Al Gromer Khan - Sitar, profumi ed elevazione

intervista di Filippo Bordignon

Compositore e sitarista a seguito di una formazione in India costata anni di servile apprendistato sotto il maestro Ustad Imrat Khan, il tedesco Al Gromer Khan, classe 1946, è tra i più radiosi esponenti della musica spirituale contemporanea internazionale. Il suo strumento figura su alcuni dei migliori album dei leggendari Popol Vuh, ma è in ambito solista che egli ha sviluppato uno stile personale.
Gli bastano un paio di prove irrisolte (il singolo “Uranus Venus” nel 1980 e l’esordio full length “Zuban” nel 1981) per poi centrare il bersaglio: “Divan I Khas”, nel 1984, parla il linguaggio di un quartomondismo al sapore d’Oriente, formula elevata alla massima potenza col successivo “In High Places”. Qui l’elettronica si affievolisce evitando la deriva manierista di certa new age, si adotta il bordone come punto di partenza e il sitar entra ed esce con una discrezione inaudita, un dettaglio che, proprio per questa ritrosia, abbaglia, manifestandosi in lontananza. Da lì in avanti sarà un’ascesa costante verso la rarefazione, mediante una discografia generosa che ancor oggi, dopo 45 anni di attività, cattura il lampo di una luce illuminante.
Quanto ad Al, egli minimizza su se stesso, pur concedendo, senza indugi, posizioni nette, ironiche e talvolta provocatorie; con l’eccezione della spiritualità, questione considerata, a ragione, privatissima, nella sua intima condizione dialogica con il Sacro. L’uomo che si professa Maestro - è regola incontrovertibile di ogni misticismo - perde automaticamente l’autorità per esserlo, sicché il compositore preferisce, saviamente, concentrarsi sulla silente contemplazione del proprio giardino interiore e sulla prolifica produzione di un lascito musicale orientato verso il sole dell’essenza, avendo intuito che l’Essente è sperimentabile a patto di spogliarsi, in ogni istante della vita, dai sovrappiù di sé stessi.

Al, da ragazzino, che ascoltavi?
Negli anni subito successivi al dopoguerra ero sempre attaccato ai programmi radiofonici statunitensi della AFN. Pensa che, ancor oggi, quando voglio entrare in un mood allegro, mi attacco Earl Scruggs col suo banjo. Ne consegue che tutto ciò che incido è in realtà ricavato da ogni stimolo possibile e immaginabile. Quindi, quando compongo, posso solo provare a mantenere la mia musica su un livello minimale, sottile, là dove “Il meno è più”. Ma anche in un contesto formalmente minimale, il focus deve restare il “soul”.

La parola “profumo” compare spesso nei titoli dei tuoi album e brani: quale significato simbolico le attribuisci?
Beh, non apprezzo il simbolismo in quanto tale; non mi piace l'idea che una cosa ne rappresenti necessariamente un'altra. Credo anzi che il simbolismo uccida l'arte, le attribuisca un’immagine che risulta, giocoforza, svilente, invece di incarnare qualcosa di nuovo e originale. Detto ciò, il profumo per me è più che altro una sorta di ambiguità, un “elemento poetico” insito nelle arti o, se preferisci, qualcosa che la mente razionale non riesce a cogliere e che, non appena lo si intercetta, scompare, pur conferendo a chi lo ha percepito un assaggio del sublime. Il profumo sa far questo ma, ovviamente, non ci sono garanzie a riguardo.

Il tuo stile al sitar: in alcuni momenti, sembri più vicino al migliore Ry Cooder acustico, e dunque a un approccio sostanzialmente occidentale, piuttosto che a maestri dell’oriente quali Ravi Shankar.
Buffo che tu abbia citato Ravi. Nel 1966, quando vivevo a Londra dopo essermela battuta dalla chiamata del servizio militare tedesco, l'India cominciò a insinuarsi nella vita di noi giovani e, più o meno per caso, entrai in un piccolo club di Soho, il Singers Club; c'erano due giovani uomini seduti su una specie di palco rudimentale: erano appunto Ravi e Alla Rakha, suonatore di tabla e futuro padre di un altro suonatore di tabla arcinoto, Zakir Hussain. A sentirli, non più di 30 persone, soprattutto pakistani, con i loro migliori abiti scuri e cravatte, e alcuni hippie, vestiti con camicie kurta coloratissime e decorate, ovviamente, con motivi floreali. I due hanno iniziato con un andamento molto lento e, intanto, i pakistani scuotevano la testa.

