08-10/12/2006

Atp - Nightmare Before Christmas

Butlins, Minehead (Uk)


Butlins, Minehead, per tutto il viaggio in treno da Londra il pensiero ricorrente è: “chissà in che buco di merda ci ha mandato Thurston Moore”. La risposta arriva dopo aver lasciato il treno a Taunton e aver preso l’autobus, insieme a John Moloney dei Sunburned Hand Of The Man scopriremo col senno di poi, fino a questa fantomatica Minehead, che si presume essere una ridente città di mare affacciata sull’Atlantico. Butlins è semplicemente un parco dei divertimenti.
Bruttissimo. Finto all’inverosimile, gloriosamente grottesco e improbabile, specie dopo essersi riempito di fricchettoni provenienti da mezzo mondo. Per di più il parco è piazzato vicino ad un mare che d’inverno assume un colore grigio-malsano al pari della spiaggia fangosa, quindi in completo contrasto con l’ambiente naturale. La struttura è sostanzialmente un enorme tendone sotto al quale si dipanano depistanti schiere di negozi di cianfrusaglie varie, fast-food, videogiochi e altre amenità per l’intrattenimento. Oltre a questo c’è ovviamente lo Stage 1 (Centre Stage). All’esterno vi sono altri due capannoni che scopriamo essere lo Stage 2 (Reds), che sta sotto alla sala principale, e lo Stage 3 (Crazy Horse); tutto intorno si estende un’area piena di chalet, dei grossi bungalow di legno prefabbricati, non bellissimi ma parecchio accoglienti, e giusto quel centinaio di spanne sopra al campeggio di Arezzo Wave. Tutto sommato Moore non ci ha mandato proprio nella merda come si temeva, tant’è che ci forniscono persino la TV via cavo con due canali gestiti direttamente dall’organizzazione e una puntuale guida-TV dell’All Tomorrow's Parties (che ovviamente conserviamo gelosamente come un feticcio).

Al check-in ci viene indicata la nostra sistemazione, ci vengono dati dei braccialetti di riconoscimento (gialli, il che significa che potremo vedere i Sonic Youth sabato e Iggy con gli Stooges la domenica), un cd (una raccolta con gruppi della ATP Recordings) e una pratica agendina con il programma completo dei gruppi e del cinema. Un’organizzazione impensabile per un festival alternativo, che ripaga in parte la grave pecca dei concerti che si sovrappongono quasi sempre costringendoci a difficili scelte, e però anche con il considerevole vantaggio di non aver mai un’ora intera da perdere senza gruppi interessanti che si esibiscono da qualche parte.

Dopo aver trovato il nostro alloggio (il più distante, manco a dirlo) e mangiato qualcosa, scegliamo di inaugurare questa tre giorni con i Nurse With Wound. Non sono particolarmente interessato ma la scelta è tra loro, gli Ashtray Navigation e i Family Underground. Scegliamo la storia.
La performance del gruppo era stata praticamente già annunciata, si sapeva infatti che Stapleton sarebbe stato accompagnato dall’amico David Tibet e che avrebbero riproposto “The Dead Side Of The Moon” e una rivisitazione di “Two Shaves And A Shine”. Una discesa ambient-industriale quindi, dai suoni particolarmente curati, frutto di una strumentazione elettronica e dall’uso di svariati oggetti come percussioni. Non è esattamente la mia cup of tea, ma ho apprezzato ugualmente.
E’ poi subito tempo per un’altra dolorosa scelta: Richard Youngs o i Flipper? Optiamo per lo scozzese in esibizione solitaria (anche perché ci sorgono domande su quanti Flipper siano ancora in vita). Facciamo così la conoscenza dello Stage 3, il Crazy Horse: la sala in pratica è l’ambiente dedicato ai free-folkers. Ambientazione western, pochissima illuminazione, gente distesa un po’ ovunque, palco basso e senza transenne. Poco dopo esserci seduti per terra arriva Youngs, si presenta in maniera molto cortese, quindi inizia a suonare uno shakuhachi (un lungo flauto in legno di origine giapponese). Personalmente resto alquanto basito tanto che la prima cosa a venirmi in mente è “che diavolo sta facendo?” e la seconda è “ma per quanto andrà avanti?”. Pochi minuti. Quindi con molta cura il nostro pulisce e ripone il flauto mentre il pubblico applaude con convinzione, prende il microfono e senza alcun tipo di accompagnamento inizia a cantare (“Life On A Beam”). Le due domande di prima mi si ripresentano tali e quali. Tuttavia vengo rapito dalla voce di Youngs. Lo show prosegue così, con lunghi pezzi cantati intermezzati da quelli fiatistici.
È stata un’esibizione strana, al momento non ho saputo bene cosa pensarne, la durata sicuramente ha causato una certa stucchevolezza e ripetitività nei temi, ciononostante il concerto si imprime nella nostra testa tanto da far diventare “Life On A Beam” il nostro personale tormentone del festival [e qui il “recensore in seconda” è costretto a intervenire in prima persona per sottolineare il suo apprezzamento del concerto che, invece, è stato immediato ed assoluto: la performance più coraggiosa della tre giorni nonché una delle più riuscite (sì, in effetti Youngs ha avuto due palle così per proporre un concerto simile, ndr)]. Usciamo in fretta e ci dirigiamo di nuovo al palco centrale, è l’ora dei Melvins.

