Lucio Dalla

Lucio Dalla

1979 (Rca)
songwriter, pop-rock

“Lucio dove vai? Neppure tu sai più perché, ma canti, ma canti…”. Quei buffi versi autocommiserativi scritti nel 1971 con Sergio Bardotti (“Lucio dove vai”) risuonavano nella mente di Dalla dopo la separazione artistica con Roberto Roversi. Un senso d’inadeguatezza lo stava paralizzando. Poi, però, aveva preso coraggio. E con “Come è profondo il mare” aveva trovato la più sorprendente e confortante delle risposte. Un disco in cui l'omino bolognese, chiamato a scriversi da solo per la prima volta tutti i testi, si rivelava autore sensibile e fantasioso, mescolando idealismo politico e sentimenti, eccentricità e humour. Anche senza l'apporto dell'amico-poeta con cui aveva forgiato la magica trilogia delle automobili, Dalla era riuscito a sfornare versi sbalorditivi, scandagliando i sentimenti, inventandosi curiose riflessioni filosofiche, trasformando piccole storie quotidiane in affreschi universali. Il piccolo clown peloso incompreso e deriso negli anni 60 era pronto a spiccare il balzo finale. Come nella favola del rospo che si trasforma in principe.

Nome, cognome e band

Il disco della consacrazione definitiva non ha nemmeno bisogno di un titolo. Bastano nome e cognome: “Lucio Dalla”. Perché l’importante è il contenuto: nove pezzi che faranno la storia della canzone italiana. Senza neanche una pausa o un riempitivo per riprendere fiato.
Registrato al Castello di Carimate (Como) e più curato del predecessore in sede di produzione - con la premiata ditta Alessandro Colombini-Renzo Cremonini in cabina di regia – l’album si affida a un inedito stile di ballata pop, senza disdegnare improvvise variazioni di ritmo e incursioni in territori blues-rock. È l’apice di quello stile prontamente definito dalla stampa dell’epoca “Dalla-sound”: un suono roccioso, denso, riconoscibilissimo. Una miscela di radici mediterranee, visceralità soul e soft-rock anglosassone, alla quale – oltre al solito zampino di Ron - contribuiranno in modo cruciale i musicisti della sua band, i futuri Stadio: Giovanni Pezzoli alla batteria, Marco Nanni al basso (colui che aveva già reso grande “Come è profondo il mare”), Fabio Liberatori alle tastiere, più una new entry dirompente: il chitarrista Ricky Portera, che con i suoi "solo" marchia a fuoco gli episodi più rock. Proprio la chitarra, seppur in versione più elettrica che acustica, irrompe prepotentemente nel suono di Dalla, che fino a quel momento aveva preferito battere altre strade, quasi a rimarcare la sua formazione jazz rispetto ai colleghi di impostazione folk (De Gregori, Guccini, Venditti, Vecchioni, De André). Perfettamente funzionali al progetto anche gli inserti di fiati – storico pallino dell’ex-jazzista della Rheno Dixieland Band - e gli arrangiamenti d'archi di Giampiero Reverberi, che aggiungono un pizzico di epos e romanticismo in più.
Ciliegina sulla torta, le interpretazioni di Lucio, il soulman italiano che Gino Paoli aveva scoperto nei jazz-club degli anni 60. Interpretazioni sempre vibranti e appassionate, che non si limitano a recitare gli spartiti, ma li stravolgono attraverso tutta la dimensione fisica, corporale e gestuale di cui il bolognese è in possesso, unita a quella vena di ironia corrosiva, marchio di fabbrica della casa fin dai tempi di “Pafff... bum” e della “Intervista con l'Avvocato”.

