Gli Who giungono al loro primo 33 giri in seguito a un veloce apprendistato sotto il nome di High Numbers (nel 1964) e a due singoli che si fanno notare (anche in classifica) per immediatezza: “I Can’t Explain” (dicembre 1964) e “Anyway, Anyhow, Anywhere” (maggio 1965).
Il quartetto inglese scrive e registra il proprio Lp d’esordio durante l’estate-autunno 1965, denominandolo “My Generation” come il famoso singolo che da esso verrà estratto.
I dodici brani del disco (35 minuti totali) vengono pubblicati in dicembre, denotando l’alternanza di quattro generi musicali: pop-rock, rhythm and blues, garage rock e rock. Dosati secondo proporzioni differenti, questi ambiti musicali sono espressi con l’urgenza derivante dalla giovane età dei musicisti e dal loro desiderio di affermare la propria travolgente arte.
Le tracce risultano coerenti tra loro grazie al suono distintivo della band, guidato dalla chitarra elettrica Rickenbacker del leader Pete Townshend (20 anni, chitarra elettrica, voce, cori). Townshend vota le sei corde all’impatto sonoro più che alla tecnica, con un esito in grado di colpire nel segno per l’energica e diretta vivacità. La sua chitarra, resa famosa dai Beatles qualche anno prima, è moderatamente distorta, ma suonata con una veemenza e una dinamicità che ne rendono il suono più sporco e ruvido rispetto a quello espresso dalle Rickenbacker di altri gruppi del periodo.
Gli altri membri (John Entwistle: 21 anni, basso elettrico, cori; Keith Moon: 19 anni batteria; Roger Daltrey: 21 anni, voce) si pongono con successo al seguito delle idee di Townshend, autore di tutti i pezzi originali, dei testi e degli arrangiamenti presenti in questo debutto discografico.
Lungo il percorso delineato dall’Lp emerge subito un elemento estremamente rilevante sia per la carriera del gruppo che per il futuro del rock: lo stile percussivo del diciannovenne Keith Moon. L’impetuosa, selvaggia inventiva sprigionata dalla batteria di Moon doveva ancora esplodere nell’infuocato capolavoro del suo suono di fine anni 60-inizio 70; tuttavia, qui ne possiamo avvertire le entusiasmanti avvisaglie. Una esuberante e articolata follia creativa che percorre con rapida aggressività tutti i tamburi e i piatti dello strumento, aprendo possibilità ritmiche inedite e di grande di impatto. Fin dalla prima traccia, il batterista chiarisce, senza possibilità di smentita, di avere una marcia in più rispetto a tutti i colleghi di metà anni 60 (sia inglesi che americani).
Le frenetica sequenza di stop e ripartenze, dal sapore aggressivo e trascinante, che incontriamo nel garage rock di “Out In The Street”, mette in evidenza una tecnica istintiva, impossibile da raggiungere o replicare proprio perché innata e spontaneamente complessa. Altri esempi eloquenti ci vengono offerti nel bel pop-rock di “A Legal Matter” (unica canzone cantata da Townshend) e di “Much Too Much”, nei quali l’irrefrenabile veemenza e la travolgente varietà di soluzioni escogitate dal batterista si manifestano esplicitamente.
Compaiono già in questo album anche gli elaborati e roboanti fill, caratteristici dello stile di Moon alla batteria, i quali rendono il suo serrato pattern ritmico ancora più irresistibile. “The Kids Are Alright” ne è il miglior esempio, ma vale decisamente la pena di fare attenzione al loro prorompente uso anche in “My Generation”. I fill di Moon raggiungono la loro forma più scatenata in “It’s Not True”, dove investono i ritornelli con raffiche di colpi inconcepibili nel il 1965 (ad esempio dal minuto 1.07 al minuto 1.19).
Nelle tracce di “My Generation” vediamo così affiorare un nuovo modo di gestire la batteria, il quale cambierà per sempre l’approccio a questo strumento, in favore di una modalità significativamente più combattiva e meno legata alla teoria del basso continuo rispetto al passato.
