Prodigy

Prodigy

Early rave, big beat e oltre

I Prodigy sono stati portavoci dei fenomeni musicali di maggior impatto della scena elettronica per più di 25 anni. Conquistando il mondo con un suono unico e sempre mutevole, capace di far ballare intere generazioni

di Alessandro Violante

Molto è stato detto, in molti modi, sui Prodigy, uno dei progetti più rilevanti dell’intera storia della musica elettronica ballabile di massa. Qual è il motivo che spinge a creare l’ennesima retrospettiva sul gruppo dell’Essex, quando ce ne sono già molte in circolazione? Una risposta plausibile è la necessità di parlarne in termini di esperienza, piuttosto che scrivendone una, seppur ampia, cronistoria.
"L’esperienza Prodigy" è una storia lunga venticinque anni, sempre riuscita, ottenendo consensi piuttosto ampi, a fotografare l’evoluzione del suono elettronico, reinterpretandolo con uno spiccato guizzo creativo, muovendosi dall'early rave a quello che venne generalmente etichettato sotto la sigla del big beat (un termine inizialmente coniato da Iain Williams per un remix di un brano degli Abba, "Big Bang", ma poi diventato un genere vero e proprio, basato sul massiccio utilizzo di breakbeat) fino agli incroci techno-rock (dei quali furono tra i pionieri) e ai nuovi generi nati dopo il 2000, tra i quali la dubstep. Seppur non abbiano mai piantato per primi la bandiera di un nuovo genere (ma non è mai stato il loro scopo), sono riusciti a diventare le più note rockstar della musica elettronica, costantemente in giro per il mondo, tenendo concerti di fronte a folle sterminate.

ProdigyDifficile pensare, nel 1990, che il suono elettronico avrebbe mai potuto prendere quella piega, e che la musica commerciale avrebbe potuto subire l’onda d’urto sprigionata da un album come The Fat Of The Land, portandone i segni in lavori di artisti ben più commerciali. Un esempio tra gli altri? Il sudicio breakbeat che apre "Charlie Big Potato" degli Skunk Anansie, uscita nel 1999. Non a caso, l’anno successivo, Maxim Reality e Skin avrebbero dato alle stampe il singolo "Carmen Queasy". Questo non è l’unico caso di un processo di melting pot nel quale i Prodigy ebbero un ruolo di primissimo piano. Allo stesso modo, così come il gruppo dell'Essex ebbe un'influenza più o meno diretta sugli artisti di quegli anni, Liam venne influenzato dal suono Ebm dei belgi Front 242, rendendosi autore, nel 1996, di un remix del loro brano "Religion". Quell'EP, dal titolo "Happiness", è la migliore testimonianza dell'incontro tra il suono electronic body music e il big beat inglese.
Inizialmente, "l’esperienza" è il rave party e il suono è l’early rave, ovvero quell'ancora indefinito e non ben catalogabile ibrido dance-elettronico dal quale sarebbero poi emersi generi come la Dutch hardcore, il breakbeat, la drum'n'bass, e così via. I sintetizzatori lisergici, i ritmi rapidi, tarantolati e convulsi, il sampling e, soprattutto, il ritmo spezzato sono gli ingredienti principali di una rivoluzione elettronica che, nella metà degli anni 90, avrebbe portato questo suono al di fuori dei circuiti chiusi e delle barriere delle sottoculture: nel mainstream, appunto. In questa rilettura duchampiana della musica elettronica, i Prodigy hanno svolto il ruolo di artisti contemporanei di frontiera.
Gli inglesi, però, aggiungono al maelstrom elettronico, un particolare interesse per la fisicità e la dirompenza del rock e del punk, e, allo stesso tempo, un copioso substrato hip-hop, genere che rivestì importanza fondamentale nell’evoluzione di Howlett, che, ricordiamolo, iniziò come dj di quel genere. E’ questa sintesi, questo saper accostare le varie parti in maniera sapiente come in un collage Pop Art, che rende profondamente nuovo e accattivante il loro sound anche per i cosiddetti “non addetti ai lavori”.
Una parabola lunga venticinque anni in cui i Nostri hanno cavalcato le novità (di allora, così come quelle odierne) e travalicato i confini, rompendoli e dando origine a una miscela estremamente ricca di groove ed esplosiva che ben pochi colleghi, ma forse nessun altro, è riuscito a eguagliare alla stessa maniera.

