22/11/2007

Editors

Piper, Roma


Mi sarei aspettato più cravatte a pois. E invece il numerosissimo pubblico accorso per il concerto romano degli Editors in un Piper letteralmente straripante si è rivelato molto variegato, anche sotto un profilo anagrafico, oltre che stilistico. Ma occorre cominciare dall’inizio ovvero da un navigatore satellitare sedotto dalle forze del maligno, convinto che il Piper si trovasse in una traversa della A24, salvo poi ravvedersi e suggerire, “se possibile” (testuale), un’inversione a U sul Grande Raccordo Anulare (avrà poi modo di vendicarsi al ritorno imponendo una gita fuori porta a Monte Mario per poi autodistruggersi lunga la strada per Grosseto, quando la meta avrebbe dovuto essere Latina). Fattori che hanno contribuito in modo non poco determinante (se a questo si aggiunge anche un orologio da polso ossessionato dalla discutibile opinione che un’ora duri novanta minuti) a che fosse praticamente impossibile assistere all’esibizione del gruppo di spalla, ovvero con tutta probabilità gli italianissimi Joycut, in giro per promuovere il nuovo album fresco di stampa.
Scendere le scale del famigerato locale romano ad ogni modo regala al rockettaro sentimentale un piccolo brivido lungo la schiena mentre la sua mente si volge al pensiero che quarant’anni fa, proprio dentro quelle mura, ebbe modo di esibirsi un gruppo di illustri sconosciuti chiamato Pink Floyd.

All’interno il caldo è sahariano e certo non giova una massiccia presenza femminile di livello medio-alto, con picchi di eccellenza davvero dolosi. La struttura interna dell’edifico è molto suggestiva e il fatto di avere i Carpacho! che ti guardano le spalle accresce la sensazione di essere parte (anche se ci si è dimenticati la cravattina a casa) di un piccolo grande mondo musicale che celebra il rito collettivo del pop nell’entusiasmo dei suoi adepti e sacerdoti minori. Gli Editors fanno un’entrata tutt’altro che trionfale e attaccano subito da dove tutto in fondo era cominciato due anni fa, da quella “Lights” che apriva “The Back Room”, con i suoi “I’ve got a million things to say” mitragliati sul pubblico delle prime file.
Il concerto prosegue alternando canzoni del primo e del secondo album e gli Editors dimostrano una padronanza pressoché assoluta del proprio repertorio, con riproposizioni talmente simmetriche e precise da rasentare quasi la pedanteria. Si compone così una sorta di piccolo greatest hits live che inanella le varie “An End has a start”, “Bones”, “All Sparks”, “Bullet”, “Spiders”, “The Racing Rats” e si concede il lusso di un paio di inediti (per lo meno sui due album), il secondo dei quali, nel bis, abbastanza intrigante.

Appare così chiaro che cosa siano gli Editors nel panorama rock attuale: una voce e una chitarra. Tutta l’esibizione si è infatti risolta in una conversazione tra il cantante Tom Smith e la chitarra di Chris Urbaniwicz. Il primo, insolitamente riccioluto e sottilmente denutrito ma assai dinamico, saltella, si contorce annodando le braccia in una camicia di forza immaginaria (ma forse è solo stretching), si rassetta di continuo i capelli, cambia spasmodicamente chitarra alla fine di ogni canzone, in un paio di occasioni si inerpica addirittura sul pianoforte come un novello Bruce Springsteen, coinvolge costantemente il pubblico (nel quadro comunque di un’esibizione molto aperta e partecipativa) e soprattutto dà sfoggio di una voce davvero invidiabile. Urbanowicz, da parte sua, sventaglia nell’aria le linee infuocate della sua contraerea chitarristica di scuola U2, rimanendo sempre molto fedele alle partiture originali, evitando di avventurarsi in regioni dell’anima troppo imprevedibili e pericolose.
La batteria appare invece un po’ legnosa, mentre il basso si attesta su un lavoro di sponda diligente ma puntuale e laborioso. Il pubblico risponde con battimani e cori imperiosi, la musica è più d’impatto che d’atmosfera (non per niente tutte le ballate più lente, alcune per altro tra le cose migliori degli Editors, vengono accantonate) e la differenza con gli zii newyorchesi Interpol non potrebbe essere più ampia.

“Munich” viene riproposta con un intro rallentato per esplodere poi abbastanza prevedibilmente qualche minuto dopo, con un trucchetto da vecchia volpe rock degno di un Liga qualunque, “Smokers Outside The Hospital Doors” (prima canzone dell’ultimo album) viene proposta nel bis, e ci si aspetterebbe che il concerto possa finire così, da un fine che è un inizio e da un inizio che è una fine, invece a chiudere è “Fingers In The Factories”, all’insegna del brit-rock più classico e schitarrante.
L’esibizione non dura neanche un’ora e un quarto, ma la cosa non sorprende chi conosce l’opinione degli Editors sulla durata ideale di un concerto rock. Nel complesso il bilancio è positivo. Gli Editors potrebbero diventare più bravi dei Coldpaly, anzi forse lo sono già. E la rabbia e la disperazione dei Joy Division che fine hanno fatto? Be’, forse avevano ragione loro, quelle in fondo non ci sono mai state.

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