L’alternarsi di profondi e fitti colpi di gran cassa, fragorosi affondi sul piatto crash e intense scorribande sui tom tom, segnano non solo lo stile arrembante appena creato da un batterista inarrivabile, ma genereranno una cambio di mentalità, quasi filosofico, al ruolo della batteria nel rock e nel pop-rock. Impossibile ignorare poi che in diversi punti del disco Moon tratta questo strumento da solista, irrompendo in primo piano e inserendo negli arrangiamenti elementi ritmici slegati dal mero mantenimento del tempo. Si tratta di una novità molto importante, dai molteplici risvolti per la storia della batteria, la quale vede qui la sua prima, benché ancora incompleta, sperimentazione.
Un altro fattore di cruciale rilevanza presente in questo debutto su 33 giri, che negli anni successivi si confermerà centrale all’interno della musica degli Who, è rappresentato dai potenti e incisivi accordi di Townshend alla chitarra elettrica. Essi sottolineano con forza alcuni passaggi strumentali, mettendo un accento ribelle e sfrontato sulla musica del gruppo.
La forzatura del suono così ottenuta corrisponde a un preciso modo di intendere la propria musica da parte di Townshend: una forma d’arte che deve rimanere profondamente impressa e, nello stesso tempo, scardinare le abitudini e le convenzioni sociali. In particolare, questa tecnica chitarristica imprime la sua profonda impronta in “The Kids Are Alright” (ascolto dal minuto 2.00 al minuto 2.18) e nella parte finale di “My Generation”. Si tratta di una peculiarità sonora che verrà presto accompagnata sul palco dallo scenografico gesto, tipico di Townshend, del “mulino a vento” (“Windmill” in inglese).
Le parole scelte da Townshend per dare voce ai brani degli Who in questa fase iniziale della loro carriera non penetrano ancora argomenti delicati e profondi, come accadrà invece già dall’album successivo della band inglese. Inoltre, l’ironia e il sottile sarcasmo che accompagneranno le liriche di Townshend negli anni a venire non riescono a emergere se non in minima parte. Il tema dell’amore, della passione, del desiderio e delle schermaglie sentimentali orienta la quasi totalità dei testi, i quali rimangono complessivamente ancora in superficie dal punto di vista contenutistico.
Una eccezione doverosa va però fatta per la title track: “My Generation”. Inno irriverente, plasmato per una generazione impaziente di farsi largo nella società ancora prevalentemente conservatrice, questo testo rimarrà tra i più significativi nella storia del rock. Le sue frasi massimaliste e intransigenti scossero, e continuano a farlo ancora oggi, le fondamenta dell’establishment britannico, rappresentando senza filtri il pensiero di una gioventù che si sentiva oppressa ed eccessivamente giudicata.
I duri termini contenuti nella canzone (“Why don’t you all fade away”) non sono però puramente provocatori (“I’m not trying to cause a big sensation”), bensì un ritratto crudo ed estremamente diretto delle difficoltà sociali e relazionali che stavano attraversando i ventenni inglesi di metà anni 60 (“I’m just talkin’ ‘bout my generation”). Il verso più controverso del brano (“I hope I die before I get old”) è una iperbole capace di rendere concretamente tangibile il disagio e il rifiuto dei giovani verso le abitudini consolidate imposte loro da genitori e nonni. Una diffidenza e una ostilità rispetto al cambiamento e a nuovi modi di fare che gli Who, a nome della loro generazione, demoliscono simbolicamente con i rivoluzionari 3 minuti e 18 secondi di “My Generation”.
Anche dal punto di vista musicale “My Generation” merita un rilievo particolare. Con questo storico pezzo gli Who partecipano al movimento musicale rock, nato da pochi mesi, con la brusca determinazione di questa primordiale e bellicosa composizione, in cui si ravvisa con sbigottito piacere il picco assoluto dell’album. L’assalto sonoro costituito dalle strofe è interrotto da stop che lasciano la voce da sola a declamare gli incendiari versi del brano ed è conseguito mediante l’abbinamento tra basso elettrico, chitarra elettrica e batteria. Un’onda d’urto sonora che si muove tra balzi in avanti e arresti, fino a esplodere liberamente nel ritornello. La coda che costituisce il burrascoso e caotico finale (dal minuto 2.22 fino al minuto 3.18) è segnata da alcune acute pulsazioni, causate dal feedback della chitarra di Townshend e dalla batteria di Moon, inarrestabile nella sua devastante furia creativa.