Il mondo all’interno del quale i primi Prodigy si mossero era un’Inghilterra post-acid house, in cui le certezze della quadratura dei  4/4 e le "porte della percezione" aperte dagli acidi si dissolvono, si segmentano e diventano sempre più ritmiche claustrofobiche e ansiogene (Music For The Jilted Generation ne fu uno dei migliori esemplari), in cui la matrice della ritmica afroamericana è sempre più presente e culture diverse si fondono. "The Dirtchamber Sessions Vol.1", una delle migliori prove di Howlett di sempre, è il pagamento di un tributo a questo melting pot.
Al pari di altre realtà altrettanto importanti, note per aver fotografato, seppur in maniera diversa, il suono elettronico e le sue subculture, anche i Nostri si sono distinti per featuring mai banali, come quello della cult band Pop Will Eat Itself in "Their Law" e quello di Kool Keith degli altrettanto storici Ultramagnetic MC’s in "Diesel Power" prima, quello coi fratelli Gallagher in "Shoot Down" e quello con l’attrice e cantante Juliette Lewis in "Spitfire" (sì, quella di "Cape Fear"). Questi sono solo alcuni pregevoli, e a volte inattesi, esempi.
Sarebbe un errore, tuttavia, considerarli un gruppo strettamente early rave, in quanto il loro percorso avrebbe provato la loro estrema capacità di mutare forma senza perdere in coraggio espressivo ed energia. Qui sta la complessità nell’analisi culturale, più che musicale, di una realtà come quella dell’Essex: una band che ha influenzato pesantemente più generazioni che li hanno ammirati, soprattutto nella fase del loro massimo splendore in termini di vendita, all’inizio della seconda metà degli anni 90, quando "Smack My Bitch Up" cambiò radicalmente, in una trentina di secondi scarsi, certa musica elettronica.

Cominciamo dal principio, da quell’esperienza, da una storia inizialmente semplice: un incontro tra appassionati delle medesime cose, legati a una scena in grande fermento, che di lì a poco avrebbe prodotto molti, importanti frutti: la drum'n'bass e l’hardcore all’inglese (quella "spezzata", la sorellastra del suono di Rotterdam) sono due esempi tra tanti. Prendiamo la macchina del tempo e torniamo indietro all’inizio degli anni 90 per scoprire l’origine di questo gruppo, le radici del mito.

What evil lurks in the hearts of men

ProdigyLiam Howlett, Keith Flint, Maxim Reality, Leeroy Thornhill, Sharky. Furono loro il primo nucleo dei Prodigy: il primo è il compositore dei loro brani, Maxim è il vocalist e Keith, Leeroy e Sharky sono tre ballerini. La primissima incarnazione di The Prodigy (nome che paga il tributo al primo sintetizzatore acquistato da Howlett, un Moog Prodigy), è "Evil Minds", una sorta di ricco antipasto di quello che seguirà, il loro banco di prova, in verità non particolarmente originale, ma un documento storico di un’epoca ormai entrata a far parte della storia. Alcune idee qui presenti sembrano oggi familiari ai fan, perché furono poi riadattate nel loro primo vero e proprio lavoro in studio, Experience.
In questi primi anni, sul finire del fenomeno early rave, i Prodigy sembrarono volere giocosamente trasmettere l’idea di un suono sì vicino a quello stile, ma comunque meno giocoso del tipico sound inglese (quello di Scott Brown e dell’happy hardcore), più incisivo. Ed è questa incisività che si inizia a respirare nel loro primo vero Ep, What Evil Lurks, un titolo che sembra voler trasmettere, all’allora sorridente subcultura rave, il monito che il tempo di sorridere era ormai giunto al termine e che qualcosa di nuovo stava accadendo. Privati della ballerina Sharky, i Nostri si presentano, su più larga scala, con un Ep contenente alcune delle tracce inviate all’XL Recordings, una delle label più importanti del periodo, la cui serie "Chapters" fotografò in maniera molto dettagliata il panorama musicale di quegli anni.
E’ l’inquietante sample che paga il suo tributo a The Shadow, una figura famosa nella prima metà del XX secolo. In questi primi quattro brani, c’è un sufficiente assaggio di beat trascinanti, groove come se piovesse e veloci ritmi claustrofobici, come nella opener che dà il titolo all’Ep (un brano, nonostante i suoni tipicamente old school, ancora molto attuale) e nell’altrettanto selvaggia e intrigante "We Gonna Rock". Il lato B presenta, invece, una versione più intimista del progetto, che, in particolare con "Android", riapre le porte della percezione per offrire all’ascoltatore un viaggio verso lo spazio, lontano dalle brutture della fredda realtà inglese. "Everybody In The Place" è una sorta di primo inno generazionale, che verrà poi ripreso, e che svolse, probabilmente, il ruolo di riempipista.