A differenza di altre produzioni cantautorali del periodo, dunque, in “Lucio Dalla” l’aspetto musicale si rivela determinante tanto quanto i testi. Ma non si può certo sorvolare su come questi ultimi siano un’opera a sé: prodigi di struggente intensità poetica, incredibilmente fluidi da sembrare quasi scritti di getto in una notte, tutti giocati sulle assonanze in un miscuglio di lingua colta, sintassi parlata e dialetto. A differenza di molti suoi colleghi, Dalla non è mai ricercato, forbito, letterario. Il suo lirismo è pura poesia da marciapiede, tanto viscerale e diretta quanto spiazzante e visionaria. Un’operazione di semplificazione del lessico cantautorale, se si vuole, illuminata però dall’imprevedibilità del genio, che fa sì che ogni verso risulti perfettamente comprensibile e al tempo stesso mai banale. “Quello che dicono le mie canzoni potrebbe dirlo anche mia zia” - ha sempre tenuto a ribadire. Già, ma il punto è come si dice. E il Dalla di questo periodo ha un modo unico per farlo. Un “realismo fiabesco” impregnato di malinconia, un miscuglio di tenerezza e alienazione in cui il colpo di scena o la battuta salace arrivano spesso a stemperare il dramma, attraverso quella “tecnica della distrazione” cara anche a Cechov. Emblematica “L’ultima luna”, con la sua narrazione distopica in costante alternanza fra tragedia e farsa: “La sesta luna/ Era il cuore di un disgraziato/ Che, maledetto il giorno che era nato/ Ma rideva sempre/ Da anni non vedeva le lenzuola/ Con le mani sporche di carbone/ Toccava il culo a una signora/ E rideva e toccava/ Sembrava lui il padrone”. O ancora: “La quinta luna/ Fece paura a tutti/ Era la testa di un signore/ Che con la morte vicino giocava a biliardino”. Per tacere dello scimmione che “si aggirava tra la giostra e il bar” e dell’angelo di Dio che “bestemmiava, facendo sforzi di petto”!

Le stelle nei flipper

Nemico dei fronzoli e degli artifizi, Dalla punta dritto al cuore dell’ascoltatore. Lo spinge a sognare, a guardare le stelle e inseguire la luna, ma mantenendolo sempre radicato alla terra - “E la luna è una palla ed il cielo è un biliardo/ Quante stelle nei flipper sono più di un miliardo” – (“Anna e Marco”), alla semplicità e alla carnalità della vita quotidiana, come quella delle balere rurali di “Tango”: “Tutte le stelle del mondo/ Per un pezzo di pane/ Per la tua donna/ Da portare in campagna a ballare/ Per un treno con tanta gente/ Che parte davvero/ Per un tango da ballare tutti insieme/ Ad occhi aperti senza mistero”.
Sembrano quasi preghiere laiche, nel nome dell’unica religione davvero mai professata da Dalla: un umanesimo universale, che si sublimerà un anno dopo in un verso di “Balla balla ballerino”: “Ecco il mistero/ Sotto un cielo di ferro e di gesso, l'uomo riesce ad amare lo stesso/ Ama davvero, senza nessuna certezza/ Che commozione che tenerezza”. Anche negli episodi più grotteschi o drammatici, il cantautore di “Piazza Grande” conserverà sempre uno sguardo pietoso sulla natura umana, una speranza recondita nei vincoli d'affetto come unica via di scampo dalla tirannia di “Madonna Disperazione”.