Vanno infine menzionati i due “errori” intenzionali che contraddistinguono l’insolente linea vocale di Daltrey in “My Generation”: il balbettio simulato e la mancata sincronizzazione tra voce solista e cori nelle strofe. In questo modo la musica degli Who ribadisce vistosamente la volontà della band di attaccare il conformismo di una società ancora fortemente tradizionalista. Le violente sperimentazioni sonore con le quali termina “My Generation”, insieme alla sua impertinente struttura musicale e al canto volutamente anomalo, aggiungono un aspetto enormemente innovativo a questa leggendaria registrazione.
Oltre alla title track, altri due pezzi necessitano di una segnalazione particolare. Il primo è “The Good It’s Gone”, in cui la scampanellante chitarra solista, i ricorrenti accordi ripetuti e la linea del basso si inseriscono nella scia inaugurata nella prima metà del 1965 da “Ticket To Ride” dei Beatles. Questa composizione è attraversata dall’ennesima prova eccellente di Moon alla batteria ed è resa ancora più interessante dal bridge formato da cori, fievole e precoce presagio dell’imminente arrivo sulla scena musicale della psichedelia.
Un accenno anche per “The Kids Are Alright”, arrivata nel tempo a essere considerata da molti una canzone simbolo degli Who. Qui a risaltare sono le indovinate melodie di strofa, ritornello e middle eight, nelle quali il pop-rock di questa traccia si spinge con spontaneità entro i confini più frastagliati e meno rifiniti del garage rock.
A impreziosire l’intero album è anche la performance di un notevole e spesso sottovalutato musicista: John Entwistle. Il suo dinamico basso elettrico inchioda note ruvide, decise, talvolta brillantemente fuori dalle righe, agli arrangiamenti delle dodici composizioni. Sono due gli esempi migliori del suo stile, allora ancora in formazione, ma già visibile. Il primo è da individuare in “Out In The Streets”, dove il bassista punteggia le strofe con creatività e vigoroso dinamismo. Il secondo esempio lo troviamo invece in “My Generation”; qui la linea di basso è sorprendentemente innovativa, sia quando segue con andamento irregolare e ostinato la parte vocale di Daltrey (nella prima strofa, dal minuto 0.04 al minuto 0.22) che nei quattro rapidi interventi solisti (dal minuto 0.53 al minuto 1.11), tanto eccitanti da divenire un tratto distintivo di questa famosa canzone.
Segnaliamo poi il ruolo ricoperto dall’ottimo pianista e sessionman Nicky Hopkins, il quale interviene in sei canzoni dell’album, decorandole piacevolmente e, in alcuni casi, conferendo loro maggiore spessore sonoro. Il suo contributo prelude a quelli più celebri forniti a numerose band negli anni successivi al ’65 e mostra qui la capacità di integrarsi nel suono degli Who con energica vitalità, soprattutto nei decisi accordi di sottofondo in “I Don’t Mind” e con gusto ritmico-melodico in “La-La-La Lies”.
Townshend riserva per sé alcuni parti soliste; esse appaiono però come ornamenti passeggeri al brano in corso rispetto a veri e propri assoli. Malgrado ciò, la sua chitarra in questo album riveste un importante ruolo innovatore, segnato dalle reiterate e rumoreggianti sperimentazioni chitarristiche inserite con impudente coraggio in questo Lp tramite “I’m A Man”, “The Ox” e “My Generation”. Esse erano state anticipate in forma più breve all’interno del singolo che precede questo Lp (“Anyway, Anyhow, Anywhere”, maggio 1965) e qui vengono sottolineate ripetutamente, divenendo così un elemento distintivo della musica degli Who. Si tratta dei primi, seminali casi nei quali il suono assume una valenza distaccata dalle note e dagli accordi, superando anche la distorsione per trasformarsi in rumore orientato a indicare nuove strade per il rock del futuro.
Oltre a svolgere questa importantissima funzione di spericolato e assordante apripista per molti generi di musica che verranno, Townshend applica alla sua chitarra anche distorsioni all’epoca già conosciute. Dall’effetto “tremolo” per l’apertura e la chiusura di “Out In The Street” al dilatato riverbero che allarga le maglie del suono in “The Kids Are Alright”. Egli arriva a utilizzare anche la distorsione pura, ottenuta senza pedali, nell’ultima strofa di “It’s Not True” (dal minuto 1.22 al minuto 1.52) e per quasi tutta la durata di “A Legal Matter”. Non mancano quindi gradite variazioni al suono della Rickenbacker impiegata in questo disco dal chitarrista degli Who.