I tasselli successivi, che avrebbero portato a Experience, sono più importanti del traguardo stesso, in quanto l’album altro non sarà se non una rivisitazione dell’esperienza svolta sino a quel momento e, per la maggior parte, una compilation di brani già realizzati.
"Charly" esce in un periodo molto particolare, in cui il suono si stava evolvendo, facendosi più articolato. Progressivamente le sfuriate al fulmicotone degli inizi lasciano il posto a una maggiore attenzione riposta verso il lato melodico del loro sound, del quale "Your Love" rappresenta un piccolo capolavoro e, in generale, verso una maggiore attenzione per il groove ("Pandemonium" è un episodio centrale, in tal senso, in cui il breakbeat fa da padrone).

Gli Ep successivi, "Fire/Jericho", "Out Of Space" (in cui, per la prima volta, Liam campiona gli Ultramagnetic MC’s, così come Max Romeo), "Everybody In The Place" e "Wind It Up", non fanno altro che rafforzare quanto già espresso: la computer grafica del video di "Fire", così come i colori lisergici di quello di "Out Of Space", disegnano una dimensione positiva della rave culture, che sa fare autoironia, e che unisce il gusto per il nuovo, un mondo digitale allora acerbo, ma percepito come àncora di salvezza, e un forte legame con la natura, che tipicamente accomuna i raver.
Il già preannunciato album del 1992 offre uno spaccato dei primi due anni di attività del trio, tra rivisitazioni, melodie complesse, funamboliche sferzate in breakbeat, sample cartooneschi, senso del ritmo e già grande dimostrazione di estro e creatività compositiva. Qui, brani più tirati come la velocissima "Hyperspeed (G-force Part II)" e "Ruff In The Jungle Bizness" si alternano a perfetti bilanciamenti tra groove e senso della melodia, come nell’opener "Jericho" e nei brani già noti, qui riletti in versioni ancor più avvincenti e accelerate.
Nonostante i ritmi velocissimi siano qui particolarmente presenti, l’episodio più singolare e completo è forse l’atmosferico "Weather Experience", in cui Liam cesella perfettamente l’unione delle parti, consegnandoci un piccolo capolavoro. La versione live di "Death Of The Prodigy Dancers" è una degna conclusione, decisamente più oscura dei brani precedenti, giocata perfettamente tra una cupa melodia lisergica e una ritmica da capogiro, il tutto coadiuvato dalla più che energica performance vocale del Masters of Ceremony Maxim, che ha qui il pregio di presentare, a chi fino a quel momento non li aveva ancora visti dal vivo, l’energia già presente nei loro primi concerti.