Non so bene cosa aspettarmi, conosco poco la storia e la discografia del gruppo, ma le mie domande vengono spazzate via in una attimo. King Buzzo e Dale Crover, accompagnati da Jared Warren al basso (un King Buzzo con una decina d’anni in meno) e da Coady Willis alla seconda batteria, iniziano senza esitazioni il bombardamento. Ho pochi ricordi lucidi, non conosco i pezzi e i Melvins non brillano certo per varietà stilistica. Tuttavia il wall of sound di granito puro, merito soprattutto della doppia batteria, non è una cosa che scorderò facilmente.
Con le orecchie ronzanti torniamo al Crazy Horse per Islaja (soprattutto perché non possiamo assistere questa sera alle esibizioni degli Stooges e dei Sonic Youth e perché i Deerhoof hanno riempito completamente lo Stage 2 tanto che c’era gente fuori in coda).
Islaja si è presentata con una rock band vera e propria alle spalle, “impreziosita” dall’onnipresente Ian Anderzen (Avarus, Kemialliset Ystävät, Tomuttonttu e Dio solo sa cos’altro) all’elettronica, che però è del tutto fuori posto coi suoi disturbi retroanalogici disturbanti sul serio, altro che poetica dell’imperfezione! Le cose, in generale, non sono andate per il verso giusto: feedback fastidiosi al microfono, la dolce finlandesina accecata da un riflettore troppo forte e la scelta di suonare molto più muscolari che su disco sono gli ingredienti per un’esibizione tutt’altro che memorabile. Restiamo comunque in zona per i Charalambides.
Gli ex coniugi Carter, nonostante una partenza non brillantissima con “There Is No End”, non deludono affatto, lanciandosi poi a capofitto nelle lunghe derive chitarristiche che conosciamo. Guadagno la prima fila e mano a mano che la musica fluisce vengo sempre più coinvolto, resto rapito dalla melodia che si sprigiona dallo stile blueseggiante di Tom Carter e dai sospiri circolari di Christina. Per il sottoscritto senza dubbio una delle migliori esibizioni del festival. Schiarita la mente dalle coltri chitarristiche, scopro che alcuni miei compagni hanno lasciato la sala per fare una capatina dai Bardo Pond, i quali hanno posto seri problemi alle loro velleità indie-snob proponendo un hard-rock psichedelico appesantito e infarcito di tutti i clichè peggiori, e un po' tamarri, del genere. Nulla a che vedere con la sana, e grandiosa, ignoranza dei Melvins, dunque.

