagne davvero più alte di te/che rimani col fiato di vino/ a soffiare vetrate”.
E Lolli continua a soffiare i suoi versi con delicatezza, disseminando pensieri e indizi, costruendo nuovi testamenti immaginari, come quello della title track, in cui pare quasi rassicurare i suoi incrollabili fan:
Per voi ci sarà sempre il mio cuore incantato
forse malinconico ma mai rassegnato
una carezza alla luna, alle stelle
e un pallone sul prato
Una promessa strenua, da mantenere fino all’ultimo respiro, anche se “Il mondo è fatto a scale”, come ribadisce in un folgorante numero folk dal ritmo orecchiabile e dal testo sardonico.
Nel complesso Dalla parte del torto si rivela uno dei dischi più ispirati della produzione lolliana recente, celebrando e, al contempo, rinnovando il culto di uno dei cantautori più intransigenti della nostra storia musicale.
Il bisogno orizzontale
Nel frattempo, Claudio Lolli porta avanti anche un’attività parallela di scrittore, sia di prosa che di poesia, oltre a quella di docente (insegnerà fino alla pensione al Liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Casalecchio di Reno), ma senza tralasciare la sua musica: tra il 2002 e il 2007, gira l'Italia proponendo anche una rivisitazione del suo classico Ho visto anche degli zingari felici insieme alla formazione calabrese Il Parto delle Nuvole Pesanti.
Nel 2002 pubblica anche il live La terra, la luna e l'abbondanza, allegato al libro omonimo di Jonathan Giustini, edito da Stampa Alternativa, che offre un ritratto a tutto tondo della sua poetica.
Solita barba da profeta e capelli fluenti (benché diradati) in copertina, Lolli rinnova la sua eterna fissità nel 2006 con un album di soli inediti, La scoperta dell'America. “Un disco esistenziale”, come lo definisce. Così come è esistenziale, quasi un luogo dell’anima, l’America che affiora e scompare tra i suoi solchi.
È un altro manifesto del suo songwriting placido e trepidante, dove il suo “recitar canzoni” si prende ancora la scena, impreziosito da arrangiamenti curiosi, mai banali: snelli e sinuosi quelli dell’iniziale “Majakovskij e la scoperta dell’America” - tra piano, chitarre, synth e un intenso solo di sax - quasi folktronici quelli de “L’eterno canto dell’uomo”, dedicata alla tragedia dell’alluvione di Sarno, più intensamente elettrici quelli della tenera “Piccola storia di un dio”, musicata da Capodacqua.
Ma ad avvampare il disco sono soprattutto i lampi poetici del Professore, che vola libero tra amore e politica, assecondato da svirgolate di sax, nella splendida, quasi “fossatiana” “Bisogno orizzontale”:
Certo che ho bisogno di te
del mare nero, criminale
Delle tue onde che mi piegano
in un gioco naturale
Certo che ho bisogno di te
carta da lucido e da giornale
E il mio bisogno di te
è un bisogno orizzontale
Più verbosi il talking-folk alla De Gregori di “Nuovo carcere paradiso” e la ballata neo-partigiana di “Poco di buono”, mentre è una pietà asciutta a impregnare “Le rose di Pantani”, dove un ritornello esile e archi sintetici accompagnano la celebrazione del campione sconfitto ed emarginato, costruita in parallelo con le dinamiche di rimozione che hanno caratterizzato la tragica fine di Pier Paolo Pasolini (“l'autore assassinato di Scritti corsari”).
Chiude il “Medley con Rumori di rosa”, un reading estratto da un libro di poesie di Lolli (“Rumori di rosa” – ed. Stampa Alternativa).
Non tutto fila liscio, perché è vero – come scrive Giustini – che a volte Lolli “carica troppo di significati le sue canzoni, accanendosi sulla correttezza teorica e perdendo in immediatezza, semplicità, spontaneità”. Vero, ma solo in parte e per la seconda parte della sua carriera, poiché più spesso è stata la superficialità della ricezione a disperdere le potenzialità dirompenti dei suoi versi.