Fuck them and their law

Prodigy"One Love" è forse il brano meno adatto a fotografare il grande cambiamento in atto nella scena rave tra il ’92 e il ’94, ma è un brano di passaggio che avrebbe spianato la strada all’incremento del pessimismo e della sfiducia nei confronti di un sogno, quello dei rave parties, che si stava infrangendo contro leggi pesanti a danno dei suoi frequentatori. "How can the government stop young people having a good time? Fight these bollocks" è una frase presente nell'artwork dell'album successivo, e proprio il singolo "One Love" contiene, nel suo artwork, una dichiarazione contro le restrizioni del tempo.
La crisi della scena rave giovò, in un certo senso, ai Prodigy, perché permise loro di sperimentare nuove forme, slegate dalle critiche dei puristi, ed è quello che sarebbe successo di lì a poco in un album mastodontico e radicalmente diverso rispetto a Experience quale è Music For The Jilted Generation. La loro fu una "generazione tradita" perché cresciuta a suon di false illusioni di pace e serenità, tutti sorridenti e apparentemente liberi, per una notte e oltre, dalle catene del governo, lo stesso che proclamò una maggiore pesantezza delle leggi sui rave parties.

Music For The Jilted Generation, sin dall’inizio, si dimostra un lavoro completamente differente rispetto all'album d'esordio, perché presenta nuovi problemi nati in seno alla crisi del movimento, quali il ritorno alla triste e grigia realtà degli ambienti metropolitani, l’alienazione, la psicosi e, come conseguenza di questo senso di tradimento, l’abbandono nel vortice delle droghe sintetiche. Musicalmente, questo clima giova ai Nostri, perché ogni momento di rottura lascia maggior spazio alla creazione di nuove strutture, sorte sulle ceneri di quelle precedenti, e il miglior esempio di questa “nuova forma” è "Their Law", che unisce il suono sintetico e alienante dei sintetizzatori (molto più cupi rispetto al passato) alla fisicità del rock dei Pop Will Eat Itself. Quel che ne fuoriesce è una miscela esplosiva, dalla quale trasuda con forza il degrado del sottomondo urbano. Esemplare è, a tal proposito, la cult image, presente nel booklet dell’album, che mostra la grigia vita orwelliana e metropolitana, contrapposta all’ultima ancora di salvezza, la dimensione (non più così) pacifica del rave, l’ultimo appiglio verso una libertà (che però è solo fittizia, sintetica e nulla più). Il raver è intento a tagliare la corda che permette ai due mondi di congiungersi tra loro, e questo strappo non verrà mai più ricucito.
Il video di "No Good (Start The Dance)" è esemplare del nuovo corso intrapreso dalla scena rave. Tramontato ormai il sogno di un’isola pacifica e lontana dalla cruda, alienante realtà, i raver si sono trasferiti negli squallidi sobborghi metropolitani delle grandi città, e il suono è diventato sempre meno speranzoso, allegro e vicino a generi come l'happy hardcore, ormai lontanissimo da quello del 1990-93. Emblematico di questo cambiamento sociale interno alla subcultura è il campionamento tratto da "You’re No Good For Me", brano di Kelly Charles, che recita: "You’re no good for me, I don’t need nobody/ don’t need no one, that’s no good for me". Il mutamento dell’ambiente circostante ha trasformato anche il raver, che vive la sua paranoia personale, immerso in un densissimo breakbeat e sorretto da un gelido ed estatico giro melodico, non più animale sociale, non più immerso nella natura, ma in costante lotta coi suoi fantasmi.
"Voodoo People" è, insieme al già citato, uno dei brani che tenta di unire ancora i giovani traditi, la magic people - voodoo people, una nuova generazione di raver che manifesta un fascino per l’esotico e per la ricerca di nuove porte della percezione attraverso nuovi tipi di “accorgimenti”. Si tratta anche di uno dei loro primi brani costruiti a partire dal collage di sample provenienti dalla cultura popolare musicale del momento (il motivo di apertura altro non è che il giro di "Very Ape" dei Nirvana, opportunamente trattato). Altro highlight che sarebbe diventato uno dei loro classici più famosi è "Poison", che unisce perfettamente il suono sintetico e lisergico della dimensione urbana e quello tribaleggiante, afroamericano. Questo episodio è importante perché, più che "Their Law", è il primo brano cantato da Maxim in studio, una sorta di anteprima dell’evoluzione techno-rock che sarebbe maturata completamente con il loro album più amato di sempre, The Fat Of The Land.