Ormai è mezzanotte e mezza e inizia a salire la frenesia per il gruppo più atteso (almeno dal sottoscritto), i Dead C. Ci affrettiamo al palco centrale e la security ci fa salire nonostante i Sonic Youth siano ancora sul palco, in formazione a cinque, con Mark Ibold ex Pavement al basso. Arriviamo giusto in tempo per sentire “Schizophrenia” e “Shaking Hell”, due classici imperituri che ci fanno pregustare l’esibizione della sera dopo, non l’avessimo mai fatto...
Troviamo posto in prima fila e notiamo che la strumentazione del trio neozelandese non è lo-fi come ci si poteva attendere dai dischi in studio. La primissima impressione è che Russell non è per niente bello da vedere: gobbo e con una pancia che impenna la chitarra, indossa una lercissima maglietta grigia e fuma sigari in continuazione. Morley e Yeats sembrano invece dei tranquilli signori di mezza età.
I tre partono subito forte, Yeats alla batteria tiene ritmi elementari ma piuttosto sostenuti (sembra che dai tempi di Trapdoor Fucking Exit abbia imparato a tenere un ritmo!), mentre le chitarre degli altri due innalzano una muraglia invalicabile di feedback e distorsioni. Morley, più musicista vero, sembra ragionare sul da farsi, Russell invece si lascia trasportare e gioca con la sua chitarra percuotendola con vari oggetti (bottiglia di birra, scatola di sigari, bacchette della batteria). Nell’ora e mezza di concerto (sforato clamorosamente il tempo a loro disposizione) il trio sostanzialmente improvvisa lasciando trasparire in un paio di casi un barlume di canzone (“Love” e “Helen Said This”) e mettendo a dura prova il fisico degli spettatori. È stato senza dubbio un concerto intenso e appagante (anche per i buttafuori, che, se non altro, si son fatti grasse risate nel vedere una marea di giovinastri fricchettoni impazziti per tre vecchi che han fatto solo casino per novanta minuti), ma data l’aura di epocalità che assumeva l’evento (i concerti dei Dead C fuori dalla Nuova Zelanda si possono contare sulle dita di una mano) avremmo preferito una maggiore attenzione ai classici della band (avrei pagato oro per sentire una “Sky” o una “Outside”, cazzo! [infatti hai pagato, ndrs]).

Al secondo giorno ci scontriamo di nuovo, piacevolmente, con l’efficienza inglese; un foglio fatto passare sotto la porta dello chalet porge le scuse degli organizzatori alle persone rimaste fuori dalla sala per i Melvins e i Deerhoof e comunica che lo staff ha convinto i due gruppi a ripetere i concerti per chi non ha potuto parteciparvi (siamo proprio su un altro pianeta).
Decidiamo di inaugurare il nuovo giorno con roba tosta, ovvero i New Blockaders/Haters. Nomi a noi sostanzialmente sconosciuti che il preziosissimo libretto ci descrive come pionieri della scena noise. Finalmente ho l’occasione di vedere il palco 2, il Reds, ovviamente tutto rosso, con varie slot machines e altre macchinette sul fondo, ha l’aria di un posto piuttosto vizioso, una sorta di One Eyed Jacks per quelli noise dentro (di lì a poco, visti i nomi coinvolti, lo ribattezzeremo “l’antro delle torture”, tra l’altro un appropriato adesivo sul banco mixer recitava “no music here today, thanks”).
Arriviamo sul posto a performance iniziata, e a fianco di Nate Young dei Wolf Eyes ci godiamo queste quattro losche figure vestite di nero con dei passamontagna in tinta che si stanno dedicando ad un estremissimo massacro noise post-industriale. Ma non è solo casino gratuito, c’è una sorta di progettualità di fondo a far sì che nonostante l’osticità della proposta la noia non faccia mai capolino. A malincuore lasciamo la sala dopo una ventina di minuti, per preservare l’udito e dare uno sguardo ai Deerhoof sul palco centrale. Sala di nuovo piena e pubblico in festa per il pop rock del trio. Niente di particolare da segnalare, i tre sono bravi, infilano un paio di pezzi veramente coinvolgenti (“Milk Man” in particolar modo) e fungono bene da valvola di sfogo prima di buttarsi di nuovo al Reds per gli Hair Police (dei quali avevamo visto, sul canale dell’ATP, una devastante esibizione live in tv mentre pranzavamo). Assistiamo al concerto del quartetto (con John Olson dei Wolf Eyes al sax) per una ventina di minuti e il gruppo, pur approntando un gran casino, non riesce a imbroccare la marcia giusta: Connelly alla chitarra si agita di brutto (il giorno dopo coi Wolf Eyes sarà ancora più in forma), gli altri lo seguono, ma nonostante il gran chiasso ci annoiamo un po’. Personalmente sarei rimasto fino alla fine per la curiosità di vedere come sarebbe finita, Wooden Wand, però, già incombeva al palco centrale.
L’uomo, una sorta di boscaiolo in camicia flanella a quadrettoni (istantaneamente idolo ai miei occhi), supportato da una chitarra e da una cantante decisamente carina [la fidanzata Satya Sai, ndrs], proponeva il suo repertorio folk di stampo dylaniano. Seduti un po’ in disparte ci godiamo una sequenza di canzoni tanto semplici quanto belle, suonate con grande trasporto emotivo.