Non apprezzavano?
A dire il vero, solo più tardi scopersi che quello scuotere la testa per loro era in realtà sinonimo di apprezzamento. Quanto all’esibizione, non mi impressionò. Per me la musica indiana era finita lì.

E allora, dove nasce la tua venerazione per il sitar?
Il sitar, e tutto ciò che ci gira attorno, iniziò in me a partire da Vilayat Khan. Lui era il grande mago. Tutto è iniziato col suo concerto all'Abbazia di Westminster, nel '67. Mi sono seduto e subito mi ha preso una specie di ipnosi. Il maestro iniziò la sua musica con una lenta ornamentazione melodica e, nel giro di pochi minuti, le lacrime hanno cominciato a scendermi sulle guance. Solo al termine dell’esibizione - erano passate oltre due ore - sono tornato alla normalità. Uscito dalla sala, mi son detto: devo farlo anch’io. Così, durante i decenni successivi, non ho fatto altro che esprimere, attraverso la musica, quel qualcosa che avevo scoperto di avere dentro e che, evidentemente, voleva manifestarsi all’esterno.

Nessuna relazione, dunque, con i chitarristi dell’occidente pop-rock?
Diciamo che non impazzisco per gli assoli lunghi, alla Eric Clapton, né per i virtuosi tipo John McLaughlin che, nel ’68, mi chiese di vendergli uno dei miei sitar. Avendo lui discendenze scozzesi, non riuscimmo ad accordarci sul prezzo. Prediligo quei musicisti che creano piccoli riff che poi diventavano rituali magici.

Un esempio?
Il riff suonato da Hubert Sumlin in “Smokestack Lightening” di Howlin’ Wolf, o l'intro di Keith Richards in “Gimme Shelter”, o l'intro di George Harrison su “I Feel Fine” dei Beatles. Di T-Bone Walker, a esempio, ho amato tutto ciò che ha fatto, sia l'atmosfera che creava con la chitarra e la sua voce blues, sia il suo modo di esibirsi dal vivo.

Qual è il consiglio più prezioso che ti ha dato il tuo maestro, Ustad Imrat Khan?
Diceva cose tipo: “L’un per cento ispirazione e il novantanove per cento fatica e sudore”. Ma anche: “Non incolpare il tuo strumento, ma te stesso”.

Riascoltando l’album “Zuban” non capisco dove volessi andare a parare: è una prova da studio lontana dalla purezza manifestata negli album successivi.
Negli anni di formazione si tende a cercare qualcosa che ci relazioni con i vari trend del momento. Ma, ahimé, di solito è un’attività illusoria. A Monaco ho lavorato con diversi giovani e ho imparato a lavorare in studio di registrazione. Però, guardando indietro, ho compreso che quello che si cerca non si trova. Musicalmente parlando, certe cose non si connettevano le une alle altre e non si manifestava il giusto “stato d'animo”. Inoltre, le persone con cui ho sperimentato al tempo hanno pubblicato quel materiale alle mie spalle, senza il mio consenso. E non si scappa: ogni volta che ho tentato di vendere la mia anima, per così dire, in quei primi anni, facendo qualcosa di commerciale per non dovermi preoccupare delle bollette, si è rivelato un disastro colossale. L'album “Kama Sutra” ne è stato un ottimo esempio, anche se ci sono delle parti di sitar piuttosto buone.

Di tutti i musicisti che hai incontrato, chi ritieni avesse raggiunto il maggiore livello di consapevolezza spirituale attraverso la propria arte?
Ce ne sono così tanti di grandi, a modo loro. Musicisti che, nelle diverse fasi di crescita della tua vita, ti mettono in uno stato d'animo di pura emozione. La musica più rivelatrice che ho ascoltato in vita mia è stata la musica classica persiana che ho scovato grazie alla radio a onde corte e che ho registrato su cassetta, a Bombay, nel ‘72. Per quanto riguarda il sitar: Vilayat Khan, per me, ha abbracciato tutta la musica per sitar, tutta la musica classica e tutta la musica mondiale.