E’ però soltanto l’anno successivo all’uscita dell’Ep Poison che i The Prodigy avrebbero conosciuto un successo commerciale globale, grazie a una ulteriore rivoluzione musicale, un intelligente e allo stesso tempo energico e potente crossover, il cui maggior pregio fu quello di creare un ponte ideale tra la sottocultura post-rave e quella punk: con il definitivo tramonto dell’early rave, i generi di elettronica ballabile assunsero una identità fortemente riconoscibile, e, soprattutto, sotto la sigla del big beat, si ritrovarono inaspettatamente al di fuori dei confini delle nicchie di settore e delle sottoculture, diventando parte integrante della cultura popolare: "Firestarter", un brano-simbolo di una nuova generazione, trasmesso in heavy rotation praticamente ovunque, fu solo un esempio tra i tanti.

Il Big Beat come fenomeno di massa

Dalle radio mainstream ai videogiochi e alle colonne sonore, la musica elettronica, e in particolare il big beat, diventarono, a conti fatti, generi popolarissimi. Oltre ai Prodigy, lo stesso destino toccò ad altre realtà inglesi altrettanto creative e, soprattutto allora, largamente note, come gli Underworld con "Born Slippy", che figurò nella colonna sonora di "Trainspotting". Album classici di quel periodo, tra i quali "Vegas" dei Crystal Method, "Surrender" dei Chemical Brothers, "You’ve Come A Long Way Baby" di Fatboy Slim, "Dead Cities" dei The Future Sound Of London, "Leftism" dei Leftfield, "Getting High On Your Own Supply" degli Apollo 440, oltre, ovviamente, al già citato The Fat Of The Land, finirono sugli scaffali di dischi di moltissimi ragazzi, accanto a quelli dei Nirvana, dei Rage Against The Machine, dei NOFX.
Quegli anni rappresentarono, come già prima anticipato, quelli del boom delle console: la Playstation, infatti, uscì solo due anni prima, e non furono pochi i ragazzi che comprarono alcuni dei suddetti dischi dopo averne ascoltato i brani durante le partite a Wipeout e ai suoi successori. Spesso, inoltre, questi videogiochi cult offrirono la possibilità di comporre le proprie tracce o di ascoltare musica (elettronica) e l’insieme di questi fattori fece sì che la seconda metà dei 90 fu anche l’apice commerciale, in termini di diffusione e di vendita, per questa musica, un fenomeno i cui postumi sono visibili ancora oggi. E' indubbio, infatti, il peso della musica elettronica nell'industria musicale attuale. Una musica che aveva registrato il cambiamento avvenuto in seno alle subculture, provate dalle droghe e ostacolate da leggi restrittive, che stavano subendo colpi e tornando nell’underground dal quale erano provenute, mentre la musica elettronica diveniva sempre più sinonimo di potenza ed energia: rock elettronico, in sostanza, e i Prodigy furono forse l’esempio più lampante di questo mutamento.