Soddisfatta la vena melodico-sentimentale, rinasce presto in noi lo spirito autolesionista che ci ha portato fin qui. Al Reds c’è la divertente accoppiata Mats Gustafsson (sax) e Yamatsuke Eye (urla e vari rumori di origine elettronica). Entro e sento esattamente quello che mi aspettavo: sax, pausa, urla, pausa, sax, pausa, urla ecc. ecc. Una gran cagata insomma.
Non so se siamo restati dentro per più di cinque minuti ma per noi è stato abbastanza (anche qui avevo un po’ di curiosità per vederne la fine, speravo che Eye si producesse in comportamenti dannosi per se stesso e per gli altri, ma sembra non ci sia stato niente da segnalare), tuttavia leggendo commenti in giro per la rete sembra sia stata una delle esibizioni più apprezzate…
Pochi cazzi, allo stage centrale è quasi ora dei Sun City Girls e contemporaneamente al Crazy Horse dei Double Leopards. Tra considerazioni personali non ripetibili scelgo di vedere i Sun City Girls con la possibilità, nel caso l’esibizione non mi convinca, di correre dall’altra parte. Assisto a una quindicina di minuti nei quali il trio, non mascherato, propone una caotica improvvisazione strumentale. Qui la mia strada e quella dei miei compagni si separano, terminato il pezzo decido di andare a sentire i Double Leopards. La doppia coppia propone la solita materia dronica. Niente di mai sentito però sono affascinanti, rumorosi ma non noise, monotoni ma non noiosi, hanno certamente qualcosa di meditativo, di estatico e di rituale, e alla fin fine mi ritrovo addormentato e travolto dall’onda sonora costante.
Per risvegliarmi torno all’antro delle torture per il trio composto dall’enfant prodige Chris Corsano (batteria, e cazzo se sa come picchiarla), dal barbone Paul Flaherty (sax) e da C Spencer Yeh aka Burning Star Core (violino, elettronica). Subito i tre iniziano bastonare durissimo entrando in territori free-jazz impreziositi dalle stangate di Yeh. Dopo una ventina di minuti però inizio ad averne le palle piene, bravi sì, ma assimilata la botta sonora iniziale la musica inizia ad essere ripetitiva e senza variazioni di registro degne di nota.
Ritrovo i miei compagni che, con un sorriso da orecchio a orecchio per i Sun City Girls, mi fanno rimpiangere l’essere andato via, battezzando l’esibizione del trio come la migliore fino a quel momento (bravi sì i Double Leopards, ma i SCG non credo che avrò altre occasioni di rivederli).
Il trio di Seattle ha infatti fatto piazza pulita di concorrenti attingendo in parte dal repertorio canzonistico noto (indonesiano e nordafricano, soprattutto), per poi trascinare un pubblico incantato tra le contorte trame impro della parte seguente di un concerto terminato addirittura con l’apparizione di Uncle Jim (interpretato da Alan Bishop), che non ha perso l’occasione per pigliare amabilmente per i fondelli gli altri gruppi del festival.