L'anno successivo Lolli partecipa alla realizzazione del secondo album di Andrea Parodi, “Soldati”, cantando nel brano “Per non sentirsi soli”. Quindi, nel 2008, riceve l’omaggio di Luca Carboni e Riccardo Sinigallia, con una riuscita cover della seconda parte di “Ho visto anche degli zingari felici”. Al brano, inserito nell’album “Musiche ribelli” di Carboni, viene affiancato un video al quale, oltre agli autori, partecipa lo stesso Lolli. Sinigallia porterà il brano anche al Festival di Sanremo 2014, nella serata delle cover, insieme a Paola Turci e Marina Rei.
Quindi, è la volta di Lovesongs (2009), che celebra il lato sentimentale di Lolli, rivisitando le più belle canzoni d'amore del suo repertorio, con il contributo del fido Capodacqua e del sassofonista Nicola Alesini.
Un anno dopo, il cantautore bolognese riceve l’abbraccio di una nuova generazione di fan, partecipando al Concerto del Primo Maggio, dove attacca il suo set proprio con “Primo maggio di festa”. Inoltre continua a portare sul palco le sue esperienze di reading, da moderno beatnik e poeta concreto, senza prendersi mai sul serio, anzi, marcando quasi con (auto)ironia le distanze da se stesso. E non manca di dare il suo sostegno a eventi sociali e politici: il 25 settembre 2010 suona al Forum Sociale Antimafia del Nord, dopo la manifestazione per ricordare Peppino Impastato e l'intitolazione della biblioteca di Ponteranica; il 19 luglio 2012 si esibisce a Brolo in un raduno per ricordare Paolo Borsellino, assieme a numerosi volti dello spettacolo e della canzone italiana. Il 29 agosto 2012 torna in Sicilia cantando al Lido dei Ciclopi di Acitrezza, un bene confiscato alla mafia. Il 16 aprile 2014, invece, è tra gli ospiti di We Love Freak, un concerto in onore di Roberto "Freak" Antoni, scomparso due mesi prima.
Le lacrime dei nostri furori
Quasi a sorpresa, dopo una pausa discografica di otto anni, arriva il nuovo album, Il grande freddo (2017) con cui finalmente si aggiudicherà la Targa Tenco. Suona incredibile, quindi, il fatto che il disco sia potuto uscire solo grazie al crowdfunding (su becrowdy.com). Un tale paradosso da porre quasi in secondo piano quello principale: il fatto cioè che un maestro come Lolli abbia dovuto aspettare 45 anni di carriera per ottenere il più prestigioso riconoscimento riservato ai nostri cantautori.
Per tornare a scoperchiare il suo universo poetico, il professore bolognese ricorre al titolo di un celebre film di Lawrence Kasdan che divenne metafora dell’intero decennio 80. “Il grande freddo”, però, non è solo lo spunto per un nuovo ritratto generazionale agrodolce, venato dalla malinconia e dal disincanto. È soprattutto un condensato positivo di racconti di vita, nato sui tavoli grezzi di un'osteria, laddove a Bologna “si prendono le decisioni”. Tutto il disco è giocato sul contrasto tra il freddo di fuori (specchio dell’indifferenza della società attuale) e il caldo di questa combriccola di amici, rifugio intimo, familiare, che Lolli ha voluto estendere agli stessi musicisti, recuperando il nucleo degli Zingari Felici: Danilo Tomasetta (fiati) e Roberto Soldati (chitarra).
La lunga pausa è servita al cantautore bolognese per mettere a fuoco una istantanea nitida dei nostri tempi, da una prospettiva matura, sconfortata ma serena al contempo. Come nei disegni dell'artwork - a cura dell'artista salentino Enzo De Giorgi - il tratto di Lolli resta leggero, senza cedere mai alle facili lusinghe del cinismo e della polemica politica, anche quando deve fare i conti con la fine di un'utopia collettiva di cui è stato protagonista e cantore: “Il fatto è che non sogno più e dovrei”, si autoaccusa tra i fiati sinuosi di “Non chiedere”.