Butter or guns: The Fat Of The Land e il grande successo commerciale


ProdigyE poi un giorno, all’improvviso, arrivò The Fat Of The Land. "Smack My Bitch Up", diventata un vero e proprio inno generazionale al pari di "Smells Like Teen Spirit", rappresentò la quintessenza del melting pot operato dagli inglesi sin dai loro primi anni di attività, ma qui le varie parti furono sezionate e campionate in maniera ancora più caustica e groovy, aggiungendo all’amalgama un suono fisico, trascinante, punk. "Smack" nasce, ancora una volta, dalla mescolanza di hip-hop, elettronica e rock/punk, fusi perfettamente in cinque minuti. The Fat Of The Land è stato, prima di essere un contenitore di dieci potenziali hit-single, un punto di svolta per questa musica, che abbattè i confini tra i suoi generi di riferimento. In "Smack", i RATM di "Bulls On Parade" convivono con gli Ultramagnetic MC’s, ed è questo quel che è più importante. I Prodigy si affrancano dalla techno e dai suoi derivati, che ormai avevano cominciato a vivere di vita propria, musicalmente e (sub)culturalmente. La loro divenne musica energica pensata per sprigionare il massimo durante i concerti e bisogna certo ammettere che questo fu il loro momento migliore, che li portò, per la prima volta, in giro per tutto il mondo.
"Breathe", "Diesel Power" (con Kool Keith), "Fuel My Fire" e tutti gli altri episodi, esclusi "Narayan" e "Climbatize", più riflessive e “da viaggio”, seguono le medesime coordinate, e anche il look del gruppo mutò: più influenzato dal punk che dall’early rave.

Ripetere un album come questo sarebbe stato molto difficile, e Liam dimostrò certo il coraggio di non volerlo fare, intraprendendo altre strade. Destino comune a molti act big beat, il 2000 rappresentò uno spauracchio che spesso mise la parola fine (almeno temporaneamente) a molti progetti che del melting pot avevano fatto il loro trademark, mescolanza che nel XXI secolo avrebbe perso parecchio in termini di feedback. Consci di questo grande cambiamento (musicale e generazionale) in atto, gli inglesi si presero alcuni anni per riflettere sulla direzione da intraprendere. Ciò non vuol dire che non si ascoltò più nulla d’interessante da parte loro fino al 2004, anzi: due anni dopo l’uscita del loro album più importante, i Prodigy tornarono a essere principalmente una creatura di Liam Howlett (anche a seguito dell’abbandono di Leeroy Thornhill, che ebbe un discreto successo coi suoi Flightcrank e Hyper), deus ex machina del progetto e unico compositore, dopo che Keith Flint e Maxim Reality presero le parti di Masters of Ceremony in brani come "Breathe", "Firestarter", "Serial Thrilla" e "Smack My Bitch Up", tra le altre, e infatti fu Liam a far uscire un lavoro piuttosto interessante come The Dirtchamber Sessions Vol.1, mix creativo, caleidoscopico e interessante, che pagò un tributo nei confronti di una larghissima serie di artisti più o meno legati al suono del gruppo.
Questo fu principalmente l’intento di Liam: far comprendere, per quanto fosse difficile, che i Prodigy non erano solo quelli di "Firestarter", ma che avevano molte più carte da giocare. Dirtchamber è un’antologia, molto ben mixata e coinvolgente, che riporta alla mente il suono delle prime ondate hip-hop, il funk e il big beat, includendovi anche i seminali Meat Beat Manifesto e le atmosfere alla Sergio Leone.

Come già accennato, nello stesso periodo, Maxim lavorò su quello che meglio sapeva fare: l’hip-hop, e il suo disco solista di debutto, "Hell’s Kitchen", contenente il singolo composto con Skin e citato all’inizio dell’articolo, dal titolo "Carmen Queasy", si rivelò una prova a metà tra il tributo all’hip-hop più da strada e una sorta di spin-off di quanto svolto nell’album precedente con la band principale. Nel frattempo, ci fu anche spazio per un riempitivo/B-side come "Baby’s Got A Temper", che nulla aggiunse e nulla tolse.