Verso le otto di sera si fa l’ora della new wave dei Gang Of Four. I quattro hanno ancora energia da vendere, propongono i pezzi senza sosta uno dietro l’altro e il pubblico numerosissimo va in visibilio. Si balla, si salta e ci si diverte al primo momento rock vero e proprio del festival. “Damaged Goods” e “Return The Gift” sono gli highlight della serata, oltre a “He’d Sent In The Army” durante la quale Jon King ha tenuto il tempo martellando un forno a microonde appositamente amplificato.
Terminato l’ottimo show dei Gang Of Four, restiamo in attesa dei Dinosaur Jr. J Mascis si presenta accompagnato da una lunga chioma di capelli bianchi e da un muro di Marshall da mettere soggezione. La partenza è affidata a “The Lung” e poi via attraverso i vari classici della band, dall’immancabile “Little Furry Things” durante la quale Lee Ranaldo è salito sul palco a fare i cori, a “Freak Scene” con tanto di sing along del pubblico, la sorpresa “Feel the Pain”, e ancora “In A Jar”, “Budge”, “Forget The Swan”, il medley “Kracked” “Sludgefeast”, durante il quale se gli amplificatori non sono collassati è stato un mezzo miracolo. Il volume in effetti era qualcosa di assurdo, prendeva la pancia e faceva tremare i vestiti, ma è giusto così, alla fin fine i Dinosaur Jr sono questo, canzone semplice e volume indecente.
Vissuti (per il sottoscritto un’esperienza mistica) i Dinosaur Jr nel pogo delle prime file, senza capire più un beato cazzo mi ritrovo fuori dal salone in coda per i Sonic Youth (veniva sgombrata l’area e potevano rientrare solo quelli col braccialetto adatto).“Schizophrenia” e “Shaking Hell” del giorno prima ci avevano illuso e fatto sperare in un repertorio storico per l’occasione e l’inizio del concerto con “Candle” ce lo faceva pregustare. Niente di tutto ciò, purtroppo. Molti pezzi dagli ultimi dischi, qualcosa da Goo e da Dirty (“Mote”, “Kool Thing”, “100%”), ma al di là di ciò è stata l’esibizione in sé ad essere poco convincente. C’era una spaccatura tra la convinzione dei sonici ed il risultato ottenuto, non brutto, ma piatto, per nulla coinvolgente. Dovendo scegliere un imputato la scelta cadrebbe sicuramente sui brani proposti, ma non può non nascere un dubbio sull’effettivo stato di forma del quartetto (come detto prima in questo caso un quintetto, con Mark Ibold al basso). Il pubblico però sembrava apprezzare molto, unico momento di tutto l’ATP in cui si sono manifestati dei fans particolarmente fastidiosi. Solo in chiusura i Sonic Youth si sono ripresi, ma solo perché “Teenage Riot” (dedicata a J Mascis che il giorno dopo avrebbe compiuto gli anni, quarantun candeline per lui) è una canzone che fa categoria a sé. La coda di distorsioni, durante la quale Moore e Ranaldo hanno usato le chitarre a mo’ di spade sbattendole una contro l’altra, ci ricorda chi sono (stati?) i Sonic Youth, accrescendo ancora di più il nostro disappunto.
Mentre ci avviamo all’uscita con l’amaro in bocca, sentiamo un comunicato dal palco, i Gang Of Four avrebbero risuonato tra una mezz’ora e i Dinosaur Jr avrebbero ripetuto il concerto il giorno dopo per tutti quelli rimasti fuori.

Il terzo e ultimo giorno lo inauguriamo con i Major Stars, e l’inizio non potrebbe essere dei peggiori. Il gruppo dal vivo propone, con tanta spocchia, un hard-rock di quarta mano orripilante già di suo, ma per completare il triste quadretto si aggiungono, dopo due pezzi, dei problemi tecnici a uno dei tre chitarristi. La cantante decide quindi di intrattenere il pubblico con delle barzellette in linea con il gruppo (“un cane mi ha rubato un watermelon [anguria, ndr] dev’essere un mellon collie…”). Ce ne andiamo a gambe levate a bere qualcosa mentre aspettiamo l’esibizione di Aaron Dilloway.
Seduto, con un cavo del microfono che spunta dalla bocca e varia attrezzatura elettronica sul tavolo, l’ex-Wolf Eyes per una quarantina di minuti ci diletta con un lungo bordone noise, per niente gratuito o cazzone, dai suoni molto curati e puliti, certamente più affine a certe esperienze di musica concreta post-industriale (ID Battery, Illusion Of Safety) che non al divertito cazzonismo degli ex compagni.. Per restare in tema di droni, ma invertendo completamente il sound, ci dirigiamo al Crazy Horse per gli Skaters. Come sua consuetudine il duo californiano è rannicchiato per terra tra le sue cianfrusaglie (pedali, bonghi, microfoni e altra immondizia di dubbia qualità), intento a prodursi nei caratteristici ululati in bassa fedeltà. Nonostante un po’ di chiacchiericcio di troppo e parecchia ressa nelle prime file che ci impedisce di “vedere” la performance della premiata ditta Clark-Ferraro, gli Skaters riescono in men che non si dica (e qui la loro grandezza nell’ambito di un tipo di suono che ha, di solito, il cruciale limite di essere restio al decollo) a far piombare l’intera sala in un brodo sonoro primordiale, tanto angoscioso quanto subdolamente affascinante e drogato.
Soddisfatti dell’esibizione decidiamo di rimanere per i White Out con Nels Cline. Non conosco per niente, ma decidiamo che i My Cat Is An Alien li potremo vedere più facilmente dalle nostre parti. A posteriori forse era meglio andare dal duo nostrano. I tre, per quel poco che siamo rimasti lì, hanno proposto una sorta di impro-rock piuttosto palloso e con poche idee [il recensore in seconda condivide fino a un certo punto e ha apprezzato, oltre alla perizia da musicista “vero” di Cline, il coraggio di un gruppo anomalo per il festival, dall’impostazione più seria e in linea con le avanguardie di fine anni ’90], ma chissenefrega, era un modo come un altro per perdere un quarto d’ora in attesa dei Wolf Eyes.