Suppongo che la sua grandezza non derivasse da sole competenze tecniche.
Infatti si trattava anche della sua personalità, del suo alto e raffinato senso estetico. Vilayat avrebbe potuto starsene seduto lì a fumare un bidi, la tipica sigaretta indiana con tabacco avvolto in una foglia di tendu, e sarebbe stata comunque un'esperienza degna di nota. Ma quando si parla di evoluzione spirituale, è sempre difficile esprimersi compiutamente attraverso le parole. La spiritualità, per come la vedo oggi, dovrebbe restare una cosa intima e privata. Aborro i musicisti che fanno un gran parlare del loro credo religioso.

Cosa vuoi ricordare della tua collaborazione con i Popol Vuh di Florian Fricke?
Ammetto che, in quei giorni, ero troppo ossessionato dalla pratica del sitar e tutto il resto ruotava esclusivamente intorno alla mia sopravvivenza e alla necessità di raggranellare denaro a sufficienza per passare la stagione invernale in India ad approfondire le mie conoscenze e la pratica. A essere onesti, non riuscivo a immedesimarmi in quello che i Popol Vuh cercavano di fare. Però c’è un ricordo che serbo nel cuore, una di quelle cose che non si possono scordare: una volta chiesi al regista Werner Herzog di prestarmi 200 marchi per pagare una sessione di sitar, e lui mi disse: “Senti, so quanto è complesso suonare quello strumento, perciò lascia che te ne dia 400”. Gli volevo un gran bene.

Il tuo pensiero su Fricke, compositore e uomo?
Era un individuo che lavorava servendosi di una sorta di guida interiore, e questo mi piaceva molto. Non posso negare di aver condiviso con lui alcuni momenti piacevoli, ai Bavaria Studios. Di solito, inoltre, quelle session, mi venivano pagate bene, perciò fu certamente una cosa buona. Il suo uso di alcol e droghe, invece, quello non mi andava proprio giù.

Di tutti gli album dei Popol Vuh, ce n'è uno che non si menziona mai, eppure vibra di grande intensità: “Yoga”.
Eheheh… diciamo che in quell’occasione Florian ha solo preso parte a qualcosa che è stata una mia idea, un mio lavoro, e il mio suonare insieme a dei “musicisti indiani” (così sono stati genericamente liquidati i partecipanti nel retro copertina) che ho scelto io. Lui si era limitato a tenere un bordone con l’harmonium.

Ti chiederei un pensiero su un personaggio poco conosciuto, un suonatore di tampura e autore di una nutrita discografia che ha pure militato nei Popol Vuh: Klaus Wiese.
Guarda, solo pochi minuti fa ho scritto alcune cose su di lui! E quando ho provato a tornare al testo per ultimarlo, non l’ho più trovato, era andato... probabilmente mi ha rifilato ancora uno dei suoi trucchetti, il buon vecchio Klaus. In passato ho scritto compiutamente del nostro rapporto: era un amico, con tutte le implicazioni del caso. E la vera amicizia, lo sai, può avere anche delle fasi burrascose. Non è un problema. Grazie a lui ho imparato un paio di cose molto importanti. Era anche una delle poche persone che comprendevano esattamente cosa stessi cercando di fare con il mio umile lavoro. Che la pace sia con lui.

Non mi è chiaro qual è il contributo di Wiese allo straordinario “The Alchemy Of Happiness”: l’album è a nome di entrambi ma non mi risulta che lui ci abbia suonato o composto qualcosa.
Klaus sapeva quando un'opera musicale aveva “energia” e quando no. Ute - mia moglie, nonche amministratore delegato di Khanart e “regina di tutti i tempi dell'universo a me conosciuto” - pure lei mi aveva chiesto quale fosse il contributo effettivo di Klaus a “The Alchemy Of Happiness”. Le ho risposto come rispondo a te: “Gli è piaciuto”.

Cosa ne pensi della sua cospicua produzione discografica?
Consentimi un pizzico di autoironia, nel risponderti che ho cercato più volte di dissuaderlo dal fare musica, ma non mi ha dato retta.

Dei tuoi tanti viaggi, il luogo che li supera tutti?
L'India resta il top! Da un momento all’altro poteva mutare da paradiso a inferno. Quando vi arrivai, alla ricerca di una Terra Promessa dello spirito, rimasi dapprima scioccato da certi comportamenti socialmente insensibili degli indiani, dall'incessante e insopportabile suono dei clacson nelle strade trafficate delle grandi città, dall'intollerabile baccano del pubblico durante le parti più delicate dei concerti di Vilayat Khan. Ci si chiede, come può una cultura aver dato vita a una magia così raffinata, a un amore spirituale così disinteressato, e allo stesso tempo a qualcosa di così sciocco e grossolano come l'Holi Festival?