Risulta quasi imbarazzante dover raccontare canzoni filtrate sottopelle nei sentimenti e nelle emozioni di ognuno, al punto da essere ormai entrate nell'immaginario nazionale. Proviamo a partire dalle meno note (pochissime, in realtà), tasselli ugualmente indispensabili di un mosaico in cui ogni tessera è al posto giusto. Ad esempio, l'episodio più criptico del lotto, “La signora”, ritratto musicalmente sommesso ma liricamente graffiante del potere e delle sue incarnazioni (“La Signora è una fila di macchine da qui fino al mare/ la Signora ci stampa il giornale e ce lo fa comperare/ La Signora ha tanti nomi, tanti nomi/ così da nascondersi e non farsi trovare/ ma a volte si veste di luci e bandiere per farsi notare”), ma anche apologo ambiguo delle frustrazioni borghesi (“La Signora è in lacrime, e si ferma ad ascoltare/ attraversa e si blocca a metà della strada/ un colpo di vento la fa continuare”). Con il basso implacabile di Nanni ad assecondare il cantato di Dalla, che sfocia nei suoi classici vocalizzi soul.
Oppure prendiamo “Notte”, che scorre come una fitta pioggia scura di pensieri sottili, in un susseguirsi di versi mozzafiato: “Notte bianca come il vestito di una sposa/ in leggera discesa così che il corridore stanco si riposa/ dura da masticare, a pezzi tra i denti, notte da sputare/ così noiosa che si addormenta sul divano e mi viene addosso”. Del resto, la fascinazione notturna, spesso surreale se non metafisica, resterà sempre uno dei temi ricorrenti del canzoniere di Dalla.
A chiudere questo ideale trittico di episodi solo apparentemente minori, la struggente “Tango”, aperta dagli archi arrangiati da Reverberi e dalla fisarmonica di Gianni Ziglioli, e chiusa da una quartina-killer: “Morena è lontana e aspetta/ suona il suo violino ed è felice/ nel sole è ancora più bella e non ha fretta/ e sabato è domani”. Un abisso di radiosa malinconia.
Proprio negli episodi più intimi e appartati, Dalla rivela quella fluidità di scrittura, quella capacità di fissare l'immagine definitiva in un pugno di versi, che resterà - almeno fino all'inizio del decennio successivo - la sua arma in più.

Sacchi di sabbia alla finestra

Poi, naturalmente, ci sono gli evergreen. Come la succitata “L’ultima luna”, cronaca di un'ordinaria apocalisse, tra scimmioni in giro per le strade, signori eleganti con le orecchie insanguinate e file di prigionieri in ceppi. Una narrazione che si snoda in crescendo fino a quando “sospesero i giochi e si spensero le luci, cominciò l’inferno, la gente corse a casa perché per quella notte ritornò l’inverno”. È qui che entra in gioco Portera con un assolo memorabile che prelude al pannello finale, l'unico, forse, a concedere un briciolo di speranza: “L’ultima luna la vide solo un bimbo appena nato/ aveva occhi tondi e neri e fondi e non piangeva/ con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani/ e volò via e volò via: era l’uomo di domani”.
Non ci sono parole per commentare l’infinita dolcezza di “Stella di mare”, ballata sentimentale in cui il piano s’inerpica sul ritmo dettato dal basso di Nanni e dalla batteria di Pezzoli, mentre l'elettricità di Portera spiana la strada al canto sempre più concitato di Lucio. Una struttura in crescendo che ricorrerà in altri classici successivi - da “Futura” a “Balla balla ballerino” – ma che ritroviamo anche nella “hit delle hit” di questo album, “L’anno che verrà”. È l’ennesimo squarcio visionario, a ritrarre un'era pigra e svogliata (“Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po'”), in cui il tramonto delle utopie rischia di scivolare nella disillusione e nell’omologazione. Un'epoca in cui si esce poco la sera, forse per la paura degli anni di piombo che stanno avvelenando il paese. Il verso finale – “Io mi sto preparando, è questa la novità” - può così essere letto come l'ultimo scatto di ottimismo o la definitiva capitolazione al realignment dell'incombente decennio 80. Domina in ogni caso, qui come in tutto il disco, un senso di frastornata incertezza per un futuro assai poco tranquillizzante. “C’è una certa amarezza che gira per la canzone – racconterà lo stesso Dalla - perché in fondo parla di noi: sacchi di sabbia alla finestra... Li mettono adesso: questo è il paese degli antifurti. È un discorso pessimista, in qualche modo; però c’è, alla fine, il riscatto: anche se l’anno prossimo sarà brutto, io ci voglio essere. È questa la novità”.