Il trio più brutale in circolazione arriva, si presenta come portabandiera del “fuckin’ Michigan” (ed è stata proprio la giornata del “fuckin’ Michigan” con loro, Dilloway, i Negative Approach, gli Stooges e gli MC5), spara diverse cazzate (quattro “fuckin” ogni parola), e tra urla e bordate industrial-noise, presenta il primo pezzo “Stabbed In The (fuckin’) Face”, al quale seguirà “The (fuckin’) Driller”. Non siamo stati in grado di riconoscere altro (vi sfido a fare di meglio, ndr), a parte “Burned Mind”. Vedere questi tre fenomeni dal vivo, nel bene e nel male, è un’esperienza.
L’atroce risultato nasce principalmente dal volume assordante, con i bassi che colpiscono dritti al ventre facendo tremare tutto quello che c’è dentro, e dalla monoliticità dei pezzi, i quali, a parte un paio di divagazioni in territori di degrado-ambient, sono più o meno tutti uguali, composti cioè da un battito lento e pesantissimo al quale vengono addizionati, senza senso della misura alcuno, power electronics e urla belluine.
Nel mentre il gruppo si agita come se suonasse metal con tanto di espressioni convintissime, headbanging, incitazioni del pubblico e Connely non fa mancare neanche il mulinello in stile Townsend (tra l’altro era sostanzialmente impossibile capire quale fosse il suono prodotto dal suo basso, per non parlare del pezzo di legno con una corda di Olson…). In più sembra che i Wolf Eyes dato il “poco” tempo a disposizione abbiano preferito tagliare corto concentrandosi sul loro lato bestia.
Insomma un contrasto tra musica e movenze alquanto sconcertante, che può provocare reazioni diverse e contrapposte, personalmente ho preferito buttarla in ridere e divertirmi nel restare assordato mentre quei tre scemi si agitavano sul palco, ma è indubbio che, tra il pubblico, c’è anche parecchia gente che li “vive” e li prende sul serio.
Un’esibizione, quella dei Wolf Eyes che, come da pronostico, è in grado di riassumere il senso ultimo della tre giorni, ovverosia il gusto che il pubblico di rockettari accorsi (e noi ci ficchiamo lì in mezzo) prova nell’autoproclamarsi ascoltatori di musica di merda, che poi sarebbe l’improbabile e cialtrona invocazione dello spirito del rock’n roll nel 2006.

Piuttosto stanchi e rintronati ci prendiamo una pausa e decidiamo di saltare i Negative Approach (stupidaggine madornale, a quanto pare, Sonic Youth e Wolf Eyes erano impegnati a pogare sul palco e col pubblico), e facciamo quindi un salto veloce a vedere quanto schifo fanno i Mouthus. Tanto. Sono due cialtroni, uno alla batteria e uno alla chitarra, che suonano roba senza capo né coda, per giunta con un sound complessivo di merda. Fossero almeno divertenti…
I Mouthus li dimentico all’istante quando realizzo che è tempo di prepararsi per Iggy & The Stooges. I fratelli Asheton (Ron alla chitarra e Scott alla batteria) e Mike Watt al basso sono già sul palco, defilato dietro agli amplificatori della chitarra c’è Iggy. A petto nudo e pantaloni mimetici aderenti, arriva al centro del palco saltando mentre gli Stooges attaccano a suonare, da lì in poi il delirio. Senza pausa e per tutta la durata del concerto Iggy si sgola, salta qua e là, si butta sulle nostre teste (letteralmente), simula un amplesso con un amplificatore durante “I Wanna Be Your Dog”. A sessant’anni è ancora l’animale da palcoscenico per antonomasia. Dietro a lui gli Stooges, raggiunti ad un certo punto da Steve Mackaye al sax, non sono stati da meno macinando riff poderosissimi senza sosta. La ciliegina sulla torta è stata “No Fun”, durante la quale Iggy ha chiamato sul palco una trentina di persone a ballare, mentre lui continuava a fare stage diving sul pubblico sottostante.
Uno spettacolo Rock coi controcazzi, insomma.