La tua prima reazione, arrivato in India?
Shock. I servitori venivano trattati come schiavi. Il rumore e i colori sgargianti mi fecero rabbrividire. Percepivo la spietatezza dei ricchi e della borghesia - sedicenti guru della modernità - nei confronti dei poveri e di chi era in difficoltà. Anche il mio famoso insegnante di musica, Imrat Khan, ha mostrato con me un atteggiamento straordinariamente spietato attraverso una serie infinita di richieste. La situazione non è migliorata molto durante la “rivoluzione high tech” indiana degli ultimi quarant'anni. Forse è il caso di fare un po' di auto-analisi, in questo momento. Dove sono mistici come Meher Baba o il Mahatma Gandhi, quando se ne ha più bisogno?

Nei tuoi folli anni formativi, c’è persino una jam session con Marc Bolan.
Nel periodo londinese in cui ho vissuto a Wardour Street, a Soho, tra il ’66 e il ’67, molte persone passavano per il mio appartamento, che era sopra al St. Morris Club. Di solito qualcuno tirava fuori la chitarra acustica, si accendevano le canne, si serviva il tè e si “partiva”. Quel periodo, e tutta la così detta “Summer of Love”, fu davvero molto divertente. Marc, nonostante la sua fama, non era uno dei personaggi più intriganti. Lo ricordo cantare qualcosa tipo “Find a little wood and have a little sleep” (“Troviamo una bosco carino e facciamoci una dormitina”). Era appassionato di spiritelli, fate e hobbit, tutto ciò che contenevano i libri di Tolkien, insomma. Finché, qualche anno dopo, non si trasformò in una riedizione di Chuck Berry.

Ti ha introdotto alla poesia inglese, invece, nientemeno che Cat Stevens.
Meditavamo su massime di William Blake quali “È più facile perdonare un nemico che perdonare un amico”. Libri come “I canti dell’innocenza” erano spesso motivo di dibattito. Gli hippie, in generale, erano in fissa con Blake. Steve, come lo chiamavamo noi, nel periodo in cui ci siamo frequentati assiduamente, tra il ’69 e il ’70, stava passando attraverso la sua prima metamorfosi: da fenomemo pop per adolescenti ad artista folk rock. Parlavamo tanto anche di Charles Dickens.

Come funzionava, tra voi?
Di solito mi chiamava dicendo semplicemente: “Posso passare?”. Sapevo che ci saremmo seduti per terra e lui avrebbe rollato un po' di libanese rosso o di marocchino verde. Prendevamo il tè e parlavamo, oppure strimpellavamo chitarre e percuotevamo i bonghi. La letteratura veniva discussa soprattutto in termini di fonetica e semantica, in relazione ai testi delle canzoni. Abbiamo vissuto insieme delle storie che non potrei mai rivelare. All’epoca, grazie al mio lavoro presso il jazz club di Ronnie Scott, ho familiarizzato con molta gente in voga, tipo i Walker Brothers, Georgie Fame o Ronnie Lane degli Small Faces. Ma l’amicizia più stretta fu con Steve.

Cosa vi ha allontanati?
Nell’estate del ’70 partii per il Marocco e ci restai per un lungo periodo. Non so se ha mai letto il mio romanzo “Kurt e Bongo”: certamente individuerebbe molte somiglianze con uno dei personaggi.

Confermi che ci sei tu ai cori della commovente “Fill My Eyes” di Cat Stevens?
Sì, alcune volte l’ho accompagnato durante le session di registrazione, di solito agli Olympic Studios di Barnes, nella zona ovest di Londra. Quella volta specifica, al ritorno, a notte fonda, nel West End di Londra, mi chiese se volevo essere pagato per i cori. Gli dissi: “Lascia perdere, non è niente”. Nel corso del tempo, invece, mi offrì delle deliziose cenette indiane; era molto generoso, da quel punto di vista. Una volta andai al Pye Studio a Marble Arch, dove stava lavorando a una canzone col cantante reggae Jimmy Cliff. La canzone si chiamava “Honey Man”. Lì ho suonato le percussioni e il tamburello, ma “Honey Man” non fu mai pubblicata. Secondo me, il produttore, Jimmy Miller, considerò il testo troppo gay.