Dopo il boom commerciale

ProdigyAlways Outnumbered, Never Outgunned
fu, ancora una volta, un lavoro molto diverso dai precedenti, che, da un lato, rielaborò alcune soluzioni già consolidate, come in "Spitfire", ma che mise in mostra, oltre al groove irresistibile di "Girls", un approccio particolarmente orientato alla formula rock, direzione verso la quale gli inglesi sempre più prepotentemente si mossero (le performance attuali ne sono un chiarissimo esempio, con la loro reinterpretazione dei brani meno recenti in chiave energica e, per l’appunto, fortemente rock-oriented). Si trattò anche di un lavoro uscito in un momento storico in cui Liam si sentì completamente tagliato fuori dal mercato, sopravvissuto alla crisi del 2000, al punto da decidere saggiamente di intraprendere nuove strade, non emulando prodotti che di certo non avrebbero più convinto l’ascoltatore del XXI secolo. Un ascoltatore che comincia in quegli anni a operare una netta divisione tra la dimensione del club, quella del rave e quella del concerto rock. E’ l’ascoltatore dell’era di internet, abituato a catalogare qualsiasi band e, quindi, poco avvezzo alle mescolanze. Per ricollegarsi all’inizio del discorso, quello del 2004 fu un ascoltatore che mise l’ossessiva catalogazione e l’informazione davanti all’esperienza, e fu forse questa tendenza a rendere un lavoro pur ottimo come AONO uno dei meno graditi nella loro discografia, anche da Liam stesso.

Invaders Must Die è un album che, ancora una volta, fotografò i cambiamenti in atto nelle sottoculture elettroniche e che propose, in chiave personale e sempre secondo una formula estremamente personale, le nuove tendenze musicali, tra le quali la dubstep di "Thunder", ma che brillò soprattutto per il groove e la modernità di brani come "Invaders Must Die", e per la rilettura dei loro episodi più robusti, tarantolati ed esplosivi. Non a caso, per la sua modernità, fu uno dei lavori più amati del trio dopo The Fat Of The Land, anche perché, per certi versi, sembrò ricalcarne le orme.
I The Prodigy del XXI secolo sono, ad ogni modo, artisti che ormai percorrono la propria strada, particolarmente slegati dal contesto e dalle derive elettroniche delle generazioni più recenti e sempre più vicini alla dimensione rock, ed è forse per questo che, senza ombra di dubbio, hanno perso quella connotazione di artisti generazionali che era stata, invece, particolarmente presente nel loro primo decennio di attività.

Diventati sempre più animali da palcoscenico, i Nostri, negli ultimi anni, si sono sempre più dedicati alla dimensione live della loro musica, alternando edizioni limitate, best of e dischi/ Dvd live che valorizzano ancor più questa loro capacità di coinvolgimento delle grandi masse. Ormai lontanissimi dall’emergenza subculturale (qualunque essa sia), ma senza per questo essere privi di idee (anzi, il contrario), i Prodigy con The Day Is My Enemy hanno confezionato uno dei loro migliori album, forse il più "completo" della loro intera carriera insieme a Music For The Jilted Generation, un saggio di maestria e di invidiabile capacità di songwriting che, però, non fotografa più i mutamenti socioculturali e subculturali in atto nell’ambito della musica elettronica di massa e non.
Brani come "Nasty", "Rebel Radio", "Rok-Weiler" e "Rhythm Bomb" (questa con i Flux Pavilion), per non citarli tutti, sono tra i migliori mai composti, ma la causa dello scarso interesse, da parte della gioventù attuale, nei loro confronti è dovuta al loro slegamento dal contesto odierno e al loro crescente disinteresse nei confronti di una molteplicità di subculture elettroniche che forse non li rappresenta più, troppo standardizzate rispetto alla miscela così eterogenea proposta da Liam e dai suoi colleghi.
Parte dell’aura magica legata al successo dei Prodigy è stata l’impossibilità di comprendere le possibili emanazioni della loro musica finendo col catalogarli all’interno di schemi fissi, un'arma a doppio taglio che ha giocato a loro sfavore, soprattutto nel contesto musicale odierno. Ciò non toglie che Howlett sia stato, e tuttora sia, una delle personalità più creative della musica elettronica mainstream, capace di reinventarsi continuamente, riuscendo a ottenere risultati sempre interessanti, senza mai deludere i fan, vecchi e nuovi, del suo progetto.
Tornando al concetto di "esperienza", quel che un tempo era il rave è poi diventato il concerto e gli inglesi lo hanno dimostrato: due universi che, all’ascoltatore odierno, potrebbero apparire come due mondi paralleli e tra loro inconciliabili, ma che, in altre epoche e in altri contesti, furono più vicini di quanto si possa oggi pensare.