Sudati dalla testa ai piedi, stremati e ormai completamente sordi, corriamo verso il Crazy Horse dove la No-Neck Blues Band ha già iniziato a suonare da una decina di minuti. Premessa doverosa, la NNCK dal vivo è qualcosa di mistico, un rituale antico che si mescola ai bassifondi newyorkesi, dove lo sciamano di turno usa immondizia quotidiana (in questo caso un cartone di Stella Artois) per mascherarsi e portare avanti la cerimonia, un rituale che si esprime appieno in ambienti adeguati. Arrivare a concerto iniziato, sconvolti dagli Stooges e senza poter vedere più di tanto, non è certamente il modo migliore per lasciarsi trasportare, e quindi, riesco godermi appieno la No-Neck Blues Band solo dopo un momento di ambientamento che è coinciso con l’inizio della parte più ritmata dell’improvvisazione. Resta da dire che nonostante le premesse non siano state delle migliori la NNCK mi ha coinvolto nella sua spastica liturgia ancora una volta.
Restiamo al Crazy Horse per chiudere in una botta di frikkettonismo massimo il Nightmare Before Christmas 2006, ci sono i Sunburned Hand Of The Man. Da subito notiamo la doppia batteria e un numero sproporzionato di persone armeggiare sul palco. Iniziato quel polpettone informe che è la loro proposta musicale, ne contiamo una quindicina, ma è una stima dato che in molti salivano e scendevano dal palco. Due batterie (una in mano a Chris Corsano), un numero imprecisato di bassi e chitarre, vari gingilli elettronici, alcuni bastoni con dei guanti di gomma, un torso di un manichino, strumenti a fiato, diverse persone al canto (o meglio a declamare frasi) tra cui un trans con una parrucca fuxia che risponde al nome di Herb Diamante e che dovrebbe essere un crooner (nel 2006 ha pubblicato un disco solista su Abduction, l’etichetta dei Sun City Girls, ed è infatti stato visto più volte aggirarsi sotto al tendone del Butlins in compagnia di Alan Bishop). Tra tutte le quindici persone forse due o tre avevano un’idea sul da farsi, fortunatamente Corsano e, suppongo, un bassista avevano trovato una vaga intesa e riuscivano a contenere piuttosto bene lo svacco generale. Abbiamo una risposta visiva al perché di certi loro dischi. Sull’altro fronte il pubblico era in totale adorazione (uno si guardava la mano controluce, altri si impegnavano in pose plastiche più o meno studiate) con lo stage diving dei musicisti e soprattutto del manichino, preso poi a bastonate, infilzato e quindi sbandierato fino all’ovvia conclusione, e cioè che il tizio se l’è dato in testa iniziando a sanguinare copiosamente. Uno spettacolo più visivo che musicale, anche se in fin dei conti era tutt’altro che malvagio, ed è stato un bel modo di chiudere la nostra esperienza oltremanica.

Tre giorni quindi, tre giorni in cui ho visto, tra concerti interi e spizzichi vari, ventisei (uno in meno del mio rs, ndr) gruppi. Come già accennato, tanta abbondanza ha comportato scelte difficili, ad esempio si dice un gran bene dell’esibizione di MV & EE e avrei voluto vivere al fino in fondo il fantasma della Detroit del ’69 con gli Stooges ad aprire per gli MC5. Volevo vedere che gran casino avrebbero piantato i Magik Markers o Prurient, ero curioso di buttarmi nei droni magmatici di Hive Mind, fare il pieno di sguaiatezza rock con i Comets On Fire, cucinarmi completamente il cervello con tutto quel ben di Dio di musica di merda presente (Dead Machines, 16 Bitches Pile Up, Lambsbread, Monotract ecc.) o più semplicemente avrei voluto avere il tempo di finire quello che iniziavo a vedere.
Un altro inconveniente è stato l’errore degli organizzatori nello stimare il rapporto tra il pubblico e la capienza delle sale, provocando così lunghe code, anche se come si è già detto sono riusciti a risolvere convincendo i gruppi a suonare una seconda volta.
Ma a parte ciò è stato un festival memorabile, a partire dalla line-up irripetibile, per la quale andrebbe fatta una statua a Thurston Moore e alla rete di contatti e amicizie che ha saputo creare e che tiene in piedi da oltre vent’anni. Ma pure l’atmosfera che si respirava ha avuto un ruolo fondamentale. Il divertente contrasto tra il parco dei divertimenti e la musica proposta, la semplice voglia di svago (un universo opposto alle astiose manifestazioni pseudopolitiche nostrane) del pubblico, il vivere tutto senza stress (code a parte, ma nel complesso sono un dettaglio, personalmente ne avrò fatte due) o anche il rapporto di pacifica convivenza instauratasi tra musicisti e pubblico. Più volte abbiamo incrociato King Buzzo aggirarsi con l’espressione incazzosa che gli compete, oppure è capitato di beccare i Dinosaur Jr fare la spesa e assistere alla discussione tra Barlow e Murph sui biscotti da comprare, guardare i Sun City Girls fare gli scemi ai videogiochi, fregare sedie dal tavolo di Christina Carter o imbattersi ovunque nella colonia finlandese che ha scortato Islaja. Cose semplici e banali ma indicative del clima rilassato e giocoso che si respirava.
Un grande festival anche per questo.