Come nasce la tua attrazione per la scrittura?
Ebbene, c’è da dire che, per tutta la vita, ho tenuto il naso in un libro. Da giovane, poi, ho avuto la fortuna di avere una insegnante di tedesco che mi piaceva molto; una volta, infatti, mi deve aver dato un bel 10. Ma, scherzi a parte, c'è stato un periodo, circa un quarto di secolo fa ormai, in cui ho avuto la sensazione che la mia musica non fosse compresa per quello che era, che fosse etichettata e relegata in categorie che non le si addicevano affatto; ho pensato davvero che la maggior parte dei “consumatori” fossero più contenti se venivano serviti loro brani con cui avevano familiarità, piuttosto che rischiare con qualcosa che li avrebbe potuti portare in regni a loro sconosciuti. Quindi, per districarmi in questa situazione poco piacevole, ho pensato: scriviamo! Ed è stato molto divertente farlo: dopo alcune false partenze, ho imparato le regole di base e ho trovato un mio stile che mantenesse un ritmo quieto ma anche avvincente.

La regola principale, per uno scrittore?
La regola numero uno è dire la verità su ciò che è realmente accaduto, e poi modificarlo un po’, per adattarlo alla storia che hai in mente. Perché la storia di base, deve provenire dalla vita reale, da fatti accaduti veramente. Citando Goethe, “Rifatti a ciò che esce dalla bocca della gente comune”.

Con “Future Lounge” (2002) hai compiuto un ulteriore passo avanti verso la rarefazione.
Quella è stata una delle rare occasioni in cui la prima fase per il concepimento di un album è stata basata su delle immagini. Il mio vecchio amico Nick Campbell, del famoso studio di architettura londinese CZWG, aveva progettato dei loft che mi piacevano da matti. Era la fine degli anni 80. Ho pensato che sarebbe stato bello derivarci una sorta di musica ambient alla Brian Eno. E Nick mi ha permesso di usare un loro scatto fotografico come copertina.

“Perfect Day”, nel 2024, è un’altra dimostrazione del tuo inarrestabile percorso sulla via dell’essenza.
Mi preme solo essere in grado di lavorare con spontaneità a partire da un'idea, magari da un paio di semplici frasi melodiche, in uno speciale stato interiore, quando, cioè, sono appena stato baciato da una Musa.

L’elettronica nei tuoi album possiede un evidente calore: come ci si riesce?
Beh, inizio con qualcosa e poi, dopo aver preso qualche decisione di carattere compositivo o riguardo gli arrangiamenti, comincio a rimuovere le cose non necessarie per quello spazio, come quando si vuol riordinare una stanza incasinata per sentirsi a proprio agio. Ecco, in questo senso sono una specie di designer d’interni ed è a partire da questa condizione che, come ci ha insegnato il nostro profeta Eno, è nata la musica ambient.

In alcuni tuoi album consigli l'ascolto a un volume basso. Quali sono i vantaggi di un ascolto a questo volume?
Il motivo è il seguente: da ragazzo, vivendo in un paese alpino, talvolta, di notte, sentivo la musica risuonare da lontano. Ecco, successivamente ho voluto ricreare quella reminescenza, che è diventata dunque una modalità d’ascolto e che, per me, funziona ancor oggi.

Cosa ti ha deluso, del movimento hippie?
Come per ogni altro evento nella storia, la fine di un movimento coincide con la sua perdita dell’innocenza. Ciò avviene quando le forze “sullo sfondo” iniziano a usare un movimento fresco e stimolante per i loro scopi, sostituendo il concetto originale con uno fasullo. Come si dice, Satana non è il diavolo, ma un surrogato (di Dio, ndr).

Come ritieni sia cambiato il popolo tedesco, dai Sixties a oggi?
I tedeschi sono come sono sempre stati: cupi, carenti di ironia, rancorosi e invidiosi, sempre allineati alle maggioranze, inclini a passarti davanti al mattino senza salutarti. Però, amo vivere a Monaco, perché è una città con un'anima tutta sua, dotata di una sorta di sottile umorismo che spunta fuori quando meno te lo aspetti.

E la vostra classe politica?
Ti citerò Shankar: “La politica è sempre una cosa sporca”.