Uscito dopo il passaggio a Bmg (e la precedente decisione di Howlett di non voler più pubblicare materiale in formato album, subito ritrattata), No Tourists (2018) apre le danze con l'esempio classico di una ormai consolidata deriva ("Need Some1") nella quale convivono tutti gli ingredienti di un piatto già assaggiato cento volte.L'adrenalina è assicurata, ma la sequenza di beat rigonfi occupa tanto spazio sul disco quanto la relativa carenza di idee interessanti. Al massimo, si può riconoscere stavolta a Howlett e soci lo sforzo di rendere qua e là meno trionfalmente muscolare la loro proposta, in virtù dell'aumentato catalogo di trucchetti che riesce a plasmare un corpus omogeneo dal quale emergono positivamente "We Live Forever", "Timebomb Zone" e la title track.
Ma è poco per lasciare un segno in mezzo a episodi macchiettistici come la collaborazione con Ho99o9 in "Fight Fire With Fire" (titolo preso in prestito dai Metallica) o il drum and bass telefonato di "Champions Of London" e "Boom Boom Tap".
Non c'è spazio per i turisti nell'ultimo disco dei Prodigy, e di sicuro neanche per il vento che servirebbe a traghettare il progetto fuori dalle secche di un compiaciuto stereotipo.

A funestare la saga dei Prodigy giunge la notizia della morte di Keith Flint, trovato senza vita nella sua casa di Dunmow, nell'Essex, all'età di 49 anni. L'ipotesi ritenuta più probabile dagli inquirenti è quella del sucidio, ma restano aperte altre piste, come quella di un incidente legato al consumo di alcol e droghe.

Nonostante il peso avuto dai Prodigy nella "rivoluzione elettronica" che attraversò gli anni 90, di cui furono i portavoce, la critica ha spesso espresso dissenso verso la loro musica, principalmente criticandone la mancata capacità di dare vita a qualcosa di realmente nuovo, ridimensionandone molto il merito. Ma se è vero che quanto espresso da Liam e colleghi non fu certamente una loro invenzione, è, allo stesso modo, indubbio, che gli inglesi abbiano avuto la capacità di portare a galla idee ed esperimenti già realizzati, mixando sapientemente gli elementi in maniera tale da ottenere un successo mondiale e da modificare la storia della musica elettronica.
Forse, come Simon Reynolds, in un momento di allarmismo, affermò all'uscita di "Charly", i Prodigy hanno "ucciso il rave", ma più probabilmente hanno portato la sua musica a miliioni di persone e oggi i rave parties e la rave culture, seppur mutati, continuano a vivere nel sottosuolo.
In ogni caso, i Prodigy sono entrati nella storia della cultura popolare di massa, traguardo che gli stessi pionieri delle loro idee non sono riusciti a ottenere, e in questo sta il loro più grande traguardo. "Smack My Bitch Up" e "Firestarter" ne sono gli emblemi, ancor oggi inserite nelle playlist dei dj-set, trasmesse nelle palestre, inserite nelle pubblicità radiofoniche.

Contributi di Paolo Ciro ("No Tourists")

Prodigy

Discografia

What Evil Lurks (Ep, XL Recordings, 1991)

Experience (XL Recordings, 1992)

Music For The Jilted Generation (XL Recordings, 1994)

Front 242 - Happiness (The Prodigy remix, Red Rhino Europe, 1996)

The Fat Of The Land(XL Recordings, 1997)
The Dirtchamber Sessions Vol.1 (XL Recordings, 1999)

Baby's Got A Temper (XL Recordings, 2002)

Always Outnumbered, Never Outgunned (XL Recordings, 2004)

Invaders Must Die (Take Me To The Hospital, 2009)

Live - World's On Fire (Take Me To The Hospital, 2011)
The Day Is My Enemy(Take Me To The Hospital, 2015)
No Tourists (Bmg, 2018)
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