E poi c’è “Anna e Marco”, per chi scrive forse la canzone definitiva di Lucio Dalla. Una favola adolescenziale dolceamara, tremendamente commovente. Quasi un corto cinematografico “con un’aria da commedia americana” per la densità di immagini che riesce a evocare. Ambientata in una desolante discoteca di periferia (“Anna bello sguardo non perde un ballo, Marco che a ballare sembra un cavallo… in un locale che è uno schifo, poca gente che li guarda, c’è una checca che fa il tifo”), “Anna e Marco” è una parabola sull’eterno conflitto tra la routine opprimente e il sogno impossibile, incarnato da un’America “lontana, dall’altra parte della luna” che “a vederla mette quasi paura”. E allora l’unica via di scampo – come spesso nei versi di Dalla – è ritrovare in se stessi e nei propri sentimenti una ragione di vita: “Anna avrebbe voluto morire/ Marco voleva andarsene lontano/ Qualcuno li ha visti tornare/ Tenendosi per mano”. Si ameranno, forse per sempre, con la stessa consapevolezza liberatoria con cui un anno dopo Meri Luis benedirà il cielo “come fosse un fratello per le sue belle tette e per l’amico che le vuole toccare” (“Meri Luis”, 1980).

Truffando la malinconia

Completano il quadro altri due episodi cruciali. Anzitutto, l'amara ode a “Milano”, la metropoli del Nord sospesa tra modernità e nostalgia, nobili tradizioni - anche calcistiche - e progresso disumanizzante. Ancora una sequenza di immagini straordinariamente incisive: “Milano vicino all'Europa/ Milano che banche che cambi/... Milano che quando piange/ piange davvero/... poi Milan e Benfica/ Milano che fatica/... Milano sguardo maligno di Dio/ zucchero e catrame”. Si gioca con “Luci a San Siro” la palma per la più bella canzone mai scritta su Milano (per di più, in questo caso, da un non milanese).
Infine, affiora il primo assaggio della fortunata collaborazione con Francesco De Gregori, destinata a culminare pochi mesi dopo nell’acclamatissimo tour di “Banana Republic”. “Cosa sarà” (firmata con Ron) era già uscita – in una differente versione – come lato B del 45 giri “Ma come fanno i marinai” nel dicembre del 1978 e qui ritrova tutta la sua gioiosa armonia attraverso il suo pastiche di pungenti interrogativi (“Cosa sarà che fa morire a vent'anni anche se vivi fino a cento…  Cosa sarà che ti spinge ad amare una donna bassina e perduta… Cosa sarà che ti spinge a picchiare il tuo re e che ti porta a cercare il giusto dove giustizia non c'è”). Un duetto impareggiabile, in cui i due si ritrovano già a meraviglia, con quell’irresistibile solo di sax finale di Dalla che pare quasi voler esprimere tutta l’euforia per questo nuovo emozionante incontro.

Coppola rossa o blu in testa, in braghe di tela e canottiera, Dalla porterà queste canzoni in giro per l'Italia, sfoderando una presenza scenica e mimica sconosciuta ai nostri cantautori e stabilendo un definitivo vincolo di affetti con il pubblico. Ma anche da questi nove brani non ci si potrà mai affrancare. “Lucio Dalla” resterà campione di vendite per 52 settimane consecutive, per complessive cinquecentomila copie vendute in un solo anno. I suoi pezzi entreranno in rotazione permanente su tutte le radio italiane, da qui all’eternità. Finirà in molte classifiche sui migliori album italiani di sempre (anche su Rolling Stone, al n. 40). E darà la sensazione di costituire un unicum irripetibile, privo di sbavature e curato fin nel minimo dettaglio, inclusa la copertina, stampata a quattro colori su cartoncino lucido, con il faccione di Dalla in primissimo piano.
Ma il cantautore bolognese non si fermerà qui: almeno fino al Q-Disc del 1981 continuerà a sfornare canzoni praticamente perfette, in una sequenza esaltante di successi. Poi inizierà il lento declino, pur inframezzato da altri lampi di creatività.
“Lucio Dalla” rimarrà però l’istantanea di un miracolo, di un sogno, magari vissuto tutto in una notte (“Prima che il giorno ti porti via”), di tutte le ansie e le contraddizioni umane, filtrate attraverso un paio di occhialini tondi.

03/03/2019

Tracklist

  1. L'ultima luna
  2. Stella di mare
  3. La signora
  4. Milano
  5. Anna e Marco
  6. Tango
  7. Cosa sarà (con Francesco De Gregori)
  8. Notte
  9. L'anno che verrà






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