Essendo considerato tra i pionieri di ambient e new age, ti chiedo chi apprezzi all’interno di questi generi?
Non sono un appassionato né di new age né di ambient, soprattutto di quella ritmata da una grancassa dance. Lo stesso Eno, che dell’ambient è il teorizzatore, ha dichiarato di non riconoscerla più, oggi, se paragonata alla sua idea iniziale. Però l’album “Discreet Music” mi piace, eccome. Per la new age invece farò mia una dichiarazione altrui, che l’ha definita “la bastardizzazione dell’occultismo Blavatskyano tardonovecentesco con la cultura hippie degli anni 60”.

Definizione tranchant…
È uno stupido, odioso miscuglio di orientalismo fittizio, medicina ciarlatana, pseudo storia, orribili musiche cristalline, vaporosa autoinduilgenza e guru milionari che professano l’auto-guarigione. È peggio della religione, anzi: se la religione fosse birra, la new age sarebbe la versione light.

Un rimorso che ti ha accompagnato a lungo?
Essere stato troppo ingenuo quando certe persone di cui mi fidavo mi hanno raggirato. Questo è accaduto per decenni. Non avevo idea delle loro strategie, finché non è stato tardi. Quindi, da questo punto di vista, sarebbe stata una buona idea dimostrarmi più pragmatico e realista, invece di proiettare ideali di amicizia su persone che hanno abusato della mia buona fede. Forse, chissà, in una vita futura…

C’è, nella tua anima, un avversario che non sei riuscito a sconfiggere?
Sì. Posso essere terribilmente diretto. Nel corso degli anni ho ferito la sensibilità di alcune persone che, a ben guardare, avevano buone intenzioni nei miei confronti. Ho ancora i sudori, quando mi tornano quei ricordi. Posso solo sperare di essere stato perdonato.

Questa è di Rabindranath Tagore: “La fede è l’uccello che percepisce la Luce e canta, quando l’alba non è ancora giunta”.
Strano che tu citi proprio Tagore. Sai che, nel 2016, mi è stato assegnato il Premio Tagore per la Cultura? Ebbene, l'ho restituito quando ho saputo che dovevo “condividerlo” con uno sconosciuto studioso accademico. Quanto alla fede, beh, è un tema strano. Sembra che la maggior parte delle persone la intenda come un forzarsi a credere in cose che il proprio istinto rifiuta. Esiste invece un principio sufi chiamato “iman”, che può essere tradotto con “certezza” e vuol intendere quando l'intuizione suggerisce qualcosa in modo così prepotente da renderla certa. Ma suppongo che Tagore vi scorgesse l'elemento poetico insito nelle più alte manifestazioni della verità e delle emozioni. E qui sono d'accordo con il buon vecchio Rabindranath.

Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista?
Che non lavori sotto altri padroni, eccetto te stesso.

Discografia

Yoga (1976)
Zuban (1981)
Divan I Khas (1984)
Hymns Of Secret Glory (1984)
In High Places (1985)
The Neuschwanstein Tapes (1986)
Kama Sutra (1986)
Chai And Roses (1987)
The God Perfume (1987)
Music From An Eastern Rosegarden (1989)
Kama Sutra II (1989)
Mahogany Nights (1990)
Tabris (1991)
Perfect Day, 2024 Ras
The God Perfume II (1992)
Utopia (1992)
Beautiful Marva (1993)
Attar – Musik Als Parfüm (1994)
Konya (1994)
Monsoon Point (1995)
Black Marble And Sweet Fire (1996)
Space Hotel (1997)
Marco Polo/ Tan Dun (1997)
Tantra Drums (1998)
Kamasutra Experience (1999)
Almond Blossom Day (1999)
Lexus (2001)
Future Lounge (2002)
Indian Music (2002)
Tantra Electronica (2004)
Savoy Tea Time (2004)
The Alchemy Of Happiness (2005)
Turya (2006)
Radio Yoga (2007)
Another Kind Of Silenc (2007)
Indian Music II (2008)
Negus (2008)
Lanoiah (2008)
Sitar Secrets (2009)
Future Song (2010)
Foret Diplomatique (2011)
Far Go (2013)
Inner Witness (2014)
Tibet Shakti (2015)
Day Of The Beloved (2016)
The God Perfume (2017)
Sky Worship (2018)
Durga Avenue (2018)
In High Places (2019)
Silence In A Blue Room (2019)
Once Again The Night (2020)
Singing Back To Ziryab (2021)
A Gentle Aspect (2021)
Ambient Religion (2022)
Tariqa (2023)
Perfect Day (2024)
Pietra miliare
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