Le tre cover non appartengono ai momenti più coinvolgenti del disco, ma parlano chiaramente delle radici rhythm and blues del gruppo e dei gusti musicali del cantante. Roger Daltrey sceglie infatti di interpretare ben due ballate di James Brown. “Please, Please, Please” (del 1956) è resa in maniera decisamente appassionata dalla sua voce disinvolta e risoluta, mentre “I Don’t Mind” (1960) offre all’ascolto una più che convincente parte strumentale.
A chiudere la serie di composizioni prese in prestito da altri artisti è “I’m A Man”, una cover del rinomato rhythm and blues di Bo Diddley. Forse il lavoro meno riuscito di questo album, il pezzo si fa notare per le aspre distorsioni della chitarra nella transizione strumentale che ne occupa buona parte (dal minuto 1.18 al minuto 2.38). Tutte e tre le cover sono fatte proprie dagli Who, sebbene manchino della forza comunicativa che notiamo negli originali scritti da Townshend.
Gli Who attingono alla black music loro contemporanea in “La-La-La-Lies”, la cui traccia strumentale riflette in qualche modo il peculiare sound rhythm and blues-pop lanciato circa un anno prima, con ottimi esiti commerciali, dalle Supremes di Diana Ross in America.
Nel complesso, la voce solista di Daltrey, accattivante, vigorosa e dal timbro ben riconoscibile, sembra ancora necessitare una completa maturazione, che è comunque anticipata da prove vocali di alto livello come “The Good Is Gone” e “Out In The Street”. Esse rappresentano le due facce caratteristiche della vocalità di Daltrey in questa parte della sua carriera. La prima traccia citata (“The Good It’s Gone”) contiene il suo timbro più basso ed espressivo, efficacemente abbinato a vocali allungate; la seconda (“Out In The Street”) evidenzia invece lo slancio abrasivo che il cantante londinese impiegava nei pezzi dal tempo maggiormente incalzante. Va aggiunto che in diversi brani il canto di Daltrey è raddoppiato (per mezzo di una sovraincisione) al fine di aumentarne l’impatto sonoro e la consistenza. Questa tecnica di studio, resa popolare dai Beatles fin dal 1963, è evidente soprattutto in “La-La-La Lies” e “The Kids Are Alright”.
A chiudere l’Lp è uno strumentale: “The Ox”. Sebbene non si tratti ufficialmente di una cover, il pezzo appartiene sostanzialmente a questa categoria. Si tratta infatti di un rifacimento abbastanza fedele di “Wipe Out” dei Surfairs (registrata nel 1962), ed è probabilmente stata voluta da Moon, appassionato di surf music. Il brano è diversificato rispetto all’originale soprattutto grazie ad alcuni impeti sperimentali tradotti dalla chitarra elettrica di Townshend in brevi rumori e assoli dalla linea non convenzionale, a tratti fortemente distorti.
L’album “My Generation” scalò la classifica inglese fino alla quinta posizione, mentre il pubblico statunitense si rivelò ancora poco ricettivo (niente di fatto nelle chart di quel paese). La versione americana verrà messa sul mercato circa due mesi dopo, all’inizio del 1966, in seguito al secondo posto ottenuto dal singolo “My Generation” in Inghilterra (74° in America). Oltreoceano l’album differisce leggermente dall’originale inglese. La cover di “I’m A Man” viene infatti sostituita da “Instant Party (Circles)”, scritta da Townshend e resa insolita da un sottofondo di corno francese accennato da Entwistle. Il cambio effettuato risulta tutto sommato positivo. Da parte sua, “Instant Party (Circles)” sembra leggermente sfuocata e non può essere ritenuta una scelta alternativa del tutto centrata. Nonostante ciò, essa ci permette di apprezzare una volta di più la piacevole scrittura di Townshend.
Con l’album “My Generation” gli Who inaugurano anche la scioccante abitudine di distruggere chitarra, batteria e amplificatori al termine delle loro performance dal vivo. Un atto quasi sacrilego per il 1965, una dimostrazione di selvaggio furore che attirerà tanto polemiche quanto attenzione sulla band londinese, entrando nella storia del rock e incoraggiando gesta analoghe da parte di innumerevoli artisti (compreso Jimi Hendrix).
In definitiva, un ottimo debutto per una band leggendaria che trova in questo più che soddisfacente lavoro le proprie elettrizzanti radici e i vibranti segnali di un futuro musicale da protagonisti del rock.