Anche se la vita (così come la morte) “ha una guida sportiva”, Lolli canta sempre con voce soffusa, carezzevole, dissolvendo via via quel grande freddo che “si può sciogliere solo con le lacrime dei nostri furori”, come profetizza nella splendida title track, tra i morbidi rintocchi di piano e i fraseggi di sax, sempre raffinatissimi, di Tomasetta:
E quanto amore perduto negli autobus
In questo circo di gente diversa
Per cui la vita è soltanto una lotta
Ma è troppo spesso una battaglia persa
Una grande mondo sicuramente non bello
Ma fatto di briciole di tanti amori
Un grande freddo che si può sciogliere
Solo con le lacrime dei nostri furori
Le sue interpretazioni si adagiano spesso in un talking morbido, scandendo le parole, sottolineando le melodie, fissando gli attimi, persino quando tutto scorre frenetico, proprio come ne “La fotografia sportiva” (trainata da un basso ipnotico e ispirata dal fotoreporter bolognese Roberto Serra).
Chi si è invaghito delle prodigiose aperture strumentali degli “Zingari felici” ritroverà quel gusto per l’improvvisazione, per il volo libero, ad esempio nei repentini, laceranti soli di fiati e chitarra elettrica che squarciano “400000 colpi”, in cui l’omaggio a Truffaut diviene il pretesto per una riflessione sulla solitudine (“da soli come quando arriva al mare Jean Pierre Léaud”). È il primo di una serie di personaggi disillusi, che devono fare i conti con questa condizione di isolamento: il combattente di “Sai com’è” (lettera postuma del partigiano Giovanni alla moglie Nori), “Gli uomini senza amore”, a passo di bossa nova, il “Prigioniero politico” (autoritratto elettrico in chiaroscuro) e le donne omaggiate con l’ironica “Principessa Messamale”, che riporta alla mente i lampi lirici di “Anna di Francia”, confermando l’abilità di Lolli nel saper descrivere come pochi l’universo femminile, in questo caso, attraverso le forme, forse un po’ flaccide, di una prostituta decadente, che ha messo la sua intera esistenza al servizio degli altri.
Si chiude con la combriccola lolliana radunata nel suo bunker, la sala d’incisione, a osservare un “Raggio di sole”, chiedendosi se si riuscirà mai a sconfiggere il grande freddo: un reading intarsiato dai fiati e dagli arpeggi della chitarra acustica, che conclude il disco nel modo più commovente (con tanto di citazione di De André: "Non so se tutti morimmo a stento"). Perché nessuno come Lolli sa che non ci sono mai risposte definitive, ma che se “è vero che non ci capiamo, che non parliamo mai in due la stessa lingua”, non c’è altra via d’uscita che recuperare i sentimenti perduti: “Quanto amore sprecato negli autobus, tra gente che potrebbe volersi bene” – come recita il geniale incipit del disco.
Impossibile, per chi ama da sempre Lolli, restare indifferenti a questo suo nobile, maestoso colpo di coda. C’è fierezza nel suo amarcord, perché, al contrario di Gaber, il bolognese è convinto che, in qualche modo, la sua generazione ha vinto. Abbattendo steccati, convenzioni, autoritarismi. Ma non c’è passatismo o rifiuto del presente nei suoi versi. Al contrario, si dichiara ad alta voce che “fermare il pressing pazzo dell’infelicità” è possibile solo “con la grande meraviglia della novità” (“La fotografia sportiva”). Anche perché “invecchiare va bene, sì, ma adulto mai” (“Non chiedere”). Ecco, allora, che la lezione poetica di Lolli torna di bruciante attualità. Unica, per spessore, profondità e ironia, nel panorama – invero, non esaltante - del cantautorato italiano attuale. Forse, allora, non è proprio un caso o soltanto un premio alla carriera: quella Targa Tenco, sposata ai disegni naif de Il grande freddo, si abbina a meraviglia.