(08/01/2007)

Setlist

Friday 8th December 2006

C
entre Stage ( Stage 1)

  • Dead C 1.15am - 2.15am
  • Sonic Youth (Show 1) 11.30pm - 12.45am
  • Iggy & The Stooges (Show 1) 9.45pm - 11pm
  • Melvins 8.15pm - 9.15pm
  • Flipper 7.00pm - 7.45pm
  • Nurse With Wound 5.30pm - 6.30pm

    Reds (Stage 2)
  • Prurient 1.15am - 2am
  • Bardo Pond 11.30pm - 12.45am
  • Deerhoof 10pm 11.00pm
  • Dead Machines 8.45pm - 9.30pm
  • Hive Mind 7.15pm - 8.15pm
  • Ashtray Navigation 6.00pm - 6.45pm

    Crazy Horse (Stage 3)
  • Fursaxa 1am - 2.00am
  • Charalambides 11.30pm- 12.30pm
  • Islaja 10.00pm - 11.00pm
  • Taurpis Tula 8.30pm - 9.30pm
  • Richard Youngs 7.15pm - 8.00pm
  • Family Underground 6.00pm - 6.45pm


Saturday 9th December 2006


Centre Stage (Stage 1)

  • Sonic Youth (Show 2) 11.30pm - 1am
  • Dinosaur Jr 9.45pm - 11.00pm
  • Gang Of Four 8.15pm - 9.15pm
  • Sun City Girls 6.45pm - 7.45pm
  • Wooden Wand 5.15pm - 6.15pm

    Red (Stage 2)
  • Comets On Fire 11.30am - 12.45am
  • Mv / Ee + Bummer Road 9.45pm - 11.00pm
  • Peter Brotzmann / Han Bennik 8.45pm - 9.45pmpm
  • Corsano/Flaherty/ C Spencer Yeh 7.30pm - 8.30pm
  • Mats Gustaffson + Eye 6.15pm - 7.00pm
  • Hair Police 5.00pm - 5.45pm
  • New Blockaders/Haters 3.45pm-4.45pm

    Crazy Horse (Stage 3)
  • Magik Markers 11.45pm - 12.45pm
  • Lambsbread 10.30pm - 11.15pm
  • Leslie Keffer 9.15pm - 10.00pm
  • 16 Bitch Pile Up 8.00pm - 8.45pm
  • Double Leopards 6.45pm - 7.30pm
  • Blood Stereo 5.30pm - 6.15pm



Sunday 10th December


Centre Stage (Stage 1)

  • Mc5/Dkt 12am - 1.15am
  • Iggy & The Stooges (Show 2) 10pm - 11.15pm
  • Negative Approach 8.15pm - 9.15pm
  • Wolf Eyes 6.45pm - 7.45pm
  • Awesome Color 5.30 - 6.15pm
  • Aaron Dilloway 4.15 -5.00pm
  • Major Stars 3.00pm - 3.45pm


Reds (Stage 2)

  • Be Your Own Pet 12 Am - 1am
  • Jackie-O Motherfucker 10pm - 11.15pm
  • Mouthus 8.45 - 9.30
  • Monotract 7.30pm - 8.15pm
  • My Cat Is An Alien 6.15pm - 7.00pm
  • The Notekillers 5.00pm - 5.45pm


Crazy Horse (Stage 3)

  • Sunburned Hand Of The Man 12.30am - 1.30am
  • No Neck Blues Band 11pm - 12am
  • Six Organs Of Admittance 9.15pm - 10.30pm
  • Alexander Tucker 7.45pm - 8.45pm
  • White Out w/ Nels Cline 6.15pm - 7.15pm
  • The Skaters 5.00pm - 5.45pm
  • Bark Haze 4.00pm - 4.30pm

ATP - Nightmare Before Christmas su Ondarock