Purtroppo, però, resterà anche l’ultima testimonianza musicale di Claudio Lolli. Malato da molti anni di cancro, il cantautore bolognese muore il 17 agosto 2018 all'età di 68 anni dopo un improvviso malore, lasciando la moglie Marina e i figli Federico e Tommaso e gettando nello sconforto i suoi affezionati fan, che però non perderanno occasione per continuare a omaggiarlo. Anche il suo mentore e amico Francesco Guccini gli rivolgerà un omaggio commosso, in occasione di un’intervista per il suo ottantesimo compleanno: “Sono stato molto amico di Claudio Lolli, grande poeta, grandissimo autore di canzoni, meglio di me. Ha avuto solo la sfortuna di non riuscire ad accattivarsi il pubblico”.
Personalmente, non potrò mai dimenticare l’intervista che mi concesse nel 2014, quel tono di voce sempre sottile, garbato, come quello delle sue canzoni, ma anche quell’ironia, pungente e tenera al contempo. “Spero che il suo prossimo disco possa uscire e che magari, con l’occasione, qualcuno possa riscoprire anche le sue vecchie canzoni”, lo congedo. “Mi piace il suo ottimismo”, mi replica lui, con un sorriso che immaginerò per sempre nascosto sotto la sua folta barba bianca.
Chissà se il tempo sarà galantuomo con questo acrobata della malinconia, invecchiato con fierezza tra poesie semi-clandestine e lezioni appassionate tra i banchi del liceo. Chissà se un giorno sarà possibile finalmente leggere la sua opera scrostandola dai pregiudizi politici e dalle etichette dure a morire. “Oggi gli zingari non sono ben visti, abbiamo un prezzo imposto, per sopravvivere dobbiamo mimetizzarci da brave persone, ma sul nostro sorriso non si può mentire”, scriveva nel 2006, nelle note di copertina della ristampa del suo capolavoro. Noi ce lo immagineremo sempre lì, al suo tavolo d'osteria. Rigorosamente seduto dalla parte del torto.
Aspettando Godot (Emi/Columbia, 1972) | |
Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (Emi/Columbia, 1973) | |
Canzoni di rabbia (Emi/Columbia, 1975) | |
Ho visto anche degli zingari felici (Emi/Columbia, 1976) | |
Disoccupate le strade dai sogni (Ultima Spiaggia, 1977) | |
Extranei (Emi, 1980) | |
Antipatici antipodi (Emi, 1983) | |
Claudio Lolli (Emi, 1988) | |
Nove pezzi facili (Emi, 1992) | |
Piazza... strade... sogni (antologia, Emi, 1995) | |
Intermittenze del cuore (Thm/Tide Records, 1997) | |
Viaggio in Italia (Hobo, 1998) | |
Dalla parte del torto (Storie di note, 2000) | |
Collezione (antologia, Emi, 2001) | |
La terra, la luna e l'abbondanza (live, Storie di note, allegato al libro omonimo edito da Stampa Alternativa, 2002) | |
Ho visto anche degli zingari felici (Storie di note, live, con Il Parto delle Nuvole Pesanti, 2003) | |
Made In Italy (antologia, Emi, 2004) | |
La via del mare (live, 2005) | |
Studio collection (2cd, antologia, Emi, 2005) | |
La scoperta dell'America (Storie di note, 2006) | |
Claudio Lolli: The Best Of Platinum (antologia, Emi, 2007) | |
Lovesongs (Storie di note, 2009) | |
Il grande freddo (La Tempesta, 2017) |
Claudio Lolli in concerto | |
Claudio Lolli - Concerto live in tv - Con Paolo Capodacqua | |
Michel | |
Ho visto anche degli zingari felici | |
Primo maggio di festa (live dal Concerto del 1° maggio, 2010) | |
Claudio Lolli - Salvarsi la vita con la